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di Giuseppe Savagnone*
È
dei giorni scorsi la notizia che nel Regno Unito l’università di Brighton, in una
«Guida al linguaggio inclusivo», ha caldamente sconsigliato al personale di
usare il termine «Christmas», «Natale», per non rischiare di offendere la
sensibilità dei seguaci di altre religioni. Ritornano alla mente le linee-guida
proposte un anno fa dalla Commissione europea e poi ritirate, in cui pure era
contenuta l’indicazione di sostituire il termine “Natale” con quello, più
neutro, di “festività”.
In
realtà già da tempo è in atto in molti paesi d’Europa la tendenza a trasformare
il Natale cristiano in una “festa del solstizio d’inverno”. La motivazione
ufficiale è sempre la stessa: il rispetto delle altre religioni. Lo stesso
argomento con cui ogni tanto, anche in Italia, qualche preside si oppone
all’allestimento del presepe, facendo presente che nelle nostre scuole ormai ci
sono molti studenti musulmani.
A
dire il vero i primi a sorprendersi di questo “atto di delicatezza” sono
proprio i seguaci dell’Islam, perché il Corano, nell’unica sura (capitolo)
dedicata a una donna, precisamente a Maria, parla esplicitamente dell’annuncio
dell’angelo Gabriele alla Madonna e della nascita verginale di Gesù (anche se
come grande profeta e non come Figlio di Dio).
Senza
dire che, in ogni caso, la tolleranza religiosa non può essere intesa come una
rinunzia alle rispettive identità, ma va riletta alla luce di un pluralismo che
promuova il loro dialogo, nel rigoroso rispetto delle rispettive differenze, al
di là di ogni mortificante omologazione.
Ma
forse a non capire più il senso della nostra identità siamo proprio noi, i
cristiani, ormai succubi di un clima consumistico che ha trasformato il Natale
in un’occasione di acquisti e di divertimenti, mettendone in secondo piano (se
non addirittura annullandone) il valore religioso. Babbo Natale ha ampiamente
sostituito il Bambino Gesù e anche i pagani alberi di Natale prevalgono ormai
sui vecchi presepi.
Eppure,
vi è qualcosa che il Natale può dire anche a chi non ci crede più o ci continua
a credere solo per una stanca abitudine. Qualcosa che ha che fare non solo e
non tanto con la sfera del divino, ma anche e innanzi tutto con quella
dell’umano, anch’essa minacciata dal dilagare di una festosità senza altro
contenuto che il trionfo del mercato.
Proverò
a racchiudere questo messaggio del Natale in tre parole.
Il
silenzio
La
prima è “silenzio”. Da sempre la rappresentazione della nascita di Gesù è
collegata a un calmo paesaggio notturno innevato (non è un’invenzione: a
Bethlem d’inverno fa veramente freddo) e al grande, muto stupore di pochi,
umili testimoni. Nessun frastuono di folle in attesa, nessun comitato di
accoglienza, nessun rumoroso festeggiamento ufficiale. L’evento a partire da
quale nel mondo occidentale si è poi misurato lo scorrere degli anni –
suddividendolo nella fase “avanti Cristo” e in quella “dopo Cristo” – allora
passò del tutto inosservato.
Eppure,
il silenzio ha una sua forza, oggi misconosciuta. La liturgia natalizia
contiene, a questo proposito, un passo del libro della Sapienza: «Mentre un
profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo rapido
corso, la tua parola onnipotente si slanciò dal cielo, dal tuo trono regale»
(18, 14-15). Romano Guardini commenta: «Queste parole parlano del mistero
dell’incarnazione e il silenzio infinito, che vi opera dentro, trova in esse la
più felice espressione. Le cose grandi maturano nel silenzio».
Certo,
ce n’è uno che nasce dall’indifferenza e dall’emarginazione. Il silenzio di una
porta chiusa e di una mancata risposta. Anche questo ha segnato la nascita di
Gesù, per cui non c’era posto nell’alloggio comune. In questo silenzio disumano
si è trovato immerso, pochi giorni fa, il ragazzo ventenne extra-comunitario
che, a Bolzano, dopo aver vanamente cercato un posto dove dormire, ha dovuto
trascorrere la notte in un rifugio di fortuna, sotto un cavalcavia, ed è morto
di freddo.
Ma
c’è anche un silenzio che è molto di più dell’assenza di parole e che
scaturisce dalla loro incapacità di esprimere una sovrabbondanza di significato.
Un silenzio che oggi siamo ormai disabituati a percepire, intenti come siamo a
esorcizzare con le nostre chiacchiere e i nostri luoghi comuni ogni vuoto
imbarazzante di rumori. Anche per fuggire da noi stessi e non ritrovarci faccia
a faccia con un vuoto profondo che non vogliamo scoprire.
In
questo silenzio, dice il racconto del Natale, Dio ha scelto di incontrare
l’umanità, attirando in esso non solo gli umili pastori, ma anche tutti coloro
che dopo quella notte di duemila anni fa avrebbero scelto di entrarvi in punta
di piedi, lasciandosi alle spalle il chiasso e l’agitazione, per ascoltare se
stessi e, dentro se stessi, il Verbo inesprimibile che solo in un grande
silenzio si può percepire.
