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sabato 18 maggio 2024

ALLA RICERCA DI UNA NUOVA PAIDEIA


 Nel tempo 

della grande complessità



 Pubblichiamo ampi stralci della Lectio doctoralis del professor Mauro Ceruti pronunciata in occasione del conferimento della laurea honoris causa da parte dell’Università di Foggia il 16 maggio scorso.

 Per la prima volta la fraternità si definisce in un orizzonte “concretamente universale”. Nessuno si può salvare da solo Siamo tutti sulla stessa barca, la Terra

Stiamo scoprendo di abitare un mondo indisponibile, che resiste al nostro progetto di dominio. E che diventa sempre più incontrollabile

Dobbiamo indossare occhiali diversi e rigenerare il pensiero, oltre la crisi cognitiva: le conoscenze non possono più essere separate, c’è un legame irriducibile tra tutte le cose

 

-         di MAURO CERUTI

  Già negli anni Novanta del secolo scorso, a dispetto di chi profetizzava la fine della Storia, mi pareva urgente riconoscere che eravamo entrati in un’età di crisi, di rumore e furore, di progressi e di regressi, e anche, correlativamente, nel giro di boa dei cinque secoli di planetarizzazione dell’umanità, con la tessitura di una sempre più stretta interdipendenza. In modo ineludibile, la sfida della complessità emergeva dal passaggio d'Epoca che sconvolgeva il nostro tempo. Oggi sta emergendo una nuova condizione umana, attraverso un inedito e simultaneo aumento di potenza tecnologica e di interdipendenza planetaria. Nel mondo globale tutto è connesso, tutto è interdipendente con tutto. In una circolarità continua, in cui tutto è sia causa che effetto.

È ciò che stiamo vivendo attraverso le crisi globali (la pandemia, il riscaldamento globale, la guerra…), che ci rivelano la complessità del nostro mondo, in cui ogni evento locale può comportare conseguenze che si amplificano su scala globale, e in cui perciò tutto può cambiare in modi improvvisi, imprevedibili. Il “battito d’ali di una farfalla” nel cielo della regione di Wuhan, in Cina, può avere effetti importanti sul “tempo” che farà nel mondo intero, pochi giorni dopo… Un virus microscopico ha reso macroscopica la complessità, l’interdipendenza del mondo globale, la multidimensionalità, l’incertezza, l’intrico dei problemi. Il sipario sulla complessità si è rialzato. E, questa volta, non è stata solo l’esperienza di pochi scienziati in un laboratorio. La complessità traspare dall’esperienza delle faglie sistemiche del nostro mondo, che tutti stiamo facendo nella vita ordinaria e quotidiana. M a dobbiamo riconoscere qualcos’altro di ancora più radicalmente inedito. La rilevanza delle tecnologie aveva diffuso l’illusione che ci saremmo sempre più affrancati dalla natura. Non è stato così. Le società, certo, sono sempre più indipendenti dagli ecosistemi locali. Ma la sopravvivenza stessa dell’intera umanità rimane strettamente interdipendente all’interno di un “unico immenso ecosistema globale”. Nel momento della nostra massima potenza tecnologica, siamo portati a riconoscere che non siamo esterni al mondo che conosciamo, che abitiamo e su cui agiamo, ma che siamo una parte che interagisce con altre parti. Siamo entrati in una nuova era della storia della Terra, dai geologi definita Antropocene: la Terra è diventata un unico sistema dinamico complesso, autoregolato, con componenti fisiche, chimiche, biologiche e anche umane: perché l’umanità è diventata una grande forza della natura.

