- di
Giuseppe
Savagnone *
Il
decreto anti-rave
e le occupazioni studentesche
C’è
un aspetto che collega le aspre polemiche di questi giorni nei confronti del
decreto “anti-rave” del governo Meloni a quelle esplose per la menzione del
merito nella denominazione del ministero della Pubblica Istruzione.
Col
nuovo provvedimento infatti si introduce nel Codice penale una nuova
fattispecie di reato consistente «nell’invasione arbitraria di terreni o
edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore
a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può
derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute
pubblica» (art. 434 bis), per cui si prevede nei confronti degli organizzatori
e dei promotori dell’evento la reclusione da 3 a 6 anni (per chi si limita a
partecipare la pena è ridotta).
Ora,
è apparso subito evidente che la norma, oltre che ai rave, per cui era stata
invocata, potrebbe essere usata – come hanno notato, fra gli altri, la Rete
degli Studenti Medi e l’Unione degli Universitari e il co portavoce di Europa
Verde, Angelo Bonelli – per reprimere manifestazioni di protesta, per esempio
le occupazioni di scuole e università.
Anche
se la Corte Costituzionale, in una sentenza del 2000, ha escluso espressamente
che le occupazioni studentesche rientrino nella fattispecie prevista dall’art.
633 del Codice penale che riguarda «chiunque invade arbitrariamente terreni o
edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti
profitto», perché, si dice nella pronunzia della Corte, «l’edificio scolastico,
pur appartenendo allo Stato, non costituisce una realtà estranea agli studenti,
che non sono dei semplici frequentatori, ma soggetti attivi della comunità
scolastica e pertanto non si ritiene che sia configurato un loro limitato
diritto di accesso all’edificio scolastico nelle sole ore in cui è prevista l’attività
scolastica in senso stretto».
Del
resto, per la verità, anche il ministro Piantedosi ha espressamente escluso che
la nuova normativa possa applicarsi alle occupazioni studentesche. Quello che
però qui mi sembra significativo non è tanto la portata del decreto, che
effettivamente, per la sua indeterminatezza, si presta pericolosamente ad
un’applicazione arbitraria, ma la levata di scudi che l’ha stigmatizzato
proprio perché costituirebbe una minaccia per le occupazioni delle scuole da
parte degli studenti. Il problema non è giuridico – la sentenza della Corte può
valere anche per la nuova normativa – ma culturale. E riguarda il tipo di
scuola che vogliamo.
Le
occupazioni studentesche
Non
sono un esperto di rave, dunque di questo non parlerò, ma ho insegnato per
quarantuno anni nei licei statali, a partire dal 1968, e ho seguito
dall’interno l’involuzione delle occupazioni studentesche, a partire dagli anni
ruggenti della contestazione – nell’ultimo scorcio degli anni sessanta e nel
corso degli anni settanta – , lungo quelli del loro progressivo declino, alla
fine del secolo scorso e nel nuovo millennio, sull’onda del “riflusso”
post-sessantottino, fino al loro ridursi a uno rituale svuotato di reale
contenuto politico e ripetuto annualmente come pausa di vacanza
all’approssimarsi delle feste natalizie.
Alla
fine, nella maggior parte dei casi, ciò che è rimasto è l’interruzione delle
lezioni, sostituite da esperienze culturali “libere” – più consistenti nel caso
che l’autogestione fosse sostituita da una co-gestione con i docenti – , ma
comunque seguite da una minoranza di studenti, mentre la maggioranza si godeva
la pausa di riposo dallo studio. Segno della crisi profonda di una scuola che,
incapace di interessare veramente i ragazzi, concede loro una valvola di sfogo
in cui si parla di problemi “veri” solo a titolo di parentesi, per poi tornare
alla solita stanca routine di uno studio con scarsissimi agganci alla vita
reale.
Così,
le occupazioni sono diventate l’altra faccia di una prassi educativa in larga
misura incapace di dare alle nuove generazioni una autentica formazione
politica. Non è un caso che la stagione che ne ha visto la ritualizzazione
coincida con gli anni del crescente qualunquismo e del declino della reale
partecipazione che hanno caratterizzato la Seconda Repubblica, fino al 36% di
astensionismo delle ultime elezioni. Molti dei ragazzi cresciuti con le
occupazioni poi hanno votato per Berlusconi. Scelta che, almeno dal punto di
vista della “Sinistra”, dovrebbe suscitare qualche perplessità ….
