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sabato 9 agosto 2025

IL MITO FRAGILE DEL MERITO

 

Disuguaglianze

 ed 

eclissi del Welfare

 

 

-di VITTORIO PELLIGRA

 C’è un racconto che amiamo sentirci ripetere. Un racconto che accarezza il nostro orgoglio e ci solleva dal peso della sorte. È il mito del merito: l’idea che il successo sia il riflesso limpido del talento e della fatica, la giusta ricompensa per chi ha saputo impegnarsi, l’esito naturale di un gioco equo dove le regole valgono per tutti allo stesso modo. Questo racconto è radicato a fondo nelle società occidentali, ma con differenze significative. Negli Stati Uniti, per esempio, il mito fiorisce come un vero e proprio dogma laico: chi ha, ha meritato; chi non ha, non ha fatto abbastanza. Nell’Europa nordica, invece, il merito convive con un senso più ampio di giustizia: anche chi è caduto merita cura, e chi ha corso più veloce, spesso, lo può fare perché c’è qualcun altro che gli ha spianato la strada.

La questione centrale è che l’adesione al mito non ha una valenza puramente individuale. Come hanno mostrato Alberto Alesina e George-Marios Angeletos, in un celebre studio, infatti, la fede più o meno convinta nella meritocrazia modella le scelte politiche: quanto più crediamo che il mercato premi il merito, tanto meno siamo disposti a tassare chi ha di più per sostenere chi ha di meno.

Le nostre credenze non fotografano il mondo in maniera obiettiva: lo costruiscono e lo plasmano. Se penso che il sistema sia giusto, accetterò le sue disuguaglianze. Se le accetto, non vorrò cambiarlo. Così, il mito del merito diventa una profezia che si autoavvera – e lo Stato sociale, lentamente, svanisce.

Come è stato possibile smontare così facilmente il Reddito di cittadinanza, o bloccare un’iniziativa legislativa sul salario minimo, ignorare il fatto che i lavoratori poveri sono raddoppiati negli ultimi dieci anni e far uscire del tutto il tema delle povertà dal dibattito politico? Eppure, anche i miti, a volte, si incrinano. Quando la disuguaglianza cresce troppo, e i più ricchi sembrano vivere in un altro mondo, il racconto vacilla. Uno studio recente di Sánchez Rodríguez e colleghi (2023) ha mostrato che l’aumento eccessivo delle diseguaglianze può ridurre la fede nella meritocrazia. Quando il divario si fa troppo ampio e diventa impossibile giustificarlo con l’impegno e il talento, le persone aprono gli occhi e iniziano a dubitare. Che il merito sia un’illusione ben confezionata?

Gli esseri umani non sono né perfettamente egualitari né fanatici del merito. Cercano un equilibrio.

Desiderano che le opportunità siano distribuite con equità, ma accettano che i risultati differiscano – a patto che le regole del gioco siano chiare e il campo non sia truccato. È un equilibrio sottile, fragile. Basta un’ombra – la corruzione, il nepotismo, il razzismo sistemico – e tutto si incrina.

Il messaggio che ci consegnano questi studi e questi autori è semplice ma profondo: le credenze meritocratiche non sono neutrali. Non sono solo una lente attraverso cui guardiamo il mondo: sono il telaio su cui costruiamo le nostre politiche, i nostri giudizi morali, il nostro consenso allo Stato. Ma sono anche vulnerabili. E quando si spezzano, ci lasciano nudi di fronte alla diseguaglianza, senza più le parole per giustificarla, né la forza per combatterla.

Con i divari che crescono e il Welfare che arretra, la sfida oggi non è solo redistribuire risorse. È riformare il nostro immaginario. Ricostruire una narrazione della giustizia che tenga insieme la valorizzazione del talento e il riconoscimento dei limiti, il premio all’impegno e la cura per chi è rimasto indietro. Perché nessuno prospera da solo e nessuno si salva da solo. Una società giusta non è quella in cui ognuno riceve in base a ciò che ha dato, ma quella in cui ognuno può dare ciò che ha, senza che la sorte o il privilegio decidano in partenza chi può contribuire e chi no.

 www.avvenire.it

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domenica 23 marzo 2025

INDICAZIONI e VALUTAZIONE


Il documento sulle Nuove Indicazioni Nazionali contiene anche un paragrafo sulla valutazione.



Ne parliamo con Cristiano Corsini, docente di pedagogia sperimentale all’Università di Roma 3.


Professore, io partirei da una definizione che le Indicazioni nazionali danno della valutazione: “In quanto atto pedagogico culturale regolativo che pone al centro la valorizzazione dello studente la valutazione non si esaurisce nel rilevare e misurare ciò che l’alunno sa o sa fare, ma diviene strumento che mira a far emergere progressi criticità e potenzialità inespresse”. Come commenta questa definizione?

Sul fatto che la valutazione abbia un carattere culturale, pedagogico e regolativo possiamo essere concordi, però definire la valutazione un atto è rischioso, perché in realtà la valutazione è un processo.

E c’è anche un altro limite: il titolo del paragrafo parla della valutazione come atto di valorizzazione. Quest’ultimo termine rischia di enfatizzare la funzione premiale, punitiva, sommativa.

C’è anche un altro punto: parlare di funzione regolativa va bene, ma forse bisogna anche mettersi d’accordo su cosa si deve regolare. Secondo i migliori orientamenti della pedagogia la valutazione dovrebbe servire a regolare non soltanto i processi di apprendimento, ma soprattutto quelli di insegnamento. Mi sembra che su questo aspetto il documento sia carente. Cosa ne pensa?

Sono d’accordo: è molto carente. Sebbene la valutazione formativa venga richiamata anche in altre parti delle Indicazioni, parlarne in questo modo serve a poco.
Negli anni Sessanta e Settanta i grandi esperti che per primi hanno usato questa espressione come Michael Scriven o Benedetto Vertecchi affermavano che la valutazione è formativa se è finalizzata a dare forma all’insegnamento.

L’insegnante, cioè, usa la valutazione per regolare la propria didattica, perché la bontà della didattica non può essere data per scontata. Ma di tutto questo nel documento della Commissione Perla non c’è traccia ed è un peccato, perché a mio avviso le Indicazioni dovrebbero riguardare questo processo, che peraltro è ribadito come fondamentale da una parte importante della nostra normativa (pensiamo al decreto legislativo 62 del 2017).
E poi c’è anche un’esigenza di carattere scientifico che riguarda la pedagogia sperimentale, che da decenni si occupa di valutazione scolastica. Tra i suoi padri c’è Aldo Visalberghi, che diceva che chiunque creda nella bontà assoluta dei metodi che usa e dei fini che si pone e non è pronto a modificare gli uni e gli altri sulla base dell’esperienza non è un buon insegnante.
Insomma, se si vuole che la valutazione abbia esiti formativi per gli studenti deve avere una funzione analoga anche per i docenti: ed è proprio su questo che mi sembra che il documento sia un po’ carente.

