Una proposta di cui
non possiamo essere orgogliosi
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di Giuseppe Savagnone *
È
di questi giorni la proposta, da parte della Commissione europea, di un
regolamento per assicurare che i diritti riconosciuti ai figli di una coppia
omosessuale in uno Stato membro lo siano automaticamente in tutta l’Unione
europea. Se il Parlamento e il Consiglio approveranno la proposta, una coppia
gay, che abbia ottenuto il riconoscimento della propria genitorialità nei
confronti di un bambino da uno Stato dell’Unione, potrà ottenere un certificato
valido anche in tutti gli altri Stati membri.
La
presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, in un tweet si è detta
«orgogliosa» di questa iniziativa. «Se tu sei genitore in un Paese», ha
scritto, «sei genitore in tutti».
«Non
si tratta di cambiare il modo in cui ogni Stato definisce la famiglia», ma di
«proteggere i diritti del bambino», ha detto il commissario alla Giustizia, il
belga Didier Reynders.
L’obiettivo
dichiarato è, infatti, di garantire pieni diritti a «tutti i tipi di famiglie
quando si spostano da uno Stato membro all’altro per motivi di viaggio o di
residenza», e in particolare ai loro figli – che, nel caso delle coppie
omosessuali sono ovviamente adottivi – , in campi quali la successione, gli
obblighi alimentari, le questioni scolastiche o sanitarie o il diritto di
custodia.
Il
magistero morale della UE
Si
tratta di un’esigenza ragionevole, che sembrerebbe al di sopra di ogni
possibile riserva. In realtà dei problemi ci sono. Il primo nasce dal fatto che
all’interno dell’Unione europea le posizioni in materia di adozione da parte
delle coppie omosessuali sono nettamente diversificate.
Con
due blocchi agli antipodi: da un lato i Paesi nordici – Danimarca, Svezia,
Finlandia – , i primi a riconoscere pieni diritti delle coppie omosessuali,
anche riguardo al tema della genitorialità. Sul fronte opposto i Paesi dell’Est
– Ungheria, Bulgaria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Slovacchia – , che
non prevedono alcuna disciplina né tutela dei rapporti di filiazione
omoparentale.
Il
primo fronte si è sempre più rafforzato, in questi anni, con l’adesione di
nazioni come Francia, Germania, Spagna, Portogallo, Irlanda, Lussemburgo,
Olanda, Belgio e, recentemente, Slovenia e Croazia, che hanno scelto la via
della piena uguaglianza tra coppie gay e copie eterosessuali anche riguardo
alla genitorialità.
L’Italia
ha introdotto le unioni civili tra persone dello stesso sesso soltanto nel
2016, con la legge n.76, in cui però non è previsto il riconoscimento delle
adozioni, anche se poi di fatto singole sentenze della magistratura le hanno
convalidate.
L’eventuale
approvazione del regolamento proposto dalla Commissione europea implicherebbe
una omologazione che di fatto svuoterebbe queste differenze ed estenderebbe a
tutti i Paesi dell’UE l’apertura alle adozioni da parte delle coppie
omosessuali. Esse, infatti, sarebbero legittimate, anche in quelli che
attualmente non le prevedono, in base al certificato ottenuto da una coppia in
un Paese dove invece sono permesse. A questo punto diventerebbe solo questione
di possibilità economiche permettersi un viaggio all’estero per acquisire tale
certificato. E questo creerebbe una ingiusta disparità, eliminabile solo col
cambiamento di legislazione anche nei Paesi in cui l’adozione non è consentita.
È
chiaro, dunque, che, malgrado l’assicurazione del commissario europeo,
l’innovazione determinerebbe una parziale ma significativa modifica del regime
giuridico della famiglia all’interno dei vari Stati membri, estendendo a tutte
le coppie gay il diritto di avere dei figli.
Sarebbe
un passo ulteriore nella direzione già intrapresa da tempo dalle istituzioni
della UE per esercitare un’autorità morale e giuridica in questioni etiche,
come l’aborto – è di qualche mese fa la proposta del Parlamento europeo di
inserire il diritto di aborto nella Carta dei diritti fondamentali – , scavalcando le posizioni assunte dai
singoli Stati membri.
Paradossalmente
l’Europa, ancora divisa – come ha una volta di più dimostrato la recente crisi
energetica – su tante scelte politiche, in cui si evidenzia il persistere di
una logica sovranista da parte dei singoli Paesi, soprattutto dei più potenti,
sembra cercare la sua unità a livello intellettuale e morale, condizionando
pesantemente i suoi membri, fino al punto di cercare di imporre uno schema
unico in un ambito così delicato com’è la famiglia.
Evidentemente
a Bruxelles si pensa che la differenza di posizioni su questi problemi derivi
da un ritardo culturale ed etico di alcuni Paesi rispetto ad altri e che la
battaglia per i diritti sia alla fine produttiva di un progresso per tutti.
C’è
il diritto di avere figli ad ogni costo?
Ma
è davvero così? Davvero la filosofia dei diritti – sistematicamente scissa da
quella delle responsabilità e dei doveri e oggi considerata indiscutibile, al
pari dei vecchi dogmi religiosi – può essere sottratta a quel ragionevole
controllo critico che proprio la tradizione illuminista dell’Europa ha sempre
ritenuto indispensabile?