 A causa di questo “groviglio di inestricabile complessità”, è finita per sempre la possibilità di distinguere tra storia umana e storia naturale. E si riduce bruscamente la differenza di magnitudine tra la scala della storia umana e la scala temporale geochimica e geofisica, al punto di potersi invertire: il nostro ambiente potrebbe oggi cambiare più rapidamente della nostra cultura, peraltro proprio per l’impatto della nostra stessa cultura. Le “catastrofi” ricorrenti e improvvise legate al riscaldamento globale lo stanno manifestando. Scopriamo di abitare un mondo “indisponibile”, che inficia il progetto moderno di un dominio umano sempre maggiore: un mondo diventato indisponibile proprio per l’incremento esponenziale della quantità di informazioni prodotte e disponibili, nonché per l’intensificazione dei fenomeni di interazione e di retroazione, sul piano dei rapporti umani e sociali e sul piano dei nostri rapporti con la natura. Il progetto di controllo sul mondo ha incrementato l’incontrollabilità del mondo. Una possibilità segna oggi la nostra cultura: quella di riflettere sulla complessità dell’identità umana, composta di tante diversità, e sulla sua storia profonda. Non c’è stata “una” umanità. Ci sono state diverse umanità, diverse metamorfosi dell’umanità. La nostra umanità si trova nella soglia agonica di una nuova metamorfosi, resa necessaria dall’inedita possibilità di autosopprimersi. E la conoscenza delle metamorfosi passate ci è indispensabile per mettere a fuoco la metamorfosi presente. Oggi possiamo pensare che la chiave per comprendere e rigenerare la condizione umana è la sua incompiutezza. E incompiutezza significa che gli esiti futuri della condizione umana non sono inscritti di necessità in una qualche sua “essenza” definitiva. L’intero processo di ominazione, a partire dalle specie ominidi nostre antenate, si è compiuto in una specie incompiuta, Homo sapiens.

 La storia umana non è stata il dispiegamento di un destino già dato, bensì il teatro in cui si è svolta una creazione di possibilità, una creazione di nuove forme di umanità. Nella storia si sono succedute e intrecciate diverse forme di umanità.

 Abitare la complessità richiede la capacità di indossare “occhiali diversi”. Ed è sul terreno cruciale dell’educazione che si giocherà la partita per realizzare il cambiamento di paradigma che il nuovo tempo esige. È la sfida di una nuova Paideia. Dobbiamo innanzitutto prendere consapevolezza di una profonda crisi cognitiva. Questa crisi concerne la difficoltà di pensare la complessità del nostro mondo e del nostro tempo, in cui tutto è connesso. Infatti, viviamo un paradosso. Lo rivelano drammaticamente le crisi globali che stiamo vivendo. Più aumenta la complessità del nostro mondo, più aumenta la tentazione della semplificazione. Più la complessità si impone come sfida ineludibile alla nostra esperienza e alla nostra conoscenza, più essa tende a essere negata e rimossa. L a tendenza alla semplificazione ha radici storiche e culturali profonde nella nostra tradizione culturale. Questa tradizione ha cercato di conoscere le cose nella loro separazione: innanzitutto la separazione fra ciò che è umano e ciò che è naturale, tra noi e le cose che conosciamo, tra il soggetto e l’oggetto; poi la separazione delle cose dal loro contesto e la scomposizione delle cose in tante parti elementari, “semplici”; e infine la separazione del sapere stesso in tante discipline, sempre più chiuse ciascuna in se stessa e fra loro lontane. C osì, l’ostacolo alla formulazione stessa dei problemi complessi del nostro tempo si annida proprio nel modo in cui la conoscenza è prodotta, organizzata e trasmessa. Continuano a essere separate conoscenze che dovrebbero essere interconnesse, perché interconnessi e non separabili sono i molteplici aspetti dei problemi da formulare e da affrontare. Si isolano singoli aspetti di un problema complesso, e si conferma l’illusione di poterli affrontare separatamente con semplici soluzioni tecniche. Le soluzioni cercate e proposte sono dunque il più delle volte, esse stesse, parte e causa del problema. I modi di pensare che utilizziamo per trovare soluzioni alle crisi, come ai problemi più gravi della nostra età globale, costituiscono, essi stessi, uno dei problemi più gravi che dobbiamo affrontare. Perché sono modi di pensare che frazionano ciò che nella realtà è intimamente connesso. P erciò, una nuova Paideia deve volgersi a rigenerare il pensiero, laddove il progresso delle conoscenze nei binari della parcellizzazione suscita una regressione del pensiero stesso, che rischia di fossilizzarsi nell’esercizio “automatico” delle mansioni o delle tecniche di gestione. Ed ecco perché è ancora più preoccupante che da questa regressione e semplificazione del pensiero oggi possano essere investite proprio la scuola, e proprio la pedagogia. La complessità della condizione umana globale ci sfida a generare una Paideia che contenga in sé il senso dell’irriducibile legame di ogni cosa con ogni cosa. Una Paideia che aiuti a comprendere che sapere è entrare nel movimento delle cose, nel gioco dei vincoli e delle possibilità che le generano e le trasformano; che sapere non è tenersi a distanza da ciò che si sa e scomporre ciò che si sa, ma preservare ciò che si sa nei suoi intrecci multipli; che sapere è favorire la presa di coscienza dell’irriducibile interconnessione dei saperi, interconnessione che corrisponde già alla complessità del mondo. Una Paideia coerente con la visione della relazione cosmo- antropologica in cui l’uomo non è separabile dalla natura, ma riconosciuto come parte integrante di un processo complesso di co-evoluzione. Una Paideia che fornisca la consapevolezza adeguata a concepire la scienza e la tecnica non come gli strumenti “prometeici” per un progresso meramente quantitativo, ma come gli strumenti per costruire un’alleanza con la natura, nella natura, e favorire il miglioramento sostenibile ed equo della condizione umana. Una Paideia che riconosca che la ricerca di un nostro rapporto coevolutivo con tutti gli attori del mondo, viventi e non viventi, è la precondizione per la nostra stessa sopravvivenza, e per la possibilità di delineare un futuro vivibile e fecondo. Una Paideia che riconosca l’indivisibilità della vita umana, da intendersi, allo stesso tempo, terrestre, biologica, psichica, sociale, culturale, spirituale. Una Paideia, infine, che riconosca l’indivisibilità e nello stesso tempo la pluralità dell’umanità.