A proposito di Aldo Visalberghi di cui lei è un attento studioso dobbiamo ricordare che a giugno 2025 ricorrono esattamente 70 anni dalla pubblicazione del suo libro Misurazione e valutazione. Le faccio una domanda che è poco più che un gioco: cosa direbbe oggi Visalberghi se dovesse leggere questo capitolo sulla valutazione?

Ovviamente è molto difficile rispondere, forse avrebbe dei rilievi sostanziali da fare. Probabilmente apprezzerebbe alcune parti perché, per esempio, il paragrafo contiene anche un bel passaggio sulle competenze. Forse non sarebbe d’accordo sulla funzione assegnata alla valutazione; la funzione regolativa, infatti, viene genericamente attestata, ma se poi siamo prescrittivi sugli obiettivi e persino sui contenuti è evidente che il tutto si fa incoerente. Se si propongono indicazioni che sono di fatto prescrittive su obiettivi e addirittura su contenuti non si può poi pretendere che l’insegnante usi in maniera autentica la valutazione come elemento formativo e non come strumento burocratico classificatorio e selettivo. C’è una contraddizione legata a quanto espresso nel paragrafo sulla valutazione; c’è insomma un contrasto insanabile fra il paragrafo sulla valutazione e il resto del documento. Da questo punto di vista il testo è inemendabile, perché le contraddizioni sono strutturali.

Veniamo ad un altro aspetto importante. Nel capitolo sulla valutazione si accenna anche alla autovalutazione dell’alunno, ma mi sembra che anche in questo caso manchi qualche cosa. Cosa ne pensa?

Se nel paragrafo cerchiamo l’autovalutazione, prendiamo atto che il riferimento si riduce a una nota. Poi per alcune discipline suggeriscono delle attività autovalutazione, ma questo vuol dire che l’autovalutazione non è attestata come processo imprescindibile, generalizzato e sistematico. Eppure, ormai da decenni le ricerche empiriche evidenziano che senza autovalutazione l’apprendimento ha minori possibilità di riuscita.
Cosa più importante, la marginalizzazione della autovalutazione contraddice anche la normativa: per esempio nello Statuto delle studentesse e degli studenti del ’98, esteso anche alla secondaria di primo grado, afferma che la valutazione deve servire ad attivare un processo di autovalutazione che consenta allo studente di individuare punti di forza e di debolezza e di migliorare. E anche per il 62/2017 l’autovalutazione è fondamentale.

Volendo formulare un primo giudizio lei cosa si sente di dire?

Mettendo insieme quello che c’è scritto nel paragrafo sulla valutazione con tutto quello che fa da contorno mi pare che emerga un modello di valutazione che contiene alcuni principi generali condivisibili ma che di fatto appare centrato sulla “valorizzazione dello studente” senza curarsi troppo di dare forma all’attività didattica. È lo stesso modello di valutazione che ha portato al questionario sulle Indicazioni inviato alle scuole e che impedisce a dirigenti e docenti di esprimere critiche nei confronti del lavoro svolto dalla commissione.
Un modello del genere non fa altro che confermare una valutazione con funzione prevalentemente di controllo e di selezione. In definitiva si rischia di legittimare la riproduzione delle differenze di partenza che sono poi quelle che impediscono di rimuovere gli ostacoli per il pieno sviluppo della persona umana.

Diciamo che c’è il rischio che queste Indicazioni che possano legittimare una scuola come fabbrica dei voti? E uso questa espressione non a caso perché si tratta esattamente del titolo del suo libro di prossima uscita.

La scuola come fabbrica dei voti è purtroppo una realtà estremamente diffusa; l’idea di usare la valutazione per classificare o per scegliere i più bravi ed espellere i meno bravi è ancora radicata, e la lettura di queste Indicazioni sembra confermare questa direzione.

 Tecnica della Scuola

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domenica 28 aprile 2024

LE RAGIONI DEL MERITO

 

QUALE MERITO?


Operando una profonda destrutturazione dei paradigmi che solitamente accompagnano l'opzione meritocratica, il saggio assume in chiave critica la lettura prevalentemente negativa del merito. Risolto come presupposto di vantaggio o potere individuale, se non di legittimazione delle disuguaglianze. In un orizzonte eticamente compromesso connotato di arroganza, discriminazione, selezione.

E dove i rapporti sociali, per lo più determinati in partenza, si esauriscono inesorabilmente in un gioco a somma zero. Con vincitori e perdenti.

Tali approcci, a parere dell'autore, sono ampiamente riconducibili, per la ricerca sociologica e non solo, alle conseguenze nefaste della società contemporanea. Dove a prevalere sono ideologie e culture che premiano individualismo e competizione, disuguaglianza ed esclusione. E a dettare legge restano soltanto i risultati, e con essi la ricchezza e il potere.

In tale contesto il merito è - non può non essere - valore assoluto. Indiscutibile. Da accogliere o rifiutare. Senza via di mezzo.

L'obiettivo della ricerca, al contrario, è quello di problematizzare il tema del merito, relativizzarne il valore e il significato. Porlo all'interno di una molteplicità di fattori che concorrono a diventare leva di emancipazione e di responsabilità individuale e collettiva. Fattori di cambiamento e di sviluppo.

Il tentativo è quello di sciogliere il dilemma che da qualche tempo coinvolge il mondo politico, economico e sociale. E che può tradursi nell'interrogativo: il merito è l'esito sufficientemente scontato di una società ingiusta, oppure è il prodotto e il riconoscimento di un'azione pur incerta e faticosa di emancipazione e di riscatto di individui e gruppi per costruire una società un po' più giusta e solidale?

L'intento è quello di riconoscere e apprezzare il valore di ogni scelta compiuta nell'ottica del contributo offerto al raggiungimento del bene comune.

La ricerca tematizza in particolare, i concetti di uguaglianza e di libertà attraverso un'ottica pluralista. Che privilegia approcci e dimensioni del merito secondo le categorie del riconoscimento, dell'identità e della dignità, dei bisogni e dei diritti.

Inoltre, ben oltre i confini dell'uguaglianza, il lavoro si pone il problema della distribuzione delle opportunità nei termini più comprensivi dell'equità. Ciò senza trascurare il rapporto con la giustizia, l'inclusione sociale e la differenza.

Aderendo alla proposta di ridefinizione del merito nei termini meno equivoci di meritevolezza e/o meritorietà, l'autore sviluppa un'ipotesi di intervento che chiama in causa il ruolo attivo di ogni soggetto nel realizzare se stesso e i propri valori, e l'attuazione di politiche atte a creare le condizioni migliori di uguaglianza democratica centrata sulla garanzia di agire i diritti di cittadinanza. All'interno di una società giusta, luogo di cooperazione tra persone libere e uguali, aventi pari dignità.

