il mondo
da dare il suo
Figlio unigenito»
Le opere di Giotto, Botticelli e de La
Tour ci ricordano il valore di questa storia incontrata molte volte: è come se
Dio deponesse una stella nelle nostre mani vuote.
Partiamo
da tre rappresentazioni della scena del Natale che probabilmente tutti abbiamo
visto e che danno un contribuito decisivo al canone della pittura a occidente:
la pioniera Natività di Giotto, la cosiddetta Natività mistica di Botticelli e
Il neonato di Georges de La Tour. Un trittico che si offre alla nostra
meditazione. Su Giotto (1267-1337) c’è quel racconto del Vasari che narra come,
all’età di dodici anni, egli fosse un pastore di pecore che andava spargendo
disegni sulle pietre. Lo avrebbe visto uno dei grandi pittori toscani
dell’epoca, Cimabue, che lo ingaggiò come apprendista nella sua bottega.
Eppure, forse ancor più decisivo sarebbe stato l’incontro con la traccia
lasciata dalla figura di san Francesco d’Assisi (1181-1226). Li separano
quattro decenni, ma Giotto conierà alcune delle immagini più celebri di quel
giovane mendicante innamorato di Dio che aveva ispirato una delle riforme
spirituali di maggior impatto nel percorso storico del cristianesimo, e i cui
effetti incrociano il nostro presente. Era stato il Poverello, la notte di
Natale dell’anno 1223, nella povera contrada di Greccio, a organizzare la prima
rappresentazione dal vivo della nascita di Gesù. Como spiega il suo cronista
Tommaso da Celano, Francesco voleva «vedere con gli occhi del corpo» il bambino
nato a Betlemme, «i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose
necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul
fieno tra il bue e l’asinello». Fece vestire gli abitanti di Greccio con le
vesti degli antichi pastori, dei magi, di Giuseppe e di Maria. Era il trionfo
degli umili. Veniva così a fissarsi la tradizione del presepio nel suo nucleo
essenziale. Ma vi si inscriveva allo stesso tempo un insegnamento che non può
essere dimenticato: tutti gli abitanti di Greccio (e, per estensione, di tutta
la terra) possono essere attori nella narrazione plasticamente espressa nel
presepio. Nessuno è escluso. Secondo le belle parole della testimonianza di Tommaso
da Celano, un qualsiasi borgo sperduto poteva trasformarsi in «una nuova
Betlemme», poiché quella «notte è chiara come pieno giorno e dolce agli uomini
e agli animali ». Di quella notte, quando un’intera popolazione celebrò una
gioia nuova, il pittore Giotto ripropose la memoria in un affresco della
Basilica inferiore di Assisi. Uno dei caratteri dell’arte di Giotto è che egli
rappresenta i santi come esseri umani dall’apparenza comune. Contemplando la
sua natività, in effetti, avvertiamo di essere posti davanti a una storia vera,
non davanti a una favola. Tutto è imponente, vasto e splendente come il blu
della volta celeste o del manto di Maria. Ma tutto è anche vero e vernacolare:
la madre prende realisticamente il figlio tra le sue braccia, e nella scena
inferiore le aiutanti lo fasciano e nutrono come si fa con un neonato per
proteggerlo. Sono modi di tenere al riparo la fragilità della vita nuda di Dio,
che nel presepio si fa Dio con noi, un Dio che si può toccare. E costituiscono,
al tempo stesso, pezzi di una storia che appartiene a ogni vivente, la parabola
universale dell’esistenza. È chiaro che il presepio rappresenta, nel suo gioco
di miniaturizzazione e ingrandimento, una meditazione sull’infanzia di Gesù. Ma
è simultaneamente la possibilità, per l’essere umano, di un’infanzia ritrovata.
Nella sospensione cosmica che il presepio visualizza graficamente, comprendiamo
allora che la nostra stessa creazione non è terminata.