 Oggi, per la prima volta nella storia dell’umanità, la fraternità si definisce in un orizzonte “concretamente universale”. Nessuno si può salvare da solo. Il progetto moderno di dominio della Terra e di emancipazione dalla Terra, per una eterogenesi dei fini, ci ha fatto tutti insieme riatterrare… Siamo sulla stessa barca, la Terra.

 www.avvenire.it

 

 

 

lunedì 5 ottobre 2020

MORIN: NOI FRATELLI NELLA COMPLESSITA' DEL MONDO

 Proponiamo la prefazione del filosofo e sociologo francese Edgar Morin al nuovo libro di Mauro Ceruti Sulla stessa barca (Qiqajon, pagine 102, euro 10,00). Ceruti rilegge la Laudato si’ nell’orizzonte di un umanesimo planetario, volto a delineare una nuova rotta per l’umanità. La Laudato si’, infatti, è stata una bussola insperata e necessaria: dopo la libertà e l’uguaglianza, protagoniste dell’Ottocento e del Novecento, la fraternità può diventare protagonista del XXI secolo.

 di Edgar Morin

La lettera enciclica Laudato si’ di Francesco è un testo che è arrivato imprevisto, e in questo senso provvidenziale, a indicare all’umanità che è urgente cambiare via. Viviamo in un’era desertica del pensiero, che non riesce a concepire la complessità della condizione umana nell’età globale, e in particolare la complessità della crisi ecologica. È infatti un pensiero sbriciolato in tanti frammenti, che non riesce a vedere i rapporti fra le molte dimensioni della nostra crisi: economica, politica, sociale, culturale, morale, spirituale… Nel “deserto” attuale, dunque, l’enciclica risponde alla necessità di pensare questa complessità. Anch’io sono sempre stato mosso da questa stessa esigenza di uno sguardo complesso, globale, ovvero dal bisogno di trattare i rapporti fra i diversi aspetti della condizione umana. Perciò l’enciclica è stata per me una felice sorpresa. E perciò anche invito a leggere questo libro di Mauro Ceruti, fra i pochi pensatori del nostro tempo ad avere compreso e raccolto la sfida che ci è posta dalla complessità dei nostri esseri e del nostro mondo globalizzato. Egli ci aiuta a leggere l’enciclica di Francesco nell’orizzonte di un umanesimo planetario, volto a delineare una nuova rotta per l’avvenire dell’umanità.