A cominciare dall'istruzione. Dove, partendo dal superamento del dilemma selezione-socializzazione, l'autore giudica insufficiente la soluzione dell'uguaglianza delle opportunità a favore dell'uguaglianza delle capacità. In grado di convertire opportunità e risorse in effettive libertà di scelta.

Il ruolo della scuola risiede piuttosto nello scoprire e sviluppare i talenti. Non nell'esaltazione dei soli risultati ma nella considerazione del percorso e dell'impegno nell’affrontare le difficoltà. E dove comunque, prima di riconoscerlo e premiarlo, il merito va alimentato per farlo fiorire.

L'obiettivo, allora, non è solo garantire 'i capaci e meritevoli', ma garantire le condizioni per diventare 'capaci e meritevoli'. Per sviluppare le proprie capacità. Al di là di standard predefiniti.

Riscoprire il senso e il valore della formazione scolastica, come strumento di uguaglianza sociale, e come volàno di una democrazia intesa come sforzo continuo di vivere secondo saggezza, solidarietà e ricerca del bene individuale e collettivo.

 

Le ragioni del merito: appunti per un dibattito

di Enzo Bertellini | aprile 2024

ISBN-13        979-8882700934

venerdì 6 ottobre 2023

UNA SCUOLA PER UNA SOCIETA' FELICE

Al di là del merito, si deve investire 

nella scuola per una società felice

Se c’è una variabile che risulta significativa ed importante in ogni tipo di ricerca per il benessere di un Paese quella è l’istruzione. E non parliamo dei corsi di eccellenza frequentati dagli allievi migliori, ma del livello di istruzione medio.

I nostri risultati dipendono da quattro fattori (sorte, nascita o condizioni di partenza, talento, impegno) e solo l’ultimo di questi può essere “attribuito” all’individuo

 

-         - di LEONARDO BECCHETTI

 l dibattito sul merito e la meritocrazia imperversa, alimentato anche dalla decisione di inserire il merito nel ministero dell’Istruzione da parte del nuovo governo. E continua anche su queste pagine, con gli ultimi interventi di Luigino Bruni (https://tinyurl.com/2p8zpjw6) e Andrea Lavazza (https://tinyurl.com/yrkrx2ey), a commento del recente e interessante libro La rivoluzione del merito di Luca Ricolfi (Rizzoli).

Un dato di partenza su cui tutti concordano è che, ritornando ad una nota tassonomia proposta da un economista liberale come Buchanan, i nostri risultati dipendono da quattro fattori (sorte, nascita o condizioni di partenza, talento, impegno) e solo l’ultimo di questi può essere “meritato”. Nessun dubbio infatti (anche se non infrequentemente possiamo confondere talento e merito) che Maradona o Pelè non hanno fatto nulla per meritare il talento calcistico con cui sono nati. Luigino Bruni argomenta, non senza ragioni, che anche il rendimento dell’impegno risente dell’influenza degli altri fattori (un conto è studiare in un ambiente che crea le condizioni più favorevoli per farlo, conto in un monolocale abitato da una famiglia numerosa). S e ci pensiamo la cultura dello sport paralimpico è molto attenta a creare categorie omogenee di atleti per condizioni di partenza per ogni singolo tipo di gara. In analogia con le disabilità fisiche anche le disabilità sociali molto spesso fanno sì che l’idea di partecipare tutti alla medesima gara sia un’illusione.

 Anche se dobbiamo sforzarci assolutamente di credere nella forza del libero arbitrio le storie eccellenti di realizzazioni che partono da umili origini sono statisticamente eccezioni più che la norma. I l rischio maggiore per la cultura meritocratica, quando essa si trasforma in un meccanismo che consente l’accesso ai livelli più alti d’istruzione solo ai cosiddetti “meritevoli”, è quello di generare effetti perversi indesiderati. Mi spiego. Se c’è una variabile che, in ogni tipo di ricerca, risulta significativa ed importante per il benessere di un Paese, quella è l’istruzione. E non parliamo dei corsi di eccellenza frequentati dai talenti migliori, ma del livello d’istruzione medio di un Paese che ha dietro il titolo conseguito da ciascun suo abitante. Bassi livelli d’istruzione medi in un Paese significano oggi meno crescita economica, meno anni di vita, reddito più basso (per via dei rendimenti economici della scolarizzazione), minore capitale sociale e senso civico.

 In studi ancora più recenti emerge in quasi tutti i Paesi europei una classe di “arrabbiati” che si sentono a torto o a ragione vittime della globalizzazione e alimentano complottismi, negazionismi e reazioni identitarie indebolendo la fiducia nelle istituzioni. Caratteristica comune di questa classe è il basso livello d’istruzione che aumenta il rischio di cadere in semplificazioni consolatorie che identificano nella causa dei propri mali una classe di potenti o di scienziati che trama contro il popolo. Per tutti questi motivi il primo obiettivo che le stesse élite dovrebbero perseguire per favorire lo sviluppo economico, sociale e civile di un paese riducendo al minimo conflitti e tensioni sociali non è certo quello di limitare l’accesso agli studi ma è quello dell’istruzione obbligatoria per tutti, almeno fino al termine della scuola superiore. Investendo in modo significativo per contrastare l’abbandono scolastico, una piaga che alimenta il fenomeno dei Neet (giovani che non lavorano né studiano) che assume proporzioni drammatiche nel sud del nostro paese. Purtroppo, l’investimento in istruzione che è forse la cosa più importante e un potente strumento di correzione delle diseguaglianze ex ante e di promozione delle pari opportunità non rende elettoralmente perché i suoi risultati sono differiti nel tempo. Più facile mettere qualche decina o centinaia di euro in busta paga una tantum degli elettori. Cosa che puntualmente accade in ogni legge finanziaria di destra o di sinistra.

 I sostenitori della meritocrazia hanno una freccia importante al loro arco. Dobbiamo incentivare e premiare chi genera risultati positivi per il paese. Qui parliamo di merito che va oltre il periodo scolastico. E per risultati positivi dobbiamo intenderci. Conquistare fette maggiori di torte a somma zero è indice di aggressività più che di merito, migliora la condizione di chi riesce a farlo ma non accresce il benessere di un paese. Ciò che andrebbe premiata è la generatività, ovvero la capacità della propria azione di generare impatti sociali positivi (attività che gli ultimi studi sulla felicità rivelano essere in parte già premio a sé stessa) proprio favorendo accesso ed inclusione ad esempio. L’economia civile da sempre investe anche in comunicazione per far emergere buone pratiche, premiarle, mettere in rete i generativi in modo che possano aumentare il loro impatto. Se proprio dobbiamo parlare di merito allora ci piace avere a riferimento la logica e la teoria dell’Uomo ragno: a grandi poteri corrispondono grandi responsabilità.

