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lunedì 7 ottobre 2024

LA VECCHIAIA, UN NUOVO VOLTO DELLA VITA



Insieme all’invecchiamento di massa si fa strada un nuovo volto della vita

Studi scientifici mostrano una sempre più precisa identità della generazione anziana, con caratteristiche ed esigenze proprie

 Una delle trasformazioni sociali più significative di questo secolo induce a spostare la soglia di accesso alla vecchiaia, modificando il profilo di quello che non va più considerato solo come un “lungo tramonto”

C’è tutta una parte dell’esistenza che attende di essere riconsiderata. La memoria non “perde colpi” ma diventa selettiva. 

E il picco delle capacità intellettive ora si sposta a 70 anni.

 Cresce la coscienza che la vecchiaia sia un’età con un profilo proprio

 

-         di VITTORIO A. SIRONI

 «La vecchiaia è per sé stessa una malattia», affermava nel II secolo avanti Cristo lo scrittore latino Publio Terenzio riferendosi ai malanni e alle privazioni fisiche tipiche della senescenza. Se questa considerazione è rimasta di fatto valida per oltre due millenni, oggi non è più così. Non solo perché la medicina, a partire dalla metà del secolo scorso, ha progressivamente consentito di allungare la durata della vita media (l’aspettativa di vita è aumentata di 20 anni rispetto agli inizi del Novecento) e di migliorare al contempo la qualità dell’esistenza, ma anche per il fatto che gli stessi geriatri – cioè i medici che si occupano di studiare e curare gli anziani – hanno proposto ufficialmente di innalzare l’età da cui far partire la vecchia di una decina d’anni: dai 65 ai 75 anni.

 Sebbene la vecchiaia sia a tutti gli effetti la parte finale del ciclo vitale, non si può dire che sia legata solo all’età. L’età cronologica è un dato di fatto – ma ci sono fattori ben più importanti da prendere in considerazione –, come l’età biologica (che sovente è minore di quella anagrafica) e la condizione psicologica. Questa fase dell’esistenza corrisponde a una vera metamorfosi da interpretare e vivere nel suo significato in modo non diverso da quel cambiamento che segna il passaggio dall’infanzia all’adolescenza.

 Lo afferma con convinzione lo psichiatra Vittorino Andreoli nella sua Lettera a un vecchio (Solferino, 2023) che invita a pensare a questa età dell’esistenza come legata a un nuovo stile di vita e a una nuova visione del mondo. Lo sostiene anche il monaco Enzo Bianchi nel suo saggio La vita e i giorni (Il Mulino, 2018), in cui definisce la vecchiaia una fase che, nonostante le sue ombre e le sue insidie, fa parte del cammino dell’esistenza: è arte del vivere che possiamo in gran parte costruire a partire dalla nostra consapevolezza per prepararsi ad allentare il controllo sul mondo e sulle cose, senza nulla concedere a una malinconica nostalgia, ma anzi trovando l’occasione preziosa di un generoso atto di fiducia verso le nuove generazioni.

 È errato credere che il tema attorno a cui ruota l’esistenza del vecchio sia la morte e che la sua maggiore preoccupazione sia la malattia. Occorre invece che la società si convinca che egli ha bisogno di sentirsi utile, di avere un senso proprio nel presente e che la sua passata esperienza vissuta possa essere realmente percepita fonte di saggezza e non interpretata come nostalgia per il passato. Solo così si possono rimettere al centro i desideri e le caratteristiche degli anziani, evitando loro il dolore della solitudine, dell’esclusione e dell’abbandono, come ha più volte ribadito papa Francesco ricordando che la contrapposizione tra generazioni è un inganno e che lo “scarto” degli anziani non è né casuale né ineluttabile, ma frutto di scelte – economiche, politiche, sociali, personali – che non riconoscono la dignità della persona.

 Proprio per evidenziare gli importanti contributi che le persone anziane possono dare alla società, e per aumentare la consapevolezza delle opportunità e delle sfide che l’invecchiamento pone al mondo di oggi, nel 1990 l’Assemblea generale delle nazioni Unite ha stabilito che ogni anno il 1° ottobre sia dedicato a festeggiare la Giornata internazionale delle Persone anziane, appena celebrata. Il loro impatto è sempre più marcato in ambito sociale: per la prima volta nella storia, nei Paesi occidentali, gli individui nati nella seconda metà del Novecento hanno ragionevoli probabilità di essere attivi, fisicamente e mentalmente, perlomeno sino a 85 anni. Oggi nel mondo quasi un miliardo di persone ha un’età pari o superiore ai 60 anni, superando globalmente giovani e bambini. Entro il 2030 questa quota arriverà a toccare il miliardo e mezzo. L’invecchiamento della popolazione è destinato a diventare una delle trasformazioni sociali più significative del XXI secolo. Manca però una vera e consapevole riflessione antropologica, sociale e sanitaria su questo “invecchiamento di massa”, mentre prevale spesso un pregiudizio (il cosiddetto “ageismo”) che porta a disprezzare tutto ciò che è connesso alla vecchiaia. 