Francesco definisce il progetto di una “ecologia integrale”, che non è affatto però quell’ecologia “profonda” che pretende di convertirci al culto della Terra, subordinando tutto il resto. Francesco mostra, piuttosto, che l’ecologia riguarda le nostre vite in profondità, la nostra civiltà, i modi delle nostre azioni, le nostre riflessioni. La Laudato si’ segna una presa di coscienza, è un incitamento a ripensare la nostra società e ad agire. E indica il cammino della costruzione della “casa comune” planetaria, che io chiamo Terra- Patria. Critica quello che definisce “l’antropocentrismo deviato”, che mette l’uomo al centro dell’universo, che considera l’uomo come solo soggetto dell’universo, e attraverso il quale l’uomo prende il posto di Dio. Scivolare in questa deriva antropocentrica significa infatti fare dell’uomo, secondo la formula di Cartesio, il padrone e il dominatore della natura. Io non sono credente, ma penso che questo ruolo divino che l’uomo talvolta si attribuisce sia assolutamente insensato. Il mondo della natura è diventato un mondo di oggetti. Il vero umanesimo consiste al contrario nel riconoscere in ogni essere vivente al contempo un essere simile e diverso da me. Francesco rigenera l’invocazione di san Francesco d’Assisi, riconoscendo la fratellanza degli esseri umani con ogni creatura. E questo sentimento di fratellanza converge, in certo senso, con ciò che la scienza è giunta a raccontarci.

Oggi sappiamo che possediamo cellule che si sono moltiplicate fin dall’origine della vita e di cui siamo composti, come ogni altro essere vivente. Se ripercorriamo la storia dell’universo, ci accorgiamo così che, pure in modo singolare, portiamo in noi tutto il cosmo. Esiste una solidarietà profonda nella natura, anche se beninteso siamo diversi, per via della coscienza, della cultura. Ma pur essendo diversi, siamo tutti figli del Sole, o fratelli del Sole, secondo l’espressione di san Francesco… E il vero problema non consiste nel ridurci allo stato di natura, ma di separarci dallo stato naturale. Nel contempo, la questione del rapporto degli esseri umani con la natura è a sua volta strettamente intrecciata con la questione della povertà. E, anche in questo caso, Francesco è profondo e lucido nel suo pensiero. Critica il “paradigma tecnocratico”, cioè quel modo di pensare oggi dominante che sottomette ogni discorso e ogni azione alla logica tecnoeconomica del profitto. La sua critica al paradigma tecnocratico e alle sue conseguenze per gli stili di vita e per le diseguaglianze sociali ha senz’altro potuto trovare linfa vitale nella sua cultura latino-americana. In America Latina, troviamo una vitalità, una capacità d’iniziativa che noi non abbiamo. Ritrovo nell’enciclica un senso della povertà che è così forte in questo continente. In Europa, abbiamo completamente dimenticato i poveri, li abbiamo emarginati.

Ma, nell’enciclica, la preoccupazione per la povertà è viva. C’era bisogno che un Papa venisse da lì, con questa esperienza umana. È un Papa imbevuto di questa cultura andina che oppone al “benessere” europeo esclusivamente materialistico lo star bene (il buen vivir), che rappresenta una pienezza personale e comunitaria autentica. Un’ultima cosa voglio sottolineare: tutti gli sforzi per sradicare le religioni sono completamente falliti. Le religioni sono delle realtà antropologiche. Il cristianesimo ha conosciuto una contraddizione fra alcuni suoi sviluppi storici e il suo messaggio iniziale, evangelico, che è amore degli umili. Ma, quando la chiesa ha perso il suo monopolio politico, una sua parte ha ritrovato la sua fonte evangelica. La Laudato si’ è un ritorno integrale alle origini evangeliche. E la fede può dare coraggio. In un’era virulenta come la nostra, per salvare il nostro pianeta davvero minacciato, il contributo delle religioni non è superfluo. Questa enciclica ne è una manifestazione eclatante. Il messaggio di Francesco invita a un cambiamento, a una nuova civiltà, e lo trovo molto toccante.