Gli
angeli scendono ad abbracciare gli uomini
Una
delle raffigurazioni più commoventi del presepio è quella che molti critici
ritengono essere l’ultima grande opera firmata da Sandro Botticelli. Essa data
da un periodo abitualmente descritto come di profondi rivolgimenti e di
ricostruzione spirituale, quando l’autore, confrontandosi con la predicazione
apocalittica del Savonarola, ripensa tutto il suo percorso precedente. Sotto
l’impatto della dottrina del frate domenicano, Botticelli abbandonerà i temi
profani divenuti emblematici della sua opera per dedicare gli ultimi anni esclusivamente
alla pittura sacra. È in tale contesto che appare, nel 1501, la Natività
mistica. Si tratta, sotto il profilo artistico, di un’operazione complessa, dal
momento che qui si procede a una volontaria regressione nella costruzione della
prospettiva, la quale si fa di nuovo più prossima all’iconografia medievale, in
una deliberata ricerca della struttura ieratica. Da un lato, abbiamo il ritorno
a una tradizione iconografica che si riteneva superata. Dall’altro, però, ci
troviamo di fronte al coraggio di rappresentare il presepio con una modalità
innovatrice. Alle prese con il mistero dell’incarnazione, Botticelli non è
semplicemente interessato a raccontare ciò che fu: si arrischia a descrivere
quello che è e che sarà. Combina la descrizione della prima venuta di Cristo,
qual è raccontata nei Vangeli dell’Infanzia, con la visione della seconda
venuta di Cristo, che il cristianesimo professa. Per questo, abbiamo in questo
suo dipinto la venuta e anche il ritorno; l’inizio del tempo messianico, e il compimento;
la memoria, e anche la speranza. In alto, la danza dei dodici angeli, in un
girotondo sotto la cupola dorata che allude alla rigenerazione spirituale, alla
concordia tra il mondo e le sfere celesti. Sul tetto della stalla, altri tre
angeli che aprono il libro e rivelano che in quel luogo il Verbo si è fatto
carne. Al centro della rappresentazione c’è Gesù Bambino, deposto nella
mangiatoia, sorvegliato dall’asino e dal bue, e che tende le braccia a Maria.
Al suo fianco, Giuseppe che sonnecchia. Maria e Giuseppe insegnano in questo
modo ad accogliere quello che viene da Dio e che non comprendiamo, o capiremo
solo più tardi. A loro si associano i magi e i pastori, condotti da un angelo a
Gesù. Per cogliere il significato del presepio serve uno sguardo spirituale.
Penso
spesso alla lezione di questi ultimi. Essi corsero a vedere un Bambino che era
nato tra le privazioni di una stalla e ritornarono per la loro strada lodando
Dio, ricolmi di gratitudine per il segnale che era stato dato loro. Possiamo a
ragione domandarci: “Ma che cosa videro?”, “Che cosa mai contemplarono di
talmente straordinario o grande da essere capace di riempire il loro cuore?”,
“Non era esposta ai loro occhi, in fondo, semplicemente la vita vulnerabile;
un’esistenza condizionata dalle evidenti difficoltà materiali e logistiche che
il presepio offre; la vita avvolta negli stracci di un’estrema fragilità?”.
Eppure, i pastori e i magi usciranno da quella visione quasi danzando,
intonando inni! Non restano lì in attesa di contemplare l’opera compiuta: ne
salutano il principio. Rimangono estasiati ad assistere allo sbocciare del
fiore. Accolgono la grandezza del dono e niente più, inginocchiandosi davanti
al suo umilissimo apparire. Quel Bambino spoglio di ogni forza, munito unicamente
di quanto le braccia con un abbraccio possono fare, trasforma radicalmente la
storia, instaura la vittoria sul male. E non per nulla in questo dipinto ci
sono sette piccoli demoni che, alla vista del Principe della Pace, si ritirano,
vinti, nelle fessure delle rocce. E compare allora un insolito e straordinario
registro iconografico: in basso, nel primo piano del quadro, tre angeli vengono
ad abbracciare gli uomini. Davvero Botticelli rilegge il presepio come un
abbraccio. Ma quale tipo di abbraccio? Se facciamo caso al simbolismo delle
vesti degli angeli (bianco, verde e rosso), è l’abbraccio della fede, della
speranza e della carità. Ma è l’abbraccio dato al fango e alla stella che ogni
essere umano porta in sé, alla sete e alla sorgente, al desiderio e al viaggio,
alla coscienza e alla vertigine, alla polvere che muore e a un granello di
infinito. Questo abbraccio dilata in noi l’idea dell’amore.
La
nudità di Dio che si fa carne
Anche
quello di Georges de La Tour (1593-1652) è un caso curioso. Egli è molto
differente dai suoi contemporanei. Ha ricevuto committenze pubbliche come gli
altri, e tuttavia non fu mai associato alla rappresentazione di un potere o
alla monumentalità celebrativa. Pensò la pittura come un incontro dell’essere
umano con sé stesso; desiderò l’arte come un evento contemplativo la cui
essenza non si distanza, per esempio, dalla preghiera. E tradusse tutto questo
illuminando i suoi dipinti dall’interno con la luce di una fiamma. A ragione
Pascal Quignard dice che quella candela tremula nella sua opera, e da cui
questa dipende, è l’immagine stessa di Dio. I suoi quadri diventano,
conseguentemente, esercizi spirituali, carichi di mistero, solitudine e
silenzio. In essi intuiamo che il Verbo non può essere accolto che nel
silenzio.