Dove
è chiaro che il problema non è di difendere a tutti i costi le occupazioni,
come in questi giorni si sta facendo con passione, ma di arrivare a una riforma
che consenta al sistema scolastico di renderle finalmente superflue,
rispondendo – e in modo serio – alle esigenze da cui esse erano nate e che sono
rimaste da troppo tempo disattese. Una riforma che la Sinistra non ha mai
saputo fare e che purtroppo è molto dubbio che sia nelle intenzioni e nelle
capacità della Destra.
Il
problema del merito
Un
discorso analogo vale per il merito. Anche qui il dibattito non va alla radice
della questione. Nella nuova denominazione del ministero, voluta dalla Meloni,
alcuni, come il segretario della Cgil Landini, hanno visto «uno schiaffo in
faccia a chi parte da una situazione di diseguaglianza»; oppure, come Luigino
Bruni, hanno ritenuto di poter smascherare nel principio del merito «un
imbroglio o quantomeno un’illusione», perché «tutti i bambini e le bambine
vanno e devono andare a scuola, non solo i meritevoli. Tutti devono essere
messi nella condizione di poter fiorire e raggiungere la loro eccellenza, non
solo i più meritevoli» («Avvenire», 23 ottobre 2022).
Altri,
sicuramente non “di destra”, come Chiara Saraceno, hanno sostenuto invece che
«il riferimento al merito (non alla meritocrazia, che è un’altra cosa)
(…) ha un’indubbia forza democratica. Rappresenta il contrasto al nepotismo, ai
privilegi ereditati, alle rendite di posizione» («La Repubblica, 31 ottobre
2022).
Ma
anche in questo caso, il problema è più radicale. Se per “merito” si intende –
secondo il senso comune del termine – non una posizione di privilegio ma, al
contrario, una combinazione tra capacità e impegno di ognuno, esso non si può
certo considerare un criterio per escludere a priori alcuni, come teme Bruni
ma, al contrario, il solo antidoto possibile a una società dove purtroppo di
privilegi ce ne sono fin troppi.
La
scuola è il luogo dove il figlio dell’operaio o del portinaio può emergere su
quello del professionista o dell’industriale proprio grazie ai suoi meriti. Ben
venga dunque, in astratto, la denominazione data da questo governo al ministro
della Pubblica Istruzione. Solo che, per dare significato a questa
valorizzazione del merito, bisogna mettere in conto che i meritevoli possono
esprimere le loro capacità e il loro impegno solo se sono messi in condizione
di farlo, e la scuola da sola non può garantire questa premessa fondamentale.
Sono
le spaventose disuguaglianze sociali ed economiche che in molti casi bloccano
il merito delle persone o comunque lo oscurano, non il merito in quanto tale, a
dover essere combattute. E questa battaglia, che non è stata fatta dalla
Sinistra (cinque milioni e mezzo di persone, dopo i suoi governi, sono in
condizione di povertà estrema), non sembra neppure in linea di principio
prevista da una Destra che nei suoi programmi prevede l’eliminazione della
progressività delle imposte, la pace fiscale e in generale una linea favorevole
ai grandi redditi e ai grandi patrimoni. A questo punto l’appello al merito
diventa una parola vuota, se non addirittura una beffa.
Nell’attesa
di un pensiero alternativo
Alla
fine, la vittima di questo gioco di illusioni ottiche è la scuola. O, meglio,
sono i ragazzi che da essa dovrebbero essere aiutati a sviluppare in pienezza
la loro umanità e che, a causa dei limiti che abbiamo evidenziato, non ricevono
gli stimoli culturali adeguati a renderli pienamente se stessi, come vorrebbe
l’etimologia di “educare”, da e-ducere, “condurre fuori”, metafora del far
nascere.
Le
attuali polemiche a difesa delle occupazioni studentesche e contro la menzione
del merito sono un triste alibi che mantiene una situazione sbagliata, i cui
effetti si riverberano su tutta la società. Ma non è certo con eventuali
operazioni di polizia, o sbandierando un merito reso molto problematico dalle
attuali disuguaglianze sociali, che questa situazione cambierà. Qui ci vogliono
una lucidità e una creatività che finora sembrano latitanti nel gioco degli
slogan delle forze politiche.
Che
sia venuto il momento di puntare su quelle che Maritain chiamava «minoranze
profetiche da shock», capaci di un pensiero veramente alternativo? Sta a noi, a
ciascuno di noi, dare una risposta.
*Responsabile
del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo. Scrittore
ed Editorialista.
www.tuttavia.eu