Proprio
il caso della genitorialità può essere un esempio dei problemi che questa
filosofia comporta. Perché è un tipico diritto, ormai indiscusso, quello delle
coppie – eterosessuali o gay – di avere figli. A qualunque costo. Da qui la
pratica della fecondazione assistita, anche eterologa, fino all’estremo del
ricorso alla maternità surrogata – il cosiddetto “utero in affitto” – una forma
di procreazione assistita in cui una donna provvede alla gestazione per conto
di una o più persone, che saranno il genitore o i genitori del nascituro.
Il
ricorso a tale metodo viene solitamente sancito attraverso un contratto, in cui
il futuro genitore (o i futuri genitori) e la gestante dettagliano il
procedimento, le sue regole, le sue conseguenze, il contributo alle spese
mediche.
Anche
se non sempre fondata su una retribuzione della donna gestante (nei Paesi
europei che la permettono, il fine di lucro è escluso), si tratta di una
pratica vistosamente riduttiva dello spessore umano della maternità. La donna
diventa una incubatrice e il nascituro un prodotto da commissionare. Non a caso
molte associazioni femministe si oppongono alla maternità surrogata, vedendovi,
giustamente, un estremo frutto della riduzione della donna – oltre che del
bambino stesso – ad oggetto.
Ora,
per quanto la pratica in questione venga utilizzata soprattutto dalle coppie
eterosessuali che non possono avere figli naturalmente, essa acquista un
particolare significato nel caso delle coppie gay, per cui questa impossibilità
è fisiologica. È inevitabile che la generalizzazione del loro diritto alla
genitorialità favorisca il ricorso all’utero in affitto. Creando una situazione
in cui un numero crescente di bambini dovrà chiedersi di chi è veramente figlio
– se della coppia che lo ha allevato, o della donna che lo ha generato, oppure
ancora (nel caso che l’inseminazione si astata fatta ricorrendo a una banca del
seme) del donatore che ha fornito i suoi spermatozoi. Siamo sicuri che questo
sia il modo migliore di «proteggere i diritti dei bambini»?
Il
problema generale delle adozioni da parte di coppie gay
In
realtà, anche nel caso di una normale adozione da parte di una coppia
omosessuale, questo interrogativo è legittimo. Si sente dire spesso che questa
soluzione è comunque assai preferibile, per un bambino, che rimanere senza
genitori, ricoverato in una casa-famiglia. Chi dice questo non conosce bene la
situazione delle adozioni, almeno in Italia. Ci sono lunghe liste di coppie di
sposi che aspettano mesi e a volte anni prima di poter avere in adozione un
bambino. Sono le lungaggini burocratiche – a volte e in parte giustificate
dalle necessarie cautele – a rallentare fortemente l’assegnazione dei figli
adottivi a chi li richiede, non la scarsità di richiedenti.
Si
tratterebbe dunque, se mai, di preferire alcune volte la coppia gay a quella
etero. Ora, per un bambino è veramente la stessa cosa crescere in rapporto a
una coppia formata da un padre da una madre o in una dove ci siano due madri o
due padri? Una immensa quantità di studi sul ruolo che ha, per una sana
crescita psicologica del figlio o della figlia, la diversa relazione con queste
due figure, sembrerebbe escludere una simile conclusione. E le rassicuranti
interviste rilasciate da figli di coppie gay, da cui emerge la loro perfetta
serenità psicologica, sono soggette all’ovvia riserva che eventuali problemi in
ogni caso si anniderebbero nell’inconscio ed emergerebbero eventualmente solo
dopo molti anni.
Si
dirà che ciò che conta è che ci siano, al di là dell’identità biologicamente
maschile o femminile, una figura che impersona la paternità e una che
rappresenta la maternità. Nella cultura del virtuale, dove la realtà fisica e
biologica viene sistematicamente sottovalutata rispetto all’apparire, questo
misconoscimento del ruolo della corporeità può anche apparire plausibile.
Ma
la vita quotidiana ci ripete ogni giorno che l’identità dell’essere umano è
inscindibilmente psico-fisico-spirituale e che, come diceva un mio amico
medico, «il colon è lo specchio dell’anima». I corpi raccontano la nostra storia,
contribuiscono in modo deciso a determinarla e ne manifestano le profondità. Un
padre e una madre sono tali, anche se adottivi, in quanto uomo e donna. E lo
stesso bisogno di riferirsi, nel caso delle coppie omosessuali, a una
bipolarità sessuale di paternità e maternità, rivela involontariamente
l’insopprimibile richiamo a queste categorie.
Non
si tratta di ricadere in una omofobia che per troppo tempo ha misconosciuto la
dignità degli omosessuali e che costituisce un fenomeno del passato (purtroppo
perdurante spesso anche nel presente) di cui la nostra civiltà deve solo
vergognarsi, ma semplicemente di non chiudere gli occhi sulla realtà. Il
rispetto e la stima che, per esperienza personale, ho di molte coppie
omosessuali – spesso a loro volta contrarie alle adozioni –, non sono in
contrasto con ciò che qui si è detto. E col fatto che il perseguimento del
diritto indiscriminato di avere figli, checché ne pensi la Commissione europea,
non è necessariamente nell’interesse dei bambini.
*Pastorale
della Cultura, Diocesi Palermo
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