Il virus disinformazione e la modesta verità dei fatti
Come attrezzarsi per contrastare le campagne che mirano a manipolare l’opinione pubblica
Lettera del Commissario AgCom ad Avvenire
Caro direttore, da molti anni a questa parte, il tema delle
cosiddette fake news o notizie false ha assunto una certa
centralità nel dibattito circa i diritti e i doveri dei giornalisti, delle
radio e tv, incluse quelle di servizio pubblico, delle piattaforme online e in
particolare dei social.
L’informazione e la disinformazione ai tempi del coronavirus
costituiscono un ulteriore banco di prova in questo senso. Ad esempio, l’Agcom
ha misurato il tasso di disinformazione medica ed epidemiologica sul virus, evidenziandone
l’esplosione nei mesi di febbraio e marzo. Se da un lato la percentuale della
disinformazione può apparire bassa (5%) rispetto all’informazione totale,
dall’altro va osservato che la singola notizia falsa nelle sue brevi giornate
di vita diventa “la notizia del giorno”.
N on a caso molti propongono il termine infodemia al
riguardo. E non è un caso che i siti specializzati in disinformazione,
dedichino quasi il 50% delle loro “notizie” al virus: abbuffate di vitamine,
farmaci giapponesi, ingegnerizzazione del virus in qualche laboratorio, sono
tutte notizie “che non ci dicono”, “che vogliono nasconderci”. Loro contro noi.
I meccanismi informativi e le reazioni emotive e cognitive che gli strateghi
della disinformazione puntano a determinare, sono sempre gli stessi che hanno
riguardato, in passato, altri argomenti come la criminalità e l’immigrazione,
spesso in combinazione tra di essi. D’ altra parte, la bugia è
sempre più forte di un ragionamento scientifico. Come ha scritto Hanna Arendt,
«le menzogne sono spesso più plausibili, più attraenti per la ragione di quanto
non lo sia la realtà, dal momento che il bugiardo ha il grande vantaggio di
sapere in anticipo cosa l’ascoltatore desidera o si aspetta di sentire». Al
contrario, «la realtà ha la sconcertante abitudine di metterci di fronte
all’imprevisto per cui non eravamo preparati». Il ragionamento scientifico non
cerca evidenze che confermino le proprie teorie, ma fatti contrari che le
falsifichino in senso popperiano, conferendo alle eccezioni almeno la stessa
rilevanza che attribuisce alle regolarità perché sa di aver di fronte una
realtà complessa e incerta. Oggi sul coronavirus ab- biamo fretta di
risposte di cui ancora non disponiamo. Ma questa incertezza, anziché farci
apprezzare la fragilità e la potenza del ragionamento scientifico ci spinge a
domandare certezza e verità semplici. Le notizie false sul coronavirus
rispondono a quella domanda di certezza e sicurezza dettate dalla paura,
dall’ansia e dalla fretta, cui il ragionamento scientifico non può rispondere.
E così i complottisti di ieri e di oggi trovano nuova linfa per la diffusione
delle proprie tesi, costruendo o selezionando “fatti alternativi” che
confermano opinioni pregresse. P resunti “articoli scientifici”
che poi si scopre non esser stati pubblicati (e quindi non ancora passati dalla
cosiddetta “peer review”) o, se pubblicati, sospesi o ritirati dalla
pubblicazione; audio e video, su piattaforme online, su complotti di ogni tipo
con l’invito “fai girare”; virologi chiamati a discutere in tv (secondo una
nozione distorta di pluralismo) con il diffusore di bufale o con il
“divulgatore” (che magari, di mestiere, guadagna con la vendita di vitamine
miracolose, in un qualche sito o in qualche tv privata). I l
punto, qui non è naturalmentela singola notizia falsa o l’errore. È
l’emersione delle cosiddette strategie di disinformazione, cioè di
campagne strutturate e organizzate volte a manipolare la cosiddetta opinione
pubblica, attraverso
i social, ma non solo, per- ché spesso giornali e tv
rincorrono proprio le “notizie” che hanno più successo sui social.
P er molto tempo abbiamo creduto che l’incremento delle
fonti informative (attendibili o meno) dal lato dell’offerta, fosse sufficiente
a perseguire il diritto all’informazione corretta dell’utente, tante volte
ribadito da varie Corti costituzionali, inclusa quella italiana. Oggi sappiamo
che ciò accadrà solo se a questa esplosione di contenuti si affiancheranno la
pazienza, l’attivismo, la capacità critica dell’utente. Cioè una domanda
d’informazione proattiva o empowered: una rilevazione recente
Agcom–Swg mostra che 6 italiani su 10 non sono in grado di riconoscere una
notizia falsa e hanno una significativa “dispercezione” su molti fenomeni
socio–economici che li riguardano. C’è, come molti osservano, un tema di
istruzione, educazione, elaborazione.
M a c’è, evidentemente, anche un tema di informazione
di qualità e di assenza di meccanismi di confronto volti a smussare la
polarizzazione e i pregiudizi. Da questo punto di vista, l’istituzione di un
punto focale nazionale di analisi tecnica, di studio e confronto di esperienze,
anche di autoregolazione, sul tema della disinformazione online sul
coronavirus, istituita per iniziativa del sottosegretario all’editoria
Martella, è un’occasione importante di riflessione. D iventa
centrale, in particolare, comprendere se esistano e quali siano i centri che
organizzano questi tipi di strategie online, quali siano le motivazioni che
perseguono (di tipo politico, commerciale o entrambi), quali strumenti
utilizzino (ad esempio attraverso acquisizione ed elaborazione di dati
personali), quali effetti conseguano (ad esempio alimentando polarizzazione, echo
chamber e così via).
Ma si tratta di una sfida che riguarda tutti, non solo le
piattaforme on–line, ma anche il mondo del giornalismo e dell’infotainment,
anche televisivo che non deve rincorrere le brutte pratiche che incontriamo
online. S i tratta di temi complessi, la cui discussione non ha a che
fare con il rischio di comprimere la libertà d’espressione, di chi parla o di
chi ascolta, ma con la necessità di comprendere come difendere e promuovere un
ambiente informativo corretto, specie su un tema così rilevante come il
coronavirus, che tuteli il cittadino–utente, esaltando e preservando proprio
quella poliedrica libertà. Tornando, di nuovo alla Arendt, vale ricordare le
sue parole: «La libertà di opinione diventa una farsa se l’informazione
fattuale non è garantita e i fatti stessi sono messi in discussione». La
chiamava la «modesta verità dei fatti». Ed è una modestia di cui abbiamo
bisogno.
Antonio Nicita, Commissario AgCom e Università Lumsa
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