Certamente la vecchiaia è l’ultimo capitolo della vita, ma nessuno può sapere quanto duri. Entrare in questa fase dell’esistenza è però anche un privilegio: basti pensare ai tanti che hanno visto interrompersi la loro vita senza raggiungerla. C erto con l’incalzare della vita il pensiero della sua fine non può essere dimenticato, e talvolta non è facile da accettare. Non ha senso però pensare alla vecchiaia solo come anticamera della morte. È invece uno spazio dell’esistenza da riconsiderare (anche alla luce della fede), da fondare sui bisogni personali e non su quelli guidati o suggeriti dalla società. In questa prospettiva una delle cose più immediate è rifiutare l’uso di termini eufemistici. Occorre mantenere la precisione, la dignità e la “bellezza” di alcune parole, che invece oggi la società fa percepire come inadeguate, preferendo utilizzarne altre per nascondere una realtà che cerca di ignorare o addirittura di negare. È più adeguato chiamare la vecchiaia con questo nome in luogo di altri apparentemente più neutri, come anzianità, terza o quarta età. Così come è più opportuno definire i vecchi con tale parola invece di quella ritenuta più appropriata e meno impattante di “anziani”.

 La medicina stessa fornisce oggi una lettura diversa di alcune caratteristiche della vecchiaia. Gli inevitabili cambiamenti fisici del corpo legati al trascorrere del tempo possono essere gestiti attraverso un adeguato stile di vita che passa attraverso un’alimentazione corretta. La diminuzione della forza muscolare, in parallelo e in simmetria con la riduzione del suo uso, induce una fragilità che può essere bilanciata da un’attività fisica legata al movimento e, se possibile, alla pratica sportiva non stressante.

 Anche le difficoltà psicologiche del vecchio possono essere superate dalla consapevolezza del bisogno che ciascuno ha dell’altro: riscoprendo il legame d’amore coniugale e filiale, consolidando gli affetti con i parenti e gli amici. La diminuzione della memoria dell’anziano, che viene spesso vissuta e intesa come apriporta di un decadimento fisiologico di tutte le funzioni mentali o, ancora peggio, come l’inizio di un processo di involuzione cognitiva destinato a sfociare poi nella demenza, è interpretata oggi in maniera differente dalle neuroscienze. La memoria è testimone del vissuto individuale delle persone e la metamorfosi che si opera nella vecchiaia modifica anche la percezione del tempo e del vissuto individuale. Ecco perché spesso il vecchio ricorda bene episodi del passato che hanno avuto un rilievo significativo nella sua vita e dimentica invece fatti e nomi recenti che non sono importanti per lui in questa parentesi esistenziale. Il suo cervello non è più veloce come in gioventù perché è – come la memoria di un computer – molto ricco di dati, ma in compenso risulta molto più flessibile.

 Con l’età è più probabile che si prendano decisioni giuste e si sia meno esposti a emozioni fuorvianti: è la famosa “saggezza” della vecchiaia. Il professor Monchi Ury, direttore del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Montréal, sostiene che il cervello dei vecchi funziona eliminando le attività superflue e la sovrabbondanza di informazioni, operando solo con le finalità più adeguate per risolvere i problemi da affrontare.

 Alcuni recenti studi evidenziano poi come il cervello umano raggiunga il picco della sua capacità intellettuale proprio attorno ai 70 anni. Il medico statunitense Fitzhung Mullan, direttore della George Washington University School of Medicine, in un recente articolo pubblicato sull’autorevole rivista The New England Journal of Medicine, dimostra che il cervello di una persona anziana è molto più efficiente di quanto si creda perché, dopo i 60 anni i vecchi sono in grado di utilizzare contemporaneamente in modo integrato e armonico entrambi gli emisferi encefalici. Ecco perché molte persone oltre questo limite di età risultano sovente più creative di altri soggetti più giovani. « Mi diverto a invecchiare: è un’occupazione costante » ha detto a chi lo intervistava diversi anni fa a proposito della sua età lo scrittore e critico teatrale francese Paul Léautaud. Riprendendo la sua affermazione il neurologo Yves Agid dimostra nel suo libro Invecchiare? È divertente (Carocci, 2022) che invecchiare non dipende solo dal passare del tempo, ma soprattutto dal nostro cervello. La vecchiaia può e deve quindi rappresentare una tappa feconda della vita se a questa fase dell’esistenza si dà un senso nuovo, se si riscoprono ideali culturali e sociali, religiosi ed etici, se si mantengono e si consolidano conoscenze e affetti. Senza aspettare passivamente l’arrivo di una badante o pianificare l’ingresso in una Rsa.