 

www.avvenire.it

 

 

mercoledì 29 aprile 2020

SIAMO PIÙ' FRAGILI. SERVE PIÙ' UMANITÀ'


A colloquio col filosofo Mauro Ceruti su pandemia e conseguenze: «Il morbo del nostro tempo è la semplificazione. 
Siamo figli dell’abitudine moderna a pensare che le cose abbiano una spiegazione semplice. 
E questa si accompagna alla droga della quantificazione 
Dietro calcoli e diagrammi non si vedono le sofferenze umane»


-         di MARCO RONCALLI

Mauro Ceruti risponde al telefono da Bergamo. Due anni fa nel libro Il tempo della Complessità (Cortina), per certi versi, aveva delineato lo scenario di questa crisi, riflettendo sulla possibilità di fatti inattesi in grado di ribaltare situazioni su scala planetaria. La voce è triste: «Mi mancano persone che in questi giorni se ne sono andate. E tuttavia, in questo tempo pasquale, la loro assenza si fa, strappando le parole al poeta, più acuta presenza …».
Professore dicevano che gli algoritmi prevedono tutto. Per Nassim Nicholas Taleb quanto accaduto era prevedibile...
Il problema è un altro: è prevedibile che accada l’imprevedibile. Ma ciò non lo rende comunque prevedibile. Per questo bisogna sviluppare la capacità di affrontare l’intreccio di concause, l’incerto, l’aleatorio, l’imprevisto.
Soprattutto nel caso dei virus …
La pandemia ci pone di fronte ai rischi della condizione globale. Il virus rivela che viviamo in un mondo in cui tutto è connesso. I fili della globalizzazione biologica, antropologica, economica, politica sono aggrovigliati e inestricabili.
Bernard–Henri Levy dice che bisogna liberarsi dall’idea di causa–effetto tra globalizzazione ed epidemia: lei?
Ma ciò, in partenza, significa ammettere che tutto è connesso. Che non bastano risposte tecniche a singoli problemi. Il morbo del nostro tempo è la semplificazione. Siamo figli dell’abitudine moderna a pensare che le cose abbiano una spiegazione semplice. E questa si accompagna alla droga della quantificazione. Dietro i calcoli, le simulazioni, i diagrammi, non si vedono le sofferenze umane. Ma, detto con Foucault, le sofferenze umane mai devono essere lo scarto muto della politica.
Siamo solo all’inizio dei guai, o c’è luce in fondo al tunnel? La storia è costellata di crisi, pandemie, catastrofi...
La metafora del tunnel non funziona. Dà per scontata l’idea che siamo in una parentesi. Che all’uscita del tunnel troveremo lo stesso mondo, seppure impoverito. Dobbiamo invece scommettere in un cambiamento di paradigma. Dobbiamo assume- re la fragilità come condizione di opportunità e come condizione permanente. È dalla cura della fragilità, non dalla forza della guerra al nemico, che si genera la creatività umana.
La fragilità è ora. Conviviamo con la paura del contagio. Martini diceva che non aveva paura della morte, ma dell’atto di morire senza nessuno a tenergli la mano ….
Il dramma della solitudine del morire, in questi giorni, ci spinge a voler ritrovare questo grande rimosso della nostra civiltà: proprio il morire. Che abbiamo sempre più confinato e sterilizzato fuori dalla nostra cura, fuori dalla necessità di tenere e farci tenere la mano. Il bisogno di riappropriazione della morte può essere una via per riappropriarsi della vita…
Viviamo questo tempo trascinati da quanto passa sui nostri schermi, la tv, la rete sembrano le grandi soccorritrici…
C’è un paradosso nella nostra società: più si comunica e meno si comunica, più piovono informazioni e meno siamo informati, più siamo interdipendenti e meno siamo solidali. Il morbo della semplificazione è andato di pari passo con la frammentazione dei saperi e delle discipline, che ha isolato gli “esperti” nelle rispettive “specialità”.
Quali le priorità appena si riapriranno le porte di casa?
È necessario riformare i sistemi di educazione e di istruzione. C’è ancora poca interdisciplinarità e molta burocratizzazione, tecnicizzazione nelle
scuole e nelle università! Usiamo la Rete, ma non mettiamo in rete fra loro i saperi, i problemi, le crisi.
E’ da ripensare anche la medicina?
Può darsi che questa pandemia abbia costretto a far comunicare di più tra loro medici infettivologi, microbiologi, virologi. Per affrontare le prossime epidemie dovrà emergere una scienza e una figura di scienziato polidisciplinare. Certo, anche la medicina deve essere ripensata. Aumenta l’imprevedibilità di nuovi fattori patogeni esterni e, dal momento in cui compare e minaccia la salute, si può allungare il tempo tra la conoscenza e la cura della malattia provocata dal nuovo fattore patogeno.
Quale ruolo avrà l’Europa? Chiediamo unità, ma in Italia i partiti accantoneranno le logiche di consenso immediato?
La ricerca del consenso immediato? Ma è la fine della politica! Quanto all’ Europa la crisi sanitaria ne ha aggravato la crisi. Di fronte al pericolo comune, lo spirito di solidarietà è mancato. Si sono rinvigoriti gli egoismi nazionali. Certe parole della politica sono proprio inconsistenti e pericolose: ad esempio prima noi, solo noi… Ma l’Europa o si unirà o soccomberà.
C’è chi dice che le frontiere aperte saranno viste come pericoli, chi pensa saremo più umani, chi si ricomincerà come prima. Cosa potremmo avere imparato?
Che è necessaria un’altra globalizzazione, più umanizzata, più solidale, non dominata dalla potenza anarchica di profitto e tecnoscienza. Sembra un’utopia: ma, alla prova dal Coronavirus, è diventata più concreta, non differibile. Per affrontare crisi globali, c’è bisogno di mettere insieme risorse e conoscenze al di là delle frontiere nazionali. Il virus ignora i confini territoriali. Lo devono fare anche gli Stati.
Tutti dentro una condizione inedita?
Tutti legati dagli stessi problemi di vita e di morte, dallo stesso destino. La fraternità non è più solo un’aspirazione etica. È necessità inscritta nella nuova condizione umana. Come ha detto Papa Francesco: tutti sulla stessa barca e nessuno che può salvarsi da solo.


