Le
nostre fragilità
e la certezza del Natale.
Natale è Dio con noi, con noi invasi dalla malinconia che ci fa sentire sbagliati, con noi perdutamente innamorati nella vita.
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di Matteo Zuppi *
Natale
è molto più buono di quanto pensiamo! E soprattutto è davvero buono, tutt’altro
che una melassa di sentimenti a poco prezzo. Certo, è buono perché ispira
gratuità, induce a donare, a preparare regali e a scoprire che siamo contenti
di prepararli per le persone che amiamo o che vogliamo sentano il nostro amore.
Indicazione valida tutto l’anno! Ma è ancora più buono se pensiamo che il
nucleo incandescente di questa irradiazione di affetti che riscalda il cuore
del mondo a Natale, è il grembo di una ragazza che ha offerto tutto l’amore di
Donna che aveva per dare alla luce il Figlio di Dio.
Natale
è la certezza che il mistero di Dio non è l’oggetto astratto di futili dispute
filosofiche, politiche, persino religiose. Futili, e anche pericolose, perché
interessate a decidere la vittoria di una parte dell’umanità su un’altra. E si
vince solo insieme! Futili perché Dio non lo riconosci nelle dotte istruzioni
dei gestori economici della qualità della vita che, quando le cose vanno male,
denunciano gli errori dei tuoi calcoli e passano all’incasso della loro
buonuscita.
Natale
è Dio con noi, con noi invasi dalla malinconia che ci fa sentire sbagliati, con
noi perdutamente innamorati nella vita. Questo Bambino è l’Emmanuele, il
Dio-con-noi. Davvero con noi. È nato e per trenta anni ci ha studiati
amorevolmente (non con le statistiche e i bilanci), vivendo come noi e con noi,
prima di dirci quello che doveva dirci per conto di Dio. E che doveva dirci,
per conto di Dio? Doveva dirci che il mondo del quale Dio è il Signore (“il
regno di Dio”) è il mondo che viviamo: quello nel quale cerchiamo come possiamo
di amare e di essere amati; quello nel quale sappiamo di non essere mai
all’altezza delle promesse fatte e ricevute. Il Figlio che nasce a Natale
afferma: «In verità, in verità vi dico» che il più piccolo dono d’amore (fosse
un bicchiere d’acqua a un estraneo) vale una vita eterna. E ci fa conoscere la
vita di Dio, che ci è destinata fin dalla creazione del mondo. Nasce nel mondo
perché la nostra vita nasca al cielo. Una vita nella quale la fiducia dei
bambini e le speranze dei loro padri e delle loro madri, avranno un mondo
infinito da abitare: dove ogni lacrima sarà asciugata e neppure una carezza
verrà sprecata.
Il
Natale è più che un sogno, è la carne di Dio che riveste di amore la nostra
fragile carne, di Dio eterno che rivela l’amore del nostro presente.
Nel
Natale di Gesù, il mistero di Dio assume una forma che chiunque può riconoscere
(“chiunque”, capisci?), diventa un volto che si può decifrare, un Tu con il
quale si può prendere confidenza, una carezza e uno sguardo dal quale ci si può
sentire infinitamente amati. Il Natale di Dio non contiene tutte le risposte,
ma ci dona il suo amore che è la risposta a tutto. Da quando Dio è uno dei
nostri bambini, nessuno osi mortificare il più piccolo dei nostri figli. Dio è
nel suo volto. Il Vangelo narra la nascita di Gesù e rivela la causa per cui
Maria è costretta a partorire in una mangiatoia: «non c’era posto per loro
nell’alloggio» (Lc 2,7). Questo non smette di stupirci, commuoverci,
interrogarci. È proprio quello che accade in tante situazioni di fragilità di
donne, uomini, piccoli, famiglie del nostro tempo. Ne condivido tre.
Penso
anzitutto alla fragilità della pace. Viviamo il primo Natale di guerra in
Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ci coinvolge tutti e capiamo quella
«guerra a pezzi» di cui da tempo parlava papa Francesco. Poco ascoltato. Guerra
significa dolore, morte, devastazione del territorio, fuga di chi cerca riparo
lontano da casa. La guerra è il punto di deflagrazione: ma la pace manca pure
dove i diritti vengono calpestati e dove chi li cerca o li difende cercando una
società più giusta e libera viene condannato a morte.
Penso
alla fragilità dell’educazione. La povertà economica risucchia nel suo vortice
una fetta sempre più ampia della popolazione.
Ma
c’è anche la povertà meno evidente ma ugualmente grave della scuola che a
fatica sta riprendendosi dopo i mesi terribili della pandemia. Scuola significa
socializzazione, ascensore sociale, consapevolezza di sé, dignità. Ai giovani
dobbiamo garantire il merito che è possibile per ciascuno, la cultura per
capire il mondo, l’umanesimo per non diventare bruti, le competenze
intellettuali, la crescita nella capacità di relazionarsi, i mezzi stabili per
costruire insieme un mondo migliore. Quanti giovani si sentono e sono spesso
soli, incerti, sempre precari? Questo è il tempo di genitori, di insegnanti, di
educatori e di pastori maturi, che sappiano essere veri maestri di vita e
aiutino a credere al futuro.
Infine,
penso anche alla fragilità dell’evangelizzazione. Il Cammino sinodale, giunto
al suo secondo anno, rivela certo anche tante fatiche, debolezze, a volte il
desiderio nostalgico di tornare a come eravamo prima del Covid, l’incertezza di
risposte non più sufficienti. Il cammino sinodale ha significato anche
l’occasione perché il Vangelo parli di nuovo a tutti i nostri compagni di
strada e ispiri la scelta di costruire comunità umane, case che siano la
famiglia di Dio, Chiese domestiche, di comunione e di servizio ai poveri. Era
proprio questo il programma del Concilio Vaticano II.
Certo,
sentiamo tante fatiche e stanchezze, ma è questa la stagione in cui la Chiesa
sia davvero missionaria e generi l’incontro tra Dio e ogni uomo e donna.
Guardiamo Gesù Bambino nella mangiatoia, Maria e Giuseppe accanto a lui. E
risuonano le parole di san Paolo: «Quando sono debole, è allora che sono forte»
(2Cor 12,10). Ecco il Natale, la pace che disarma i cuori, l’amore che dona
forza e intelligenza la speranza che libera dalla rassegnazione e mette in
cammino. Partiamo proprio dalle fragilità per riconoscerci umili, deboli, ma
capaci di grandi cose perché pieni del Dio che si pensa per sempre con noi.
*Matteo
Zuppi è cardinale, arcivescovo di Bologna presidente della Cei
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