 

www.avvenire.it 

lunedì 17 giugno 2024

LETTERA SULL'AMORE

SI PUO' AMARE PER TUTTA LA VITA ?

Lo psichiatra e scrittore pubblica «Lettera sull'amore» e avverte: «I più giovani vivono l'eros come una performance, è un rischio. 

Fare l'amore con la stessa persona per tutta la vita? Certo che si può, ecco come».

 

intervista a Vittorino Andreoli a cura di Roberta Scorranese

 Professor Andreoli, nel suo ultimo libro «Lettera sull'amore», pubblicato da Solferino, lei scrive che «stiamo rompendo anche l'amore». Perché? 

«Perché abbiamo sempre più fretta, non riusciamo a immaginare i sentimenti come una costruzione e, soprattutto, qualcosa da vivere, qualcosa di cui fare esperienza. Tutto è automatico, basti pensare a come viviamo il lavoro: nella maggior parte dei casi ci rapportiamo con macchine e non con esseri umani. Credo che anche in amore stiamo facendo lo stesso passaggio, cioè pensiamo che sia qualcosa di programmabile». 

 E invece... 

«E invece l'amore è una danza, una danza a due, imprevedibile. Dove c'è spazio anche per il conflitto. Non mi fido delle coppie che non litigano mai, quelle dove tutto è perfetto. La qualità dell'amore è così vasta e spaziosa che accoglie anche la contrapposizione e la risolve con la vita stessa. Quando vedo una coppia dove tutto va troppo bene, penso sempre che sia da curare». 

 Vede insomma in loro dei potenziali pazienti? 

«Proprio così!». 

 Oggi tendiamo a farci vendere un po' di tutto, compreso il sogno della famiglia felice, pensiamo a tanti influencer. 

«Abbiamo purtroppo bisogno di modelli e non riusciamo a comprendere del tutto la magia di questa esperienza. Che per sua natura rifiuta le categorie e ci chiede solo apertura verso l'altro o l'altra, il passaggio dall'io al noi. Ma quello che vedo intorno a noi è una sempre più marcata riduzione dell'amore a sessualità fisica e questo è dannoso. Ridotta la sessualità al significato fisico, ha messo in evidenza difficoltà o quantomeno un’ansia da prestazione, che finisce per rendere il gioco tra i corpi una prova difficile e spesso un fallimento, che non si riduce solo al mancato soddisfacimento del piacere, ma influisce pesantemente sul desiderio. Il segnale più evidente di questa condizione è nel grande uso di stimolanti e facilitanti l’azione erettile negli adolescenti maschi, mentre nelle femmine sono aumentate le richieste di terapie antifrigidità». 

 Lei sta dicendo che anche gli adolescenti ricorrono alle pasticche per migliorare la prestazione? 

«Tantissimo. Perché vivono il sesso non come un magnifico scambio di piacere e di vita, ma come una delle tante performance che il mondo oggi ci impone. Non solo. Una corsa troppo veloce della scoperta delle liturgie erotiche ha anche impedito di conoscere e sperimentare la ricchezza di pratiche preparatorie, stupende perché sono all’insegna della dolcezza, della gradualità e dell’apprendimento del piacere proprio e dell’altro». 

 Lei dice che bisognerebbe essere prudenti quando si afferma che l'amore può finire. Eppure, considerando la quantità di separazioni e divorzi verrebbe da pensare il contrario. 

«Ogni volta che mi trovo di fronte a una coppia che dichiara l'amore è finito penso o che non sia mai iniziato oppure che ci si trovi di fronte a uno dei tanti ostacoli che si possono incontrare nel suo percorso. Perché facciamo l'errore di non pensare che l'amore abbia anche una intensità e una qualità diversa dall'attrazione. L'amore vuol dire, per esempio, riconoscere la propria fragilità e quella dell'altro o dell'altra e prendersene cura. L’aspetto più frequente, cercando oggi le motivazioni di una fine dell’amore, sono proprio le nuove storie: si pretende allora che sia impossibile continuare con quella persona quando si è presi dalla nuova. Come entrasse in gioco il destino e non fosse una questione di responsabilità. E i segni dominanti riconducono all’Eros, non a condizioni che riportano al bisogno dell’altro o dell'altra». 