 

www.avvenire.it

 

venerdì 5 maggio 2023

MERITO o FRATERNITA'

In classe esisti
 per davvero 

se vieni pensato


- di Vito Melia

«Scuola significa socializzazione, ascensore sociale, consapevolezza di sé, dignità. Ai giovani dobbiamo garantire il merito che è possibile per ciascuno»; tuttavia «oggi non è il merito che crea le possibilità, ma il punto di partenza». Così il cardinale Matteo Zuppi sulla missione della scuola, “tempio” e tempo del futuro: luogo dove si vive il tempo opportuno del kairos in cui redimere i giovani; e tempo fugace del kronos in cui fabbricare l’avvenire. Coniugare “merito” con “scuola” è socialmente deleterio: “merito” deriva dal latino mereo (acquistare, guadagnare) e dal greco mero (aliquota, stima), parole che afferiscono al cinico mondo dei mercati azionari, monetari, finanziari. Enfatizzare il “merito” significa accrescere individualismo e diseguaglianze non riconoscendo alla scuola il valore affrancante per povertà educative e sociali. Nel 2017 incontrando a Genova il mondo del lavoro, papa Francesco disse: « È un disvalore la tanto osannata “meritocrazia” […]. 

Affascina molto perché usa una parola bella: il “merito” […]. Sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza. Il nuovo capitalismo tramite la meritocrazia dà una veste morale alla diseguaglianza, perché interpreta i talenti delle persone non come un dono […]: (ma) un merito, determinando un sistema di vantaggi e svantaggi cumulativi». A scuola invece si cresce in simbiosi curando le ferite dei vulnerabili: Carla, Chiara, Ginevra, Gloria, Ivan, Miriam, Samuele, Sophia – valenti alunni italiani – aiutano Taha, fragile allievo di origine magrebina, a studiare e imparare, vivere e convivere nella classe, “ospedale da campo” dove i più forti hanno il dovere di sostenere i più deboli (cfr. Rm 15,1). 

Vocazione della scuola è rendere liberi corpi, menti, cuori; educare “conducendo fuori”, accendendoli, i talenti; istruire “costruendo”, modellandole, le menti; formare “plasmando”, accarezzandoli, i cuori; valorizzare il capitale umano e spirituale di tutti; promuovere ritmi di vita non algoritmi, volti non voti, immaginazione non prestazioni, sogni non nozioni, poesia non burocrazia, inclusione non selezione, cooperazione non competizione; destare nei ragazzi – abitati e animati da curiosità – «l’inquietudine delle domande», il desiderio di conoscere e pensare, di interrogarsi e stupirsi. 

Transizione educativa è dunque convertire il “ mereo ergo sum” (merito dunque sono) in “ cogitor ergo sum” (mi si pensa quindi sono). Perché insegnare è «dare una mano, spronare a proseguire, riempire di perplessità […], essere la rete di sicurezza che accoglie » ( J.K.Stefansson), ascoltare voci e storie, leggere sguardi e vite, accompagnare gli studenti in “social catena” vivendo l’arte e la «mistica dell’incontro» già in aula (dal greco aulòs, flauto) dove “vibrano”, polifoniche e sinfoniche, le note della “melodia” dell’esistenza, i suoni dell’“orchestra” della pace, le voci del “concerto” della vita in un coro con «un cuore solo e un’anima sola» (At 4,32).

 Incontro e prisma di volti, poliedro e sintonia di vite sono la vera scholé, tempo che libera e rende liberi docenti e studenti di donare e donarsi come costruttori e attori del futuro. È il “ministero” e il “magistero” dei docenti, è il sentirsi pensati degli e dagli studenti, che rendono la Scuola “convivialità di differenze”, “laboratorio di speranza”, tempio di fraternità, palestra di Pace, maestra di vita davvero “meritevole” di lode.

www.avvenire.it

 


venerdì 13 gennaio 2023

SCUOLA. QUALE MERITO?

Il dibattito suscitato dal “merito” dopo che la parola è stata aggiunta a “ministero dell’Istruzione”, sembra aver diviso elitisti e progressisti. -

- di Tiziana Pedrizzi

- Il dibattito suscitato dall’aggiunta della parola “merito” alla denominazione del ministero dell’Istruzione ha suscitato un vespaio tutto in chiave nazionale, come se il problema fosse che la destra è elitista, il che significa reazionaria e la sinistra è egualitarista cioè inclusiva, politically correct insomma.

Ma la famosa gita a Chiasso di arbasiniana memoria – forse irrimediabilmente datata – ci permetterebbe di capire che il problema è meno scontato, anche rimanendo nel solo ambito scolastico.

Partiamo dai primi Pisa. Nelle prime edizioni (2000-2003-2006) il primato dei paesi nordici – Finlandia, ma non solo, anche Norvegia e Svezia se la cavavano bene – era abbastanza chiaro.

La chiave di lettura del successo in tema di istruzione dei diversi Paesi, nel pensiero Ocse è sempre stata molto orizzontale, sincronica insomma, con un ruolo di primo piano attribuito al funzionamento del sistema educativo. Le variabili storico-antropologiche sono sempre state molto trascurate, anche comprensibilmente, perché ovviamente poco passibili di interventi di policy. Perciò gli analisti attribuivano un merito rilevante, se non principale, al fatto che in quei Paesi il percorso scolastico comune a tutti era molto lungo, fino a ricomprendere quello che noi chiamiamo biennio (15-16 anni). Questo spiega, negli stessi anni, la battaglia nel nostro Paese sul biennio unico o unitario, della quale si sentono ancora gli echi in qualche intervento di esperti più o meno edotti sull’evoluzione dei fatti. L’analisi postulava che una canalizzazione precoce aveva l’effetto di tagliare fuori da una scolarizzazione di base del livello necessario per le nostre società una parte rilevante di popolazione scolastica, con il risultato di abbassare il livello complessivo.

Alla fine del secondo decennio di Pisa la situazione è cambiata. In cima alle graduatorie ci sono le tigri asiatiche: Singapore, Corea del Sud, i pezzi di Cina che partecipano ed anche Giappone. Le strutture scolastiche di questi Paesi sono molto diversificate, ma le accumuna un forte investimento in istruzione, il che non significa – come si pensa qui da noi – investimenti economici spropositati, ma forte concentrazione sull’impegno scolastico. Tanto da arrivare anche a situazioni parossistiche che in Italia vengono additate con grande disdoro: le madri tigre, le scuole mattutine e pomeridiane della Corea del Sud, gli stressanti esami cinesi di mandariniana memoria, per non parlare dei poveri studenti giapponesi sempre, secondo gli opinion maker italiani della scuola, sull’orlo del suicidio. Una notazione a margine in proposito: viene sempre più in evidenza nelle ricerche il forte ruolo che ha avuto in questi paesi la scolarizzazione femminile di massa, che avrebbe dato una spinta decisiva in questo campo. Una situazione agli antipodi di quella dei Paesi islamici che infatti pagano le loro scelte in termini di sottosviluppo.