venerdì 6 settembre 2019

NUOVO UMANESIMO, MA A SCALA PLANETARIA. Intervista a Mauro Ceruti


 di MARCO RONCALLI

Incontro Mauro Ceruti, ordinario di filosofia della Scienza presso l’Università Iulm di Milano, teorico del pensiero complesso, con un intento: riflettere su due parole che stanno suscitando un certo dibattito e tornate a farsi vive nei discorsi politici: nuovo umanesimo. «È interessante udire o leggere queste due parole in tempi di chiusure brutali. Attenzione però, che il dibattito non porti a trattare questo concetto come uno slogan politico, e nemmeno a considerarlo una cornice, tantomeno un orizzonte per un solo Paese, il nostro o un altro. Sarebbe una contraddizione» premette il nostro interlocutore che trovo impegnato a preparare un contributo su questo tema per un convegno internazionale programmato all’Urbaniana a fine novembre.

Lei, lei che già nel 2013, con Morin, nel libro La nostra Europa, poi in un altro saggio di un anno fa, Il tempo della complessità, (entrambi editi da Cortina) sottolineava la necessità di “un nuovo umanesimo”, a cosa si riferiva e a cosa si riferisce?
Prima di tutto non intendo un umanesimo astratto, fondato su un’idea impalpabile e omologante di natura umana, bensì un umanesimo concreto...
Lo ha detto anche papa Francesco nel 2014 e poi il convegno CEI di Firenze su questo tema. Invitò a non fermarsi al piano delle idee, di «inforcare occhiali capaci di cogliere e comprendere la realtà» e «strade per governarla» ...
Teniamolo bene in mente: per la prima volta assistiamo ad una sorta di unificazione dell’umanità... Ora si tratta di fare emergere l’orizzonte della civiltà umana globale, non di un singolo Paese, nemmeno di un singolo continente. Si tratta di imparare ad abitare e custodire questo nostro mondo, quasi trasfigurando le nostre relazioni oltre la solidarietà, l’accoglienza. Ciò significa consapevolezza che lo stesso essere umano è al contempo uno e molteplice. Sì unitas multiplex. Perché la diversità è il tesoro dell’unità umana. L’unità è il tesoro della diversità umana. E qualsiasi progetto politico non può guardare più dentro un piccolo o grande perimetro, non può più stare rinchiuso in un piano economico e quantitativo, ma abbracciare gli orizzonti più vasti possibile, essere aperto verso la società, la convivialità. Insomma anche questo nuovo umanesimo di cui si parla può avere un senso se definito e declinato come nuovo umanesimo planetario. Dall'umanesimo che ha accompagnato la mondializzazione europea dell’età moderna vanno cancellati per sempre i tratti di dominatore. Sì i tratti di un umanesimo impegnato a rendere l’uomo padrone della natura. Sappiamo che ogni volontà di dominare la natura degrada non solo la natura, ma la nostra umanità, che le è inseparabilmente legata, e che dalla natura dipende molto di più di quanto la natura non dipenda da noi. Inoltre, questo volto dell’umanesimo è vanificato da contraddizioni...
Qual’ è la principale?