I
chiaroscuri e i notturni di de La Tour testimoniano l’importanza che nel suo
percorso formativo ebbe Caravaggio. Mentre, però, de La Tour si avvicina a lui,
allo stesso tempo se ne allontana. I suoi dipinti religiosi prendono le
distanze dalla grandezza delle figure del Caravaggio o dalla sua drammatica mise
en scène, talora violenta: sono, al contrario, più quotidiane, più silenti,
a noi così vicine da sembrare disposte a confondersi con noi. Non stupisce che
ci sia chi interpreta quel capolavoro che è Il neonato (datato al 1645 circa)
non come una raffigurazione sacra ma come un momento familiare attorno a un
bebè qualsiasi. Ci troviamo, tuttavia, davanti a una duplice operazione: de La
Tour spoglia e semplifica – è certamente vero –, ma al fine di rimuovere quel
velo che può essere rappresentato dalla teatralizzazione del divino. Se quel
neonato è il Figlio di Dio, noi lo capiremo non dalla forza, ma dall’umiltà;
non dall’imposizione di un discorso, ma dal vagito silenzioso che riempie lo
spazio; non dall’esplicitazione enfatica dei personaggi in gioco, ma dalla
liturgia senza parole dei loro corpi, in una gravità nuda. La gravità e la
nudità del Dio che si fa carne. Tornano in mente i versi di Fernando Pessoa: «Egli
è l’Eterno Bambino, il dio che mancava. / Egli è l’umano che è naturale, / egli
è il divino che sorride e gioca. / È per questo che io so con assoluta certezza
/ che egli è il vero Gesù Bambino».
La
fiaba e la storia
«Non
si comprende nulla del presepe, se non si comprende innanzi tutto che
l’immagine del mondo, cui esso presta la sua miniatura […] è un’immagine
storica». In un saggio sul presepio, il filosofo Giorgio Agamben lo contrappone
alla natura e alle dinamiche tipiche delle fiabe: queste sono l’espressione del
meraviglioso, mentre quello ha, come sua materia prima, la storia. Nel
presepio, dice Agamben, siamo restituiti all’univocità e alla trasparenza degli
avvenimenti storici. Il presepio funziona come un fotogramma della storia.
Fissa realmente il tempo in un’immagine precisa, e non con il linguaggio del
mito o l’artificio della favola, ma nello spoglio intervallo (che il filosofo
definisce «intervallo messianico») tra due istanti. L’immaginario è così vinto
dalla realtà, con quella concretudine che si respira nello straordinario
prologo del Vangelo secondo Giovanni: «In principio era il Verbo, e il Verbo
era presso Dio e il Verbo era Dio… E il Verbo si fece carne e venne ad abitare
in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria». O nel vertiginoso
incipit della Prima Lettera di Giovanni, così costruito: «Quello che era da
principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri
occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della
vita – la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta». Questa
testimonianza di una visione storicamente attivata mostra che il presepio non è
solo un dato cronologico appartenente a duemila anni fa, bensì rappresenta,
come scrive Giorgio Agamben, «un evento kairologico». Kairologico vuol dire che
non si tratta solo di un momento puntuale: è piuttosto l’occasione opportuna,
il tempo favorevole e la condizione necessaria perché la storicità prenda il
volo e faccia sussultare il mondo.
Il
presepio in cui Dio nasce
Ora,
partendo esattamente dalla irremovibile storicità dell’avvenimento che il
presepio rappresenta, ne concludiamo che ogni uomo è il presepio in cui Dio
nasce. I presepi che vengono allestiti, e poi tranquillamente messi via, i
presepi ai quali riserviamo una scadenza determinata (e non al di là di
questa), i presepi che soltanto illustrano l’inoffensiva nostalgia dei simboli,
non sono veri presepi. Il presepio siamo noi. È dentro di noi che un Dio nasce.
Dentro questi gesti che in uguale misura sono rivestiti di speranza e di ombra.
Dentro le nostre parole e il loro traffico sonnambulo. Dentro il riso e
l’esitazione. Dentro il dono e l’attesa. Dentro il calore della casa e
nell’addiaccio imprevisto. Dentro il pendio e dentro la pianura. Dentro la
lampada e nel grido. La nostra stirpe è quella degli appena nati. Quale che sia
la nostra età o la stagione che ci troviamo a vivere, la verità è che noi
siamo, fino alla fine, una cosa al suo inizio. E il presepio conferma che la
nascita è struttura fondante della vita.
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