Da qui l’attenzione crescente che, anche nei questionari di accompagnamento Pisa, viene data al clima disciplinare, per come è vissuto dagli allievi. È inutile dire che esiste un chiaro rapporto fra quanto sopra velocemente tratteggiato e lo sviluppo di quei Paesi, che non è certo solo caratterizzato – come qui da qualche parte presuntuosamente ancora ci si illude – da produzioni di massa di bassa qualità ed a basso costo.

Cosa c’entra tutto ciò con il merito? I risultati scolastici positivi vengono da due componenti: la predisposizione e l’impegno. Quanto, in percentuale, il successo formativo dipenda rispettivamente dai due fattori è discussione lunga e dolorosa e non risulta sia stata ancora risolta. Il contesto scolastico comunque ha il compito di individuare la prima e di incentivare il secondo.

Da questo punto di vista come sta il ricco Occidente? Due osservazioni molto parziali. Fino alla metà del secolo scorso vi vigeva uno stile disciplinare piuttosto rigido, che aveva il merito di garantire una standardizzazione utile alla riproduzione dei ruoli sociali, tenendo conto che chi vi aveva accesso tendeva a stare alle regole perché ne avrebbe ricavato il vantaggio dell’ottenimento o del mantenimento di una posizione sociale superiore a quella di chi non voleva o non poteva farlo. Lo sviluppo della scolarizzazione di massa – assolutamente necessario per il tipo di società che si andava delineando – ha diminuito i privilegi di chi studia e perciò allentato l’adesione volontaria ai vincoli. Donde i problemi di disciplina, di impegno, eccetera eccetera.

Inoltre, lo sviluppo delle tecnologie che oggi tanto caratterizzano le nostre società a livello di massa in senso positivo è narrato come fosse avvenuto non in modo abbastanza sistematico ed organico come nel caso dell’Ottocento, ma anche, se non soprattutto, per iniziative di personalità considerate geniali, maturate fuori, se non contro, il contesto normativo per tutti. In un certo senso questo è sempre avvenuto nella storia umana, ma l’impressione é che gli Steve Jobs, gli Elon Musk ed i Jeff Bezos abbiano avuto ed abbiano un peso più forte nella creazione dell’immaginario collettivo degli Edison e degli Einstein. Ecco, dunque, la parola d’ordine per tutti: individualismo e creatività.

Così le teorie pedagogiche di carattere attivistico nate all’inizio del Novecento da un’élite intellettuale europea ed attecchite negli Usa con la finalità del nation building sono uscite dalla minorità. Ma non sono entrate nella scuola di tutti in modo sistematico e serio come meritavano, piuttosto sembrano aleggiare come uno Zeitgeist generale lassista, in piena convivenza con metodologie o, meglio, mere pratiche tradizionali che non riescono però naturalmente a mantenere la tradizionale efficacia.

C’è poi un’altra più banale ragione, molto chiara nel nostro Paese. Tutte le società umane, quando raggiungono un certo livello di agio, tendono a rilassarsi. Con risultati che la storia ci ha insegnato e che ancora ci sta insegnando, come dimostra per converso ciò che sta avvenendo in Estremo Oriente. Stiamo consumando il grasso accumulato nei secoli precedenti?

Lavorare con impegno, anche con sacrifici e duramente ha rischiato in certe letture che si sono viste sul tema del merito di apparire una iattura, un atteggiamento antisociale, un’egoista ricerca di privilegio, una cosa da estrema destra reazionaria.

Così però non si va molto lontano.

 Il Sussidiario

 

 

venerdì 2 dicembre 2022

A CACCIA DEL MERITO

I VALUTATORI

 del

MERITO


- di Antonino Petrolino

 Coesistono due nozioni di merito nella scuola italiana: una più oggettiva, l’alta centrata sul risarcimento morale e il riconoscimento sociale.

Ha fatto molto discutere – anche con argomentazioni a volte sopra le righe – la decisione del nuovo governo di mutare l’intitolazione del ministero dell’Istruzione, aggiungendovi la menzione “e del Merito”. Discussioni quasi certamente oziose e destinate a rapido oblio: ma la questione non è nuova.

Sorprende, sotto questo profilo, che sia stato proprio il ministro Valditara a intestarsela, lui che era uno dei più stretti collaboratori del ministro Gelmini al tempo, non troppo lontano, in cui questa lanciava insieme a Roger Abravanel il suo “Piano nazionale per la qualità e il merito”. Dovrebbe sapere per esperienza diretta che fine fece quell’impegnativo progetto.

Come pure, in virtù della sua formazione umanistica di indubbio livello, dovrebbe sapere che le innovazioni di natura valoriale e a forte valenza simbolica non si annunciano, ma si mettono in pratica silenziosamente. Se ci si riesce, naturalmente. In caso contrario, si corrono due rischi: uno derivante dall’opposizione di principio di chi non accetta quei valori e l’altro derivante dal probabile insuccesso dell’iniziativa. E tuttavia la questione, in una scuola come la nostra, è tutt’altro che irrilevante.

Basti pensare alle elaborazioni dell’Invalsi, poco più di un anno fa, da cui emergeva come le valutazioni “interne” del merito nelle scuole fossero diametralmente opposte rispetto a quelle “esterne” dell’istituto. Interi territori in cui le competenze di lettura e di calcolo degli studenti si collocavano per oltre il 60% al di sotto del livello minimo accettabile, ma che riportavano, negli esami di Stato (di Stato!) valutazioni nettamente superiori alle medie nazionali. Evidentemente, gli strumenti di misura sono tarati nei due casi su obiettivi divergenti: il che significa che l’idea di “merito” sottostante alle due valutazioni è radicalmente diversa.

Ora il vero problema, per un ministro dell’Istruzione – tanto più se sceglie di intitolarsi anche come garante del merito – sta proprio qui: può un sistema di istruzione che si vuole tuttora nazionale permettersi il lusso di una divaricazione così radicale fra le valutazioni compiute dal suo maggiore istituto di riferimento scientifico nella materia e quelle operate dai suoi insegnanti? Su quale dei due termini si dovrà intervenire per richiudere, o almeno ridurre, il divario attuale?

Si dovrebbe, per carità di patria, escludere che a sbagliare clamorosamente sia l’Invalsi: vi lavorano alcuni fra i migliori specialisti del settore e, del resto, i modelli cui ispira la sua azione sono largamente condivisi e praticati a livello internazionale. Su un mercato del lavoro che si fa sempre più globale, non è irrilevante che la valutazione – e, implicitamente, la promozione del merito – avvenga sulla base di criteri transnazionali. E dunque, salvo errori di dettaglio sempre possibili, le valutazioni del sistema nazionale sono da ritenersi attendibili.