Penso quella fra l’enunciazione di un principio universale, valido per tutti gli uomini, e la sua pratica eurocentrica, od occidentalocentrica che dir si voglia. Questo umanesimo ha cercato di sfuggire alla contraddizione definendo l’uomo moderno europeo e poi occidentale come adulto o maturo, e definendo infantile o immaturo l’uomo delle altre civiltà, giudicandole primitive. Ma un tale giudizio ha anche comportato il disprezzo delle altre civiltà e persino la giustificazione del loro sterminio. Bisogna riconoscere l’insostenibilità di questo volto oscuro dell’umanesimo, rigenerarne il volto che ha esaltato la dignità di ogni essere umano, chiunque sia, da ovunque giunga. Occorre perseguire una globalizzazione di questo nuovo umanesimo.
Un umanesimo che ha poco di quello antico.
Quello antico aveva prodotto un universalismo astratto, ideale, di fatto etnocentrico. Il nuovo umanesimo planetario non può che produrre un universalismo concreto, reso tale dalla comunità di destino irreversibile che lega tutti. Sento parlare di patria. Ma la patria oggi è il pianeta. Di popolo. Ma il popolo è l’umanità che abita una casa comune da custodire insieme.
Questa interdipendenza di fatto dove porterà?
Per ora ci obbliga a pensare a un solo mondo, ad un progetto condiviso. Per questo, come dice con chiarezza papa Francesco, ciascuno riorientando la propria rotta deve recuperare la coscienza di un’origine comune, di una mutua appartenenza e di un futuro condiviso da tutti. Acquisiti questi modelli di pensiero anche i nostri comportamenti concreti ne risentiranno.
E allora qual è la vera sfida, oltre gli slogan politici o le analisi circoscritte?
È concepire l’umanità come una riserva di possibilità evolutive inedite, di reinventare l’umanità come soggetto di un’evoluzione ancora incompiuta. È questa la sfida di un nuovo umanesimo planetario, generato da una cultura della complessità e destinato a ricostruirla ritessendola senza escludere nessuno.
È quello che ha scritto nel Tempo della complessità, anche se, nonostante la società degli algoritmi o dell’intelligenza artificiale, si continuano a vedere errori assurdi, gesti anacronistici, trionfi dell’ignoranza più rozza…
Vero, questo nuovo umanesimo ha bisogno prima di tutto di una rivoluzione culturale. Basata su una nuova concezione dell’identità umana attraverso l’intreccio delle dimensioni che la costituiscono, ma ancora separate da specialismi disciplinari, approcci superati non costituendo più polarità opposte in ogni caso: penso a cultura e natura; ragione ed emozione, mondo reale e virtuale. Così il nuovo umanesimo è anche un progetto di sviluppo della conoscenza, conoscenza dell’essere umano nella sua interezza frutto della interconnessione dei sistemi, biologici, culturali, sociali.
Su questa nuova scienza e politica della complessità occorre lavorare intensamente, resistendo a forze regressive, riconoscendoci in una sola famiglia, la famiglia umana. Sì, un lavoro ispirato da quella che Francesco definisce anche la coscienza dei volti e la cultura dell’incontro.
Quel movimento ideale che fece grande l’Occidente va rigenerato liberandolo da tutti gli errori che lo portarono a essere dominatore sull’uomo e sulla natura.

 L’epistemologo Mauro Ceruti non ha dubbi: «Per la prima volta assistiamo a una sorta di unificazione dell’umanità, e qualsiasi progetto politico non può più guardare dentro un piccolo o grande perimetro, non può più stare rinchiuso in un piano economico e quantitativo, ma deve abbracciare gli orizzonti più vasti possibili»