del
MERITO
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di Antonino Petrolino
Ha
fatto molto discutere – anche con argomentazioni a volte sopra le righe – la
decisione del nuovo governo di mutare l’intitolazione del ministero
dell’Istruzione, aggiungendovi la menzione “e del Merito”. Discussioni quasi
certamente oziose e destinate a rapido oblio: ma la questione non è nuova.
Sorprende,
sotto questo profilo, che sia stato proprio il ministro Valditara a
intestarsela, lui che era uno dei più stretti collaboratori del ministro
Gelmini al tempo, non troppo lontano, in cui questa lanciava insieme a Roger
Abravanel il suo “Piano nazionale per la qualità e il merito”. Dovrebbe sapere
per esperienza diretta che fine fece quell’impegnativo progetto.
Come
pure, in virtù della sua formazione umanistica di indubbio livello, dovrebbe
sapere che le innovazioni di natura valoriale e a forte valenza simbolica non
si annunciano, ma si mettono in pratica silenziosamente. Se ci si riesce,
naturalmente. In caso contrario, si corrono due rischi: uno derivante
dall’opposizione di principio di chi non accetta quei valori e l’altro
derivante dal probabile insuccesso dell’iniziativa. E tuttavia la questione, in
una scuola come la nostra, è tutt’altro che irrilevante.
Basti
pensare alle elaborazioni dell’Invalsi, poco più di un anno fa, da cui emergeva
come le valutazioni “interne” del merito nelle scuole fossero diametralmente
opposte rispetto a quelle “esterne” dell’istituto. Interi territori in cui le
competenze di lettura e di calcolo degli studenti si collocavano per oltre il
60% al di sotto del livello minimo accettabile, ma che riportavano, negli esami
di Stato (di Stato!) valutazioni nettamente superiori alle medie nazionali.
Evidentemente, gli strumenti di misura sono tarati nei due casi su obiettivi
divergenti: il che significa che l’idea di “merito” sottostante alle due
valutazioni è radicalmente diversa.
Ora
il vero problema, per un ministro dell’Istruzione – tanto più se sceglie di
intitolarsi anche come garante del merito – sta proprio qui: può un sistema di
istruzione che si vuole tuttora nazionale permettersi il lusso di una
divaricazione così radicale fra le valutazioni compiute dal suo maggiore
istituto di riferimento scientifico nella materia e quelle operate dai suoi
insegnanti? Su quale dei due termini si dovrà intervenire per richiudere, o
almeno ridurre, il divario attuale?
Si
dovrebbe, per carità di patria, escludere che a sbagliare clamorosamente sia
l’Invalsi: vi lavorano alcuni fra i migliori specialisti del settore e, del
resto, i modelli cui ispira la sua azione sono largamente condivisi e praticati
a livello internazionale. Su un mercato del lavoro che si fa sempre più
globale, non è irrilevante che la valutazione – e, implicitamente, la
promozione del merito – avvenga sulla base di criteri transnazionali. E dunque,
salvo errori di dettaglio sempre possibili, le valutazioni del sistema
nazionale sono da ritenersi attendibili.
Se
ne dovrebbe inferire che a sbagliare siano gli insegnanti, o almeno quelli fra
loro i cui giudizi più si discostano dalle rilevazioni scientifiche nazionali.
Non è una tesi che si possa sostenere a cuor leggero: eppure è vero – e ben lo
sanno tutti coloro che hanno esperienza di scuola vissuta – che, quando un
insegnante “valuta” i propri studenti, il merito accademico è solo uno dei
parametri presi in considerazione. Spesso (troppo spesso?) quel giudizio
incorpora una misura importante di valutazione della persona. Non che questo
sia sbagliato in sé: dipende però, ancora una volta, da quali sono i parametri
utilizzati.
Volendo
semplificare, senza eccedere, i più frequenti sono due: una misura di
“risarcimento” per le difficoltà personali dello studente che hanno potuto
incidere sul suo rendimento scolastico (fattori familiari, socioeconomici,
eventi negativi eccetera); e un giudizio di adeguatezza sociale, cioè quanto la
personalità dello studente nel suo insieme sia vicina a un modello di
desiderabilità sociale percepita. Detto in termini più diretti: quanto quello
studente sembri potersi adattare positivamente alle richieste della comunità
nella quale si prepara a inserirsi. Non solo per quello che “sa”, ma per quello
che “è”.
Questa
affermazione può suonare discutibile o apparire fondata su assunti non
verificabili, e certamente è così a livello dei singoli casi. Ma, ancora una
volta, le politiche scolastiche si fanno sui grandi numeri. E i grandi numeri
ci mostrano, con una costanza che merita considerazione, che, nei territori in
cui il capitale sociale – misurato con i criteri sociologici correnti – è
elevato, gli insegnanti tendono a essere più esigenti, in quanto percepiscono
che i loro studenti dovranno mostrarsi all’altezza di un contesto più sfidante.
Il contrario avviene là dove il capitale sociale è di livello mediocre o
insoddisfacente. Ci sarà una ragione se il Trentino è in cima alle classifiche:
e mi sia concesso di evitare di indicare esempi di segno opposto, che peraltro
sono noti a tutti.
Che
questo accada non è sostanzialmente materia di dubbio: perché accada, può
esserlo. Se, cioè, insegnanti di territori ad alto capitale sociale siano essi
stessi partecipi di aspettative elevate e quindi tendano a essere esigenti nel
giudizio; ovvero semplicemente perché operino una comparazione implicita fra
quello che vedono essere il livello delle aspettative sociali e quello che
percepiscono essere il livello di preparazione degli studenti.
Se
questa diagnosi fosse vera, anche solo in parte, essa metterebbe ancor più
radicalmente in discussione la scelta compiuta dal ministro, non perché la
ricerca del merito non sia necessaria nella nostra scuola, ma perché essa
dipenderebbe soprattutto da fattori sociali e non organizzativi, e quindi fuori
della sua diretta portata; in sostanza, dalla possibilità di agire su leve in
grado di migliorare – molto lentamente, come è ovvio – il capitale sociale di
ampie parti del nostro territorio. Il che non è solo una questione di reddito
pro capite, ma include, fra altri, anche quell’aspetto.
Rafforzare
il Snv, a sua volta, comporta altre scelte politiche: ardue, ma non impossibili
e neppure oltremodo costose. Per esempio, la messa a regime della valutazione
esterna delle scuole, fino ad oggi solo sfiorate da quell’intervento.
Servirebbero, secondo calcoli attendibili (condotti, ad esempio, da TreeLLLe),
non più di 300-400 ispettori, da dedicare in buona parte a questo scopo.
Che
non vi siano, su 800mila docenti, 400 potenziali valutatori di buon livello non
è verosimile e non è possibile. Basterebbe mettersi con decisione e coerenza su
questa strada e, nel giro di cinque anni potremmo aver dato al nostro sistema
un impulso ben altrimenti efficace verso la promozione del merito che non una
semplice scelta onomastica.
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