Se ne dovrebbe inferire che a sbagliare siano gli insegnanti, o almeno quelli fra loro i cui giudizi più si discostano dalle rilevazioni scientifiche nazionali. Non è una tesi che si possa sostenere a cuor leggero: eppure è vero – e ben lo sanno tutti coloro che hanno esperienza di scuola vissuta – che, quando un insegnante “valuta” i propri studenti, il merito accademico è solo uno dei parametri presi in considerazione. Spesso (troppo spesso?) quel giudizio incorpora una misura importante di valutazione della persona. Non che questo sia sbagliato in sé: dipende però, ancora una volta, da quali sono i parametri utilizzati.

Volendo semplificare, senza eccedere, i più frequenti sono due: una misura di “risarcimento” per le difficoltà personali dello studente che hanno potuto incidere sul suo rendimento scolastico (fattori familiari, socioeconomici, eventi negativi eccetera); e un giudizio di adeguatezza sociale, cioè quanto la personalità dello studente nel suo insieme sia vicina a un modello di desiderabilità sociale percepita. Detto in termini più diretti: quanto quello studente sembri potersi adattare positivamente alle richieste della comunità nella quale si prepara a inserirsi. Non solo per quello che “sa”, ma per quello che “è”.

Questa affermazione può suonare discutibile o apparire fondata su assunti non verificabili, e certamente è così a livello dei singoli casi. Ma, ancora una volta, le politiche scolastiche si fanno sui grandi numeri. E i grandi numeri ci mostrano, con una costanza che merita considerazione, che, nei territori in cui il capitale sociale – misurato con i criteri sociologici correnti – è elevato, gli insegnanti tendono a essere più esigenti, in quanto percepiscono che i loro studenti dovranno mostrarsi all’altezza di un contesto più sfidante. Il contrario avviene là dove il capitale sociale è di livello mediocre o insoddisfacente. Ci sarà una ragione se il Trentino è in cima alle classifiche: e mi sia concesso di evitare di indicare esempi di segno opposto, che peraltro sono noti a tutti.

Che questo accada non è sostanzialmente materia di dubbio: perché accada, può esserlo. Se, cioè, insegnanti di territori ad alto capitale sociale siano essi stessi partecipi di aspettative elevate e quindi tendano a essere esigenti nel giudizio; ovvero semplicemente perché operino una comparazione implicita fra quello che vedono essere il livello delle aspettative sociali e quello che percepiscono essere il livello di preparazione degli studenti.

Se questa diagnosi fosse vera, anche solo in parte, essa metterebbe ancor più radicalmente in discussione la scelta compiuta dal ministro, non perché la ricerca del merito non sia necessaria nella nostra scuola, ma perché essa dipenderebbe soprattutto da fattori sociali e non organizzativi, e quindi fuori della sua diretta portata; in sostanza, dalla possibilità di agire su leve in grado di migliorare – molto lentamente, come è ovvio – il capitale sociale di ampie parti del nostro territorio. Il che non è solo una questione di reddito pro capite, ma include, fra altri, anche quell’aspetto.

 Nel frattempo, una politica scolastica che voglia promuovere il merito deve puntare con maggiore decisione e costanza di quanto non sia accaduto fino ad oggi sul rafforzamento del Sistema nazionale di valutazione: se non altro, per fornire all’opinione pubblica e agli addetti ai lavori la misura e l’evidenza di quel che sarebbe desiderabile.

Rafforzare il Snv, a sua volta, comporta altre scelte politiche: ardue, ma non impossibili e neppure oltremodo costose. Per esempio, la messa a regime della valutazione esterna delle scuole, fino ad oggi solo sfiorate da quell’intervento. Servirebbero, secondo calcoli attendibili (condotti, ad esempio, da TreeLLLe), non più di 300-400 ispettori, da dedicare in buona parte a questo scopo.

Che non vi siano, su 800mila docenti, 400 potenziali valutatori di buon livello non è verosimile e non è possibile. Basterebbe mettersi con decisione e coerenza su questa strada e, nel giro di cinque anni potremmo aver dato al nostro sistema un impulso ben altrimenti efficace verso la promozione del merito che non una semplice scelta onomastica.

Il Sussidiario

sabato 5 novembre 2022

SCUOLA, OCCUPAZIONI E MERITO


 - di Giuseppe Savagnone *

 Il decreto anti-rave 

e le occupazioni studentesche

C’è un aspetto che collega le aspre polemiche di questi giorni nei confronti del decreto “anti-rave” del governo Meloni a quelle esplose per la menzione del merito nella denominazione del ministero della Pubblica Istruzione.

 Col nuovo provvedimento infatti si introduce nel Codice penale una nuova fattispecie di reato consistente «nell’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica» (art. 434 bis), per cui si prevede nei confronti degli organizzatori e dei promotori dell’evento la reclusione da 3 a 6 anni (per chi si limita a partecipare la pena è ridotta).

 Ora, è apparso subito evidente che la norma, oltre che ai rave, per cui era stata invocata, potrebbe essere usata – come hanno notato, fra gli altri, la Rete degli Studenti Medi e l’Unione degli Universitari e il co portavoce di Europa Verde, Angelo Bonelli – per reprimere manifestazioni di protesta, per esempio le occupazioni di scuole e università.

 Anche se la Corte Costituzionale, in una sentenza del 2000, ha escluso espressamente che le occupazioni studentesche rientrino nella fattispecie prevista dall’art. 633 del Codice penale che riguarda «chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto», perché, si dice nella pronunzia della Corte, «l’edificio scolastico, pur appartenendo allo Stato, non costituisce una realtà estranea agli studenti, che non sono dei semplici frequentatori, ma soggetti attivi della comunità scolastica e pertanto non si ritiene che sia configurato un loro limitato diritto di accesso all’edificio scolastico nelle sole ore in cui è prevista l’attività scolastica in senso stretto».

 Del resto, per la verità, anche il ministro Piantedosi ha espressamente escluso che la nuova normativa possa applicarsi alle occupazioni studentesche. Quello che però qui mi sembra significativo non è tanto la portata del decreto, che effettivamente, per la sua indeterminatezza, si presta pericolosamente ad un’applicazione arbitraria, ma la levata di scudi che l’ha stigmatizzato proprio perché costituirebbe una minaccia per le occupazioni delle scuole da parte degli studenti. Il problema non è giuridico – la sentenza della Corte può valere anche per la nuova normativa – ma culturale. E riguarda il tipo di scuola che vogliamo.

 Le occupazioni studentesche

Non sono un esperto di rave, dunque di questo non parlerò, ma ho insegnato per quarantuno anni nei licei statali, a partire dal 1968, e ho seguito dall’interno l’involuzione delle occupazioni studentesche, a partire dagli anni ruggenti della contestazione – nell’ultimo scorcio degli anni sessanta e nel corso degli anni settanta – , lungo quelli del loro progressivo declino, alla fine del secolo scorso e nel nuovo millennio, sull’onda del “riflusso” post-sessantottino, fino al loro ridursi a uno rituale svuotato di reale contenuto politico e ripetuto annualmente come pausa di vacanza all’approssimarsi delle feste natalizie.