Fragilità
La
seconda parola è “fragilità”. Il Natale ne è la festa. Esso racconta di un Dio
che si fa uomo – «carne», dice il quarto vangelo (Gv 1,14), per sottolineare
non solo e non tanto la fisicità dell’incarnazione, quanto la sua
compromissione con le ambiguità e la problematicità dell’umano.
A
sottolineare questa vulnerabilità è il fatto – ovvio, trattandosi di una
nascita – che nella stalla di Bethlem ora c’è un neonato, bisognoso di tutto,
come ogni neonato. Ma questo bambino è reso ancora più fragile dal suo essere
il figlio di poveri, che hanno dovuto farlo nascere in una stalla (chi guarda
un presepe raramente pensa a ciò che questo ha significato dal punto di vista
igienico). Un’antica tradizione dice che il solo riscaldamento, in quella notte
gelida, venne dal fiato di un bue e di un asino.
L’immagine
di precarietà offerta dalle vicende, spesso tragiche, del flusso migratorio,
trova un preciso riscontro nella storia del Natale. Altro che festa del
consumismo! Quella fu una storia di poveracci senza permesso di soggiorno,
molto simili a quelli che oggi tanti buoni cattolici non vogliono vedere
arrivare nel nostro paese, anche a costo che li si lasci affogare.
Ma
il richiamo alla fragilità che proviene dal Natale ci riguarda anche, e forse
più profondamente, sotto altri aspetti. Perché gli uomini e le donne del nostro
tempo si sperimentano tutti fragili, indipendentemente dalle condizioni
esteriori. La figura leonardesca dell’uomo che sta al centro dell’universo, i
ritratti rinascimentali, raffiguranti volti intensi e risoluti, sono stati
emblematicamente sostituiti dalle immagini, presenti in certi quadri di
Picasso, di volti destrutturati, i cui diversi elementi appartengono a
prospettive diverse incompatibili fra loro: un occhio di fronte e uno di
profilo, un orecchio qua e il naso là…
Questa
frammentazione rispecchia la nostra. Un filosofo contemporaneo ha paragonato
l’io a una società per azioni – molteplice per definizione – , in cui le maggioranze variano
continuamente. La provvisorietà è diventata la cifra dei rapporti affettivi,
del lavoro, della residenza. Siamo tutti, da questo punto di vista, dei
migranti…
Certo,
anche qui c’è un modo di vivere questa fragilità che la rende disastrosa per
l’equilibrio personale e ce n’è uno che comporta la sua umile accettazione e la
sua valorizzazione positiva. La vulnerabilità, ha scritto una volta qualcuno, è
la nostra finestra sulla realtà. È la rinunzia alla corazza dietro cui in
passato si trincerava l’uomo “tutto d’un pezzo”. E può diventare la
partecipazione consapevole a tutte le fragilità degli uomini e delle donne
nostri fratelli e sorelle.
Il
racconto di Natale ci parla di un Dio che ha voluto essere anche lui partecipe
di questa ferita, che è anche una ricchezza.
Mistero
La
terza parola che può esprimere ciò che il Natale ha da dire alla nostra società
secolarizzata è “mistero”. Un termine che esprime ciò che di inafferrabile, e
tuttavia di affascinante, si nasconde nel mondo e nella nostra stessa vita.
Oggi
il potere della tecnica si manifesta in ogni aspetto dell’esistenza.
L’impressione che ne risulta è quella di una realtà fisica che può essere
dominata e manipolata senza limiti. Lo stesso essere umano diventa oggetto di
questa manipolazione, per fini
pienamente condivisibili e per altri che lo sono assai meno.
L’attitudine
allo stupore di fronte alla ricchezza e alla imprevedibilità del reale è sempre
più ridotta. Pur con la fragilità di cui si diceva prima, siamo noi gli
artefici del nostro mondo e del nostro destino. Non ci sono più misteri, ma
solo zone ancora in ombra che attendono di essere illuminate dal progresso
della nostra conoscenza e asservite al nostro dominio.
Eppure,
vi è qualcosa in questo contesto, a prima vista entusiasmante, che appare
problematico. Perché eliminare del tutto il mistero comporta un appiattimento
del mondo sulla nostra misura. Richiamo di non vedere altro che noi stessi.
Peggio: di eliminare anche il mistero che è in noi e che nessuna misurazione scientifica,
nessuno strumento tecnico, potrebbe mai catturare.
L’arte,
la religione, la filosofia, hanno sempre espresso, nelle varie manifestazioni,
l’oscura presenza di questo “oltre”, che non è una minaccia per l’umano, ma una
condizione della sua identità, perché ne dice il limite costitutivo e lo apre
indefinitamente a Qualcosa o a Qualcuno che lo supera.
Il
Natale è pieno del senso di questo mistero. Il silenzio e la
fragilità di cui parlavamo ne sono la manifestazione. Dio in questo evento
rivela se stesso. Ma ci aiuta anche a riconoscere qualcosa di essenziale per
riconoscerci nella nostra autenticità. Il solstizio d’inverno non può fare
questo. Si può essere credenti o no, ma per tutti il Natale è una risorsa
preziosa, a cui non dovremmo rinunziare e a cui, anzi, faremmo bene ad
accostarci con un po’ di maggiore consapevolezza.
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