OLTRE OGNI PARADOSSO
di Massimo Naro *
Se dovessimo chiedere un suggerimento alla storia dell’arte per
raffigurare la Pasqua di quest’anno, cosa ci risponderebbe?
Se dovessimo chiedere un suggerimento alla storia dell’arte per
raffigurare la Pasqua di quest’anno, dovremmo guardare in direzione di Giotto,
del Beato Angelico, di Tiziano e di tanti altri maestri, più o meno noti,
italiani ma non solo, lontani nel tempo o più vicini a noi, tutti autori di
affreschi e quadri che riscrivono in punta di pennello l’apparizione del
Risorto a Maria di Magdala presso il sepolcro ormai svuotato, narrata
dall’evangelista Giovanni. “Noli me tangere” s’intitolano solitamente questi
capolavori: “Non mi toccare”, secondo il senso scelto da san Girolamo nel
tradurre in latino l’originale greco.
Un esito paradossale della vicenda del Cristo, se si pensa che per le
strade dell’antica Palestina, dentro le case affollate o sulla barca
strapazzata dai flutti, egli s’era fatto toccare, afferrare e finanche
strattonare dalla gente desiderosa di vederlo e d’ascoltarlo, ancor più di
farsi curare e guarire da lui, come nel caso della donna affetta da emorragia.
E lui stesso non aveva avuto paura di lasciarsi contagiare dai lebbrosi,
disposto persino a sostituirli come bersaglio del pregiudizio negativo di chi
li considerava impuri e peccatori. Nondimeno, proprio quando si mostra
vittorioso contro la morte, si ritrae ed evita il pur minimo contatto.
La Pasqua che le superiori disposizioni prospettano, anche in sede
liturgica, si lascia appunto “immortalare” da questo classico tema
iconografico. Esso, difatti, rappresenta efficacemente le istanze del
cosiddetto distanziamento sociale – paradossale nuovo sinonimo di coesione
sociale – e ammicca suggestivamente a una fitta serie d’altri odierni
paradossi: per esempio quello delle chiese chiuse per ottemperare alle misure
profilattiche decretate dal governo, in giorni drammatici in cui per un verso
l’osservanza dei doveri diventa eroismo e per altro verso al lavoro nero è
riconosciuta la dignità dell’ammortizzatore sociale, mentre una pur esigua
assemblea orante diventa assembramento da impedire e l’anelito a un’azione
volta alla santificazione di chi ci crede deve cedere il passo all’urgenza
della sanificazione.
Così la preghiera si traduce in flash mob e l’omelia in performance
(spesso molto eccentrica, ma poco performativa). E i preti si ritrovano a
rappresentare, a porte sbarrate, tutti gli altri battezzati come amministratori
unici del memoriale dell’evento pasquale, proprio loro che, nelle nostre
regioni settentrionali, stanno offrendo la loro vita anche negli ospedali,
morendo a decine accanto agli altri ammalati, benché non vengano notati e
neppure menzionati da chi scrive intere pagine di giornale dedicandole a “chi
rischia di più ed è senza voce”, dai poliziotti alle baby sitter, dagli
operatori sanitari a quelli ecologici, dalle commesse del supermercato ai
rider, dai detenuti agli agenti penitenziari, dai farmacisti agli autisti del
bus, da chi non ha internet a casa a chi fa ginnastica in casa.
Certamente, alcune di queste varianti del paradosso non hanno granché a
che fare con il profilo prettamente spirituale della Pasqua. Maggiormente
attinenti al significato autentico della Pasqua sono i paradossi che sembrano
depotenziarla fino a renderla evanescente, togliendole ogni spazio concreto nel
vissuto dei cristiani, privandola del luogo in cui essa s’è sempre celebrata,
ossia la mensa eucaristica davanti alla quale si dovrebbe radunare il popolo
credente.
Eppure, tutto ciò non deve indurci a presumere che quest’anno la Pasqua
non possa veramente esserci. Il Dio biblico interviene, proprio tramite la
Pasqua di Cristo, a santificare un tempo più che uno spazio: il sabato
genesiaco, al culmine della sua fatica creatrice, e l’”ora” di cui il Maestro
di Nazaret parla insistentemente nel vangelo secondo Giovanni. Verrà l’ora,
anzi viene già, dice Gesù alla samaritana presso il pozzo di Giacobbe, in cui
Dio si lascia incontrare non più in un tempio, o presso un qualsiasi altro
luogo sacro, bensì “in spirito e verità”. Per questo a Maria di Magdala ripete
che non può più toccarlo o trattenerlo: non per intimarle un divieto, come
quelli a cui ci stiamo abituando, ma per ricordarle il senso di ciò che aveva prima
tante volte insegnato.
Conviene accogliere, lucidi e consapevoli, l’ora che sopraggiunge: nello
stesso vangelo di Giovanni, qualche riga dopo l’episodio in cui si legge
dell’incontro tra Maria e Gesù, si legge ancora che a sera il Risorto va a far
visita ai suoi discepoli, rinchiusi dentro il cenacolo di Gerusalemme,
terrorizzati da ciò che era accaduto e preoccupati di subire la stessa sorte
del loro Maestro, messo in croce sul Golgota. Tra di loro non c’è Tommaso, che
quindi non ha l’occasione di vederlo. Dopo una settimana dal giorno della
risurrezione, il Cristo torna a visitare i suoi amici, tra cui c’è stavolta
pure Tommaso, dal quale Gesù si lascia di nuovo toccare sulle piaghe ancora
aperte nelle sue mani e nel suo petto.
Caravaggio, in una straordinaria tela esposta nelle Gallerie d’arte di
Potsdam, immagina la scena, facendo dell’intreccio tra la mano destra di
Tommaso e la sinistra di Gesù un interrogativo per le nostre intelligenze e le
nostre coscienze: dovremo essere noi a voler ancora toccare il Cristo, mentre
lui vorrà proteggersi da questo nostro desiderio, oppure sarà lui stesso a
guidare il nostro dito dentro il suo corpo dischiuso? E, ricordando il monito
che papa Francesco insistentemente ribadisce, dobbiamo altresì chiederci se – dopo
aver superato la paura della pandemia – saremo disposti a prendere una buona
volta contatto con quelli che il pontefice addita come “la carne di Cristo”, i
più piccoli e più deboli tra di noi, i più poveri e i più abbandonati. Dalla
risposta che sapremo dare dipenderà la Pasqua della nostra intera esistenza, il
passaggio a una nuova visione della vita.
Non sembri uno scivolone retorico. È semmai la sintesi della migliore
tradizione cristiana: già in epoca patristica san Giovanni Crisostomo diceva
che il povero è l’alter ego del Crocifisso. Nella seconda metà
dell’Ottocento, a Palermo, il beato Giacomo Cusmano diceva ai suoi
collaboratori che il povero è l’ottavo sacramento e come tale rende presente
qui e ora il Cristo. Solo qualche anno fa Olivier Clément, in Francia, ripeteva
che il povero è un sacramento del Risorto. Lì, in Francia, lo aveva preceduto,
di qualche secolo, san Vincenzo de’ Paoli, che nella prima metà del Seicento
aveva dichiarato che se un povero bussa alla porta della chiesa mentre dentro
vi si sta pregando, ci si può alzare e dargli conto, sicuri che così si lascia
Dio per Dio.
*don Massimo Naro, docente
di Teologia sistematica nella Facoltà Teologica di Sicilia
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