 Alla fine, nella maggior parte dei casi, ciò che è rimasto è l’interruzione delle lezioni, sostituite da esperienze culturali “libere” – più consistenti nel caso che l’autogestione fosse sostituita da una co-gestione con i docenti – , ma comunque seguite da una minoranza di studenti, mentre la maggioranza si godeva la pausa di riposo dallo studio. Segno della crisi profonda di una scuola che, incapace di interessare veramente i ragazzi, concede loro una valvola di sfogo in cui si parla di problemi “veri” solo a titolo di parentesi, per poi tornare alla solita stanca routine di uno studio con scarsissimi agganci alla vita reale.

 Così, le occupazioni sono diventate l’altra faccia di una prassi educativa in larga misura incapace di dare alle nuove generazioni una autentica formazione politica. Non è un caso che la stagione che ne ha visto la ritualizzazione coincida con gli anni del crescente qualunquismo e del declino della reale partecipazione che hanno caratterizzato la Seconda Repubblica, fino al 36% di astensionismo delle ultime elezioni. Molti dei ragazzi cresciuti con le occupazioni poi hanno votato per Berlusconi. Scelta che, almeno dal punto di vista della “Sinistra”, dovrebbe suscitare qualche perplessità ….

 Dove è chiaro che il problema non è di difendere a tutti i costi le occupazioni, come in questi giorni si sta facendo con passione, ma di arrivare a una riforma che consenta al sistema scolastico di renderle finalmente superflue, rispondendo – e in modo serio – alle esigenze da cui esse erano nate e che sono rimaste da troppo tempo disattese. Una riforma che la Sinistra non ha mai saputo fare e che purtroppo è molto dubbio che sia nelle intenzioni e nelle capacità della Destra.

 Il problema del merito

Un discorso analogo vale per il merito. Anche qui il dibattito non va alla radice della questione. Nella nuova denominazione del ministero, voluta dalla Meloni, alcuni, come il segretario della Cgil Landini, hanno visto «uno schiaffo in faccia a chi parte da una situazione di diseguaglianza»; oppure, come Luigino Bruni, hanno ritenuto di poter smascherare nel principio del merito «un imbroglio o quantomeno un’illusione», perché «tutti i bambini e le bambine vanno e devono andare a scuola, non solo i meritevoli. Tutti devono essere messi nella condizione di poter fiorire e raggiungere la loro eccellenza, non solo i più meritevoli» («Avvenire», 23 ottobre 2022).

 Altri, sicuramente non “di destra”, come Chiara Saraceno, hanno sostenuto invece che «il riferimento al  merito  (non alla meritocrazia, che è un’altra cosa) (…) ha un’indubbia forza democratica. Rappresenta il contrasto al nepotismo, ai privilegi ereditati, alle rendite di posizione» («La Repubblica, 31 ottobre 2022).

Ma anche in questo caso, il problema è più radicale. Se per “merito” si intende – secondo il senso comune del termine – non una posizione di privilegio ma, al contrario, una combinazione tra capacità e impegno di ognuno, esso non si può certo considerare un criterio per escludere a priori alcuni, come teme Bruni ma, al contrario, il solo antidoto possibile a una società dove purtroppo di privilegi ce ne sono fin troppi.

 La scuola è il luogo dove il figlio dell’operaio o del portinaio può emergere su quello del professionista o dell’industriale proprio grazie ai suoi meriti. Ben venga dunque, in astratto, la denominazione data da questo governo al ministro della Pubblica Istruzione. Solo che, per dare significato a questa valorizzazione del merito, bisogna mettere in conto che i meritevoli possono esprimere le loro capacità e il loro impegno solo se sono messi in condizione di farlo, e la scuola da sola non può garantire questa premessa fondamentale.

 Sono le spaventose disuguaglianze sociali ed economiche che in molti casi bloccano il merito delle persone o comunque lo oscurano, non il merito in quanto tale, a dover essere combattute. E questa battaglia, che non è stata fatta dalla Sinistra (cinque milioni e mezzo di persone, dopo i suoi governi, sono in condizione di povertà estrema), non sembra neppure in linea di principio prevista da una Destra che nei suoi programmi prevede l’eliminazione della progressività delle imposte, la pace fiscale e in generale una linea favorevole ai grandi redditi e ai grandi patrimoni. A questo punto l’appello al merito diventa una parola vuota, se non addirittura una beffa.

 Nell’attesa di un pensiero alternativo

Alla fine, la vittima di questo gioco di illusioni ottiche è la scuola. O, meglio, sono i ragazzi che da essa dovrebbero essere aiutati a sviluppare in pienezza la loro umanità e che, a causa dei limiti che abbiamo evidenziato, non ricevono gli stimoli culturali adeguati a renderli pienamente se stessi, come vorrebbe l’etimologia di “educare”, da e-ducere, “condurre fuori”, metafora del far nascere.

 Le attuali polemiche a difesa delle occupazioni studentesche e contro la menzione del merito sono un triste alibi che mantiene una situazione sbagliata, i cui effetti si riverberano su tutta la società. Ma non è certo con eventuali operazioni di polizia, o sbandierando un merito reso molto problematico dalle attuali disuguaglianze sociali, che questa situazione cambierà. Qui ci vogliono una lucidità e una creatività che finora sembrano latitanti nel gioco degli slogan delle forze politiche.

 Che sia venuto il momento di puntare su quelle che Maritain chiamava «minoranze profetiche da shock», capaci di un pensiero veramente alternativo? Sta a noi, a ciascuno di noi, dare una risposta.

*Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo. Scrittore ed Editorialista.

www.tuttavia.eu


giovedì 3 novembre 2022

IL MERITO DELLA MERITOCRAZIA


 MERITO?

 RAGIONIAMONE AL PLURALE E NON DIVENTI IL PERNO DELLA SCUOLA

 

- di PAOLO SANTORI

 «L’idea di meritocrazia ha molti meriti, ma la chiarezza non è tra questi». Così scriveva il premio Nobel per l’economia e filosofo Amartya Sen, citato per altre ragioni dal(la) presidente del consiglio Giorgia Meloni nella sua risposta al dibattito parlamentare di martedì 25 ottobre, in un articolo del 2000 intitolato Merit and Justice.

Senza pregiudiziali proviamo a capire se la frase di Sen può essere riferita anche alla scelta fatta dal governo Meloni di trasformare il “Ministero dell’Istruzione” in “Ministero dell’Istruzione e del Merito”. Partiamo dai seguenti scenari.