 Qualche volta, però, ci sono situazioni difficili da superare, come un tradimento inatteso. 

«Sarò franco: non penso che questa consapevolezza, sebbene molto spiacevole, abbia la forza di distruggere una storia d’amore. Credo non si debba accettare il tradimento, ma che possa rientrare tra quelle crisi che un legame d’amore sa affrontare, elaborare e risolvere insieme, una di quelle conflittualità alle quali accennavamo all'inizio di questa intervista. Credo, invece, che a far finire un amore possa essere un cambiamento di personalità di uno dei due». 

 Vuole spiegarsi meglio? 

«Il cambiamento di personalità fa sì che uno dei due componenti della coppia cambi al punto di diventare irriconoscibile all'altro, quasi un estraneo, e che, in un certo senso, muoia, lasciando il vuoto. Penso a un arresto, a un'ascesa di notorietà tale da trasformare irrimediabilmente qualcuno, oppure a una malattia improvvisa. L'amore finisce quando finisce uno dei due protagonisti della storia, mai in altri casi, secondo il mio parere». 

 Lei nei suoi scritti parla anche di violenza e osserva: La frase «se non rimani legata a me, mi uccido», contiene una violenza sia pure verbale, gravissima. 

«È la violenza del ricatto, dell'impossibilità di vivere pienamente l'amore perché questo non annulla le singole individualità ma, al contrario, le arricchisce e le fa crescere in un percorso a due. E, purtroppo, spesso finisce in modo diverso perché la cronaca mostra come la violenza porti a uccidere l’altra, mentre colui che esprimeva una mancanza intollerabile, continua a vivere». 

 Professore si può fare l'amore con la stessa persona per tutta la vita? 

«Certo». 

 Come? 

«L’amore è un legame esclusivo e, a caratterizzarlo non è un principio né filosofico né religioso, ma è la biologia stessa, la costituzione dell’umano che vuole proiettare sulla persona la propria fragilità, in una combinazione che non è separabile. Nella relazione d’amore diventa difficile riconoscersi senza l’altro e da quel momento, la propria storia è anche quella dell’altro. Ritorna il grande pronome che caratterizza l’amore, il «noi».

Alzogliocchiversoilcielo

lunedì 1 maggio 2023

ADULTI. PERFETTI o FELICI ?


Che cosa significa essere adulti oggi?  
E come diventarlo?

 Se negli ultimi decenni l’identità adulta è stata principalmente fondata sul lavoro e sulla possibilità di costruire un proprio ruolo sociale e professionale, oggi quel modello appare in crisi e non più in grado di offrire le certezze fornite finora. 

Anche per questo, nella “stanza delle parole” dove la psicoterapeuta Stefania Andreoli riceve i suoi pazienti, negli ultimi anni ha cominciato a emergere una istanza generazionale comune: quella dei venti-trentenni e dei trenta-quarantenni, in cerca di aiuto per capire come trovare il proprio posto in un mondo sempre più schiacciato sul presente e che sembra aver perso ogni slancio verso il futuro. 

Partendo dalle storie di chi si rivolge a lei ogni giorno, Andreoli mostra a tutti noi cosa voglia dire essere adulti in quest’epoca di disorientamento, e prova a tessere un filo per ricucire lo strappo che oggi separa i più giovani dai loro genitori e dalle generazioni che li precedono. 

Perché, in un momento in cui le accuse reciproche prevalgono sul dialogo e la richiesta di omologarsi a un irraggiungibile ideale di perfezione vince sul guardarsi davvero, potrebbero essere proprio i giovani adulti, e i nuovi modelli di cui sono portatori in quanto figli del loro tempo, a indicare la soluzione rivoluzionaria capace di aiutare tutti a essere più in ascolto di se stessi e degli altri e, finalmente, anche più felici.