Scenario 1: lunedì c’è la verifica di Italiano. Caty passa il fine settimana a studiare e il lunedì seguente ottiene un ottimo voto (9). Marco passa il fine settimana a studiare, ma si concede anche pause per uscire con gli amici. La verifica non va male, ma il voto (7) non è alto come quello di Caty. Scenario 2: lunedì c’è la verifica di Italiano. Caty passa il fine settimana a studiare e il lunedì seguente ottiene un ottimo voto (9). Marco passa il fine settimana a studiare, ma, sollecitato dall’amica Camilla, le offre il suo aiuto nello studio. Marco è anche membro di un’associazione giovanile che fa volontariato domenicale in una mensa dei poveri. La verifica di Marco non va male, ma il voto (7) non è alto come quello di Caty.

Forse sbaglio, ma nel pensiero di chi ha rinominato il Ministero dell’Istruzione aggiungendo “merito” è lo scenario 1 quello da considerare come paradigma. Caty si è impegnata più di Marco, il successo nella verifica se lo è guadagnata con i suoi sforzi e quindi “merita” di essere premiata per questo. Eppure ci sembra ingiusto che gli sforzi di Marco nello scenario 2 (aiutare i suoi amici e fare volontariato) non siano riconosciuti come meritevoli e quindi premiati. In fondo la meritocrazia è un ideale di giustizia sociale, ci dice come le cose dovrebbero andare, e nello scenario 2 sembra piuttosto “ingiusto” premiare Caty e non Marco.

Amartya Sen ha ragione. La meritocrazia, e l’idea di merito con essa, sono concetti piuttosto vaghi. È interessante quanto lo stesso Sen aggiunge nel prosieguo della frase: « La mancanza di chiarezza può essere riferita al fatto [...] che il concetto di merito è profondamente condizionato dalle nostre opinioni su cosa sia una buona società». Nel caso della scuola, quindi, occorrerebbe partire da una discussione su cosa costituisce una «buona scuola», qual è il telos (scopo ultimo) dell’istruzione. Da lì poi capiremo quali sono gli “sforzi” e le “caratteristiche” che vogliamo premiare, in altre parole ciò che costituisce la “base” del merito. Farà piacere a chi rivendica l’interesse nazionale, il made in Italy, e la sovranità come princìpi cardine del proprio governo sapere che l’idea di Sen non è originale, proprio in Italia più di 200 anni fa era stata teorizzata dal filosofo Melchiorre Gioia nel suo libro Dei Meriti e delle Ricompense.

 Gioia scriveva: « Le idee che nella mente degli uomini corrispondono alla parola merito, sono, come tutti sanno, infinitamente diverse: esse cambiano d’oggetto, di grado, di scopo, di misura, non solo tra popoli e popoli, ma anco tra classi e classi nella stessa città».

Partendo da Sen e da Gioia propongo tre spunti di riflessione per analizzare la storia di Caty e Marco. In primo luogo, quella storia ci dice che parlare di merito al singolare e non al plurale è deleterio. Se è vero che nello scenario 2 il merito di Marco non cancella quello di Caty, è altrettanto plausibile che entrambi meritino di essere premiati. Uno degli scopi della scuola dovrebbe essere quello di valorizzare le diversità e i meriti individuali (e collettivi). Se non si capisce questo, si tratta la scuola come un’altra delle tante opere di ingegneria sociale dove le persone vengono “prodotte” in serie per non si sa quale scopo. Sta qui la differenza tra un insegnante e un educatore. L’educatore è capace di vedere ed eventualmente premiare i diversi meriti di Marco e Caty, l’insegnante guarda solo al risultato finale. Anticipo l’obiezione di chi dirà che questa visione implica l’assenza di qualsiasi tipo di metro comune, giudizio, compito, verifica: non avete notato che nel mio esempio sia Caty che Marco superano con buoni voti la verifica di Italiano? Qui non si contesta il 7 o il 9, si contesta che il 9 sia sempre più meritorio e come tale vada premiato, cioè gli vada riconosciuto un valore morale. A chi non vuole proprio rinunciare al merito, quindi, propongo almeno di parlarne al plurale come già ci suggeriva Melchiorre Gioia.

Il secondo argomento parte dall’assunto che un altro scopo della scuola è quello di trasformare le persone in cittadini. Il merito è importante in questo processo, ma non nel senso che sembrerebbe emergere dal nuovo nome del Ministero. Ciò che rende davvero un cittadino tale non sono i buoni voti a scuola o il voto dato alle elezioni. È l’uso pubblico e libero della nostra ragione per discutere degli affari della nostra società a renderci cittadini. Ciò che occorrerebbe insegnare a Caty e Marco è che una scuola (e società) fondata sul merito non può prescindere da un pubblico dibattito su ciò che costituisce la base del merito stesso. Se ne deve parlare a scuola come in Parlamento. Quando i padri costituenti hanno inserito l’articolo 34 della Costituzione Italiana, dove si parla di «capaci e meritevoli », non lo hanno pensato come lettera morta, un testo a cui fare riferimento in maniera dogmatica. 

La Costituzione è un testo che vive nella lettura, discussione, interpretazione e internalizzazione di chi la legge e la applica. È questo che fa della nostra Costituzione uno dei testi più belli del mondo. La discussione, si dice, è il sale della democrazia: ebbene perché far eccezione su un tema così importante? Da ultimo è bene ricordare ai sostenitori della meritocrazia che merito e successo non sono sinonimi. Se lo si dimentica, allora la meritocrazia diventa inevitabilmente una legittimazione etica della disuguaglianza. Nei Miserabili Victor Hugo lo diceva meglio di quanto ho appena fatto io: «Sia detto alla sfuggita, il successo è una cosa piuttosto lurida; la sua falsa somiglianza col merito inganna gli uomini ». Al successo individuale concorrono tanti fattori non “meritori”: la fortuna, l’aiuto di altre persone, le condizioni di partenza, i talenti (ciò le caratteristiche con cui siamo nati). La consapevolezza che i successi sono frutto di fattori plurali non esclude il merito, ma lo contestualizza e arricchisce. Ci salva anche da pericolose trappole sociali, una su tutte quella di equiparare fallimento e demerito (quanto danno ha fatto, anche in termini di vite umane, questa convinzione sbagliata?). Dovremmo chiederci, allora, se siamo davvero in grado di vedere tutti i fattori che contribuiscono a un risultato, cioè se siamo in grado di capire la differenza tra gli scenari 1 e 2 nella storia di Caty e Marco. Allo stesso modo, dovremmo capire che la meritocrazia – meglio: la valorizzazione dei meriti – è una tra le tante logiche che dovrebbero governare la scuola e la società. Probabilmente non è la prima, né la più importante, sicuramente non è ciò su dovrebbero reggersi la scuola e la società di domani.

 *Filosofo dell’Economia Università di Tilburg (Olanda) Le citazioni di Amartya Sen sono tradotte dall’autore dell’articolo

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 Immagine: Giovannini