Perfetti o felici. Diventare adulti in un'epoca di smarrimento

 
Rizzoli, 2023

martedì 3 dicembre 2019

LETTERA AGLI INSEGNANTI - di VITTORINO ANDREOLI

PASSIONE, COMPETENZA, PARTECIPAZIONE, ENTUSIASMO

Ti voglio parlare in questa mia lettera delle doti che fanno di te un buon insegnante.
Delle strategie perché tu possa espletare il tuo compito pienamente.Credo che la prima qualità sia l’autorevolezza. Viene percepita come caratteristica della persona ed è certo l’insieme di molti elementi. L’autorevolezza dà credibilità: ti rende punto di riferimento e le tue affermazioni assumono il significato di «verità».
I tuoi allievi se ne accorgono e ne sono certi: di fronte a un mondo di menzogne, improvvisazioni, maschere per «apparire», vedono in te la serietà. L’autorevolezza diventa sicurezza. Non è riducibile a quanto si sa sulla materia, ma fa riferimento a una personalità che si presenta convinta e convincente, coerente, capace di svolgere il proprio ruolo e di manifestarlo anche nel silenzio, con la sola presenza. E persino nell’assenza, poiché l’insegnante viene introiettato e c’è anche quando non c’è e si può giungere a una presenza che dura una vita. L’autorevolezza non è mai autoritarismo, che si veste della violenza e della minaccia del potere.
La qualità che segue subito dopo è la partecipazione alla scuola
Una presenza attiva, animata dalla voglia di dare, di fare sempre meglio senza mai chiudersi in una recita fredda, seguendo uno stanco copione che si ripete da anni. La si misura con il desiderio di andare a scuola, di entrare nell’aula o all’opposto con la paura persino di salire sulla cattedra. La partecipazione è condizionata dal modo di pensare, dallo sforzo di percepire e far percepire qualsiasi argomento in maniera accattivante, interessante e aggiornata, dunque in una versione sempre nuova poiché nulla nelle discipline insegnate rimane immutato e l’insegnante deve coglierne le novità. Ma c’è una partecipazione che riguarda l’affettività e che esprime la voglia di trasmettere quello che uno sa e che ha raggiunto in tanti anni di approfondimenti.
Un sapere che si coniuga con la passione o almeno con il piacere.
Il piacere di insegnare, ecco un altro punto su cui interrogarsi. Riesci a dare un senso alla tua vita proprio per il tuo ruolo, per il fatto di proporti ai tuoi allievi come insegnante e con un sapere specifico che però trasmette al tempo stesso la gioia di quella scelta? Oppure hai quell’aria assente che ti porta faticosamente a compiere un dovere che è però scialbo e senza piacere? Come fossi diventato frigido o frigida. Come se ormai il piacere dei sensi fosse pura illusione o ricordo di momenti meno sfortunati.
Sei un rassegnato?
Nessun lavoro, senza il gusto di compierlo, può risultare gratificante e dunque efficace. Vale quindi il principio che il piacere con cui svolgi il tuo ruolo di insegnante è proporzionato alla sua efficacia. E quindi al gradimento della classe che lo dimostrerà stando attenta e appassionandosi alla tua materia poiché vi sente dentro la tua personalità. Altrimenti il tuo competitore diventerà il computer che è disanimato, mentre tu l’anima ce l’hai: è la caratteristica che differenzierà sempre l’uomo dalle macchine.
Una qualità importante si lega alla tecnica della comunicazione e quindi all’efficacia del messaggio che la lezione trasmette. Il tuo racconto, la tua lezione devono avere la forza di una favola per un bambino che, ascoltandola, la partecipa, entra nel personaggio. Anzi alternativamente in tutti e così non solo capisce la struttura della fiaba, ma anche le sue parti e le vive e, se le vive, riesce a farle proprie, ad apprendere. Non devi poi dimenticare che ogni ruolo ha una propria liturgia che va mantenuta e non è concesso a un insegnante diventare amico dei suoi allievi o esercitare un’azione di volontariato.
Il tuo ruolo è sacro e non intendo assolutamente parlare di missione, che non c’entra nulla, ma mi riferisco alla sacralità come svolgimento di una cerimonia che è certo fondata su un sapere razionale, ma anche su qualche cosa di strano, di fascinoso, persino di misterioso, poiché il mistero rimane dentro il pensiero umano. Tu non sei il padre dei tuoi allievi, non l’amico, non lo psicologo che assiste ai drammi della crescita. Sei un uomo o una donna con l’incarico di allevare un gruppo di persone, di fare il direttore d’orchestra e devi indossare, anche materialmente, un abito che sappia di cerimonia, che si adegui alla tua parte.
Questa società ha creduto di demolire ogni formalità e non si è accorta che non cancellava semplici decorazioni bensì la sacralità della vita. E la scuola non può essere banalizzata come se fosse un luogo di intrattenimento per giovani, un pub o un club di amici”.