-di Luigi Sanlorenzo
L’analfabetismo funzionale rappresenta un grave fenomeno che vede l’Italia in Europa subito prima della Turchia in coda alla classifica e che si porrà nel momento della vera ripartenza, da tutti attesa. Si tratta di un fenomeno che coinvolge soprattutto gli scolarizzati che si sono fermati al diploma di scuola superiore negli anni 80 e 90 e che non hanno in alcun modo proseguito, in modo formale o informale, la propria formazione; l’allarme era già stato lanciato anni fa, senza esito. Una persona completamente analfabeta non è in grado di leggere o scrivere, chi lo è funzionalmente ha una conoscenza di base (può leggere e scrivere, esprimersi con un grado variabile di correttezza grammaticale e di stile, e svolgere semplici calcoli aritmetici) e riesce a comprendere il significato delle singole parole ma non riesce a raggiungere un livello adeguato di comprensione e di analisi ed a ricollegare contenuti nel quadro di un discorso complesso. Un analfabeta funzionale si distingue per l’incapacità di comprendere adeguatamente testi o materiali informativi pensati per essere acquisiti da una persona comune: articoli di giornale, contratti legalmente vincolanti, regolamenti, bollette, corrispondenza bancaria, orari di mezzi pubblici, cartine stradali, dizionari, enciclopedie, foglietti illustrativi di farmaci, istruzioni di apparecchiature. Manifesta la scarsa abilità nell’eseguire anche semplici calcoli matematici, ad esempio la contabilità personale o il tasso di sconto su un bene in vendita, ha scarse competenze nell’utilizzo degli strumenti informatici quali sistemi operativi, uso della rete, software di videoscrittura, fogli di calcolo.
Risulta carente, nella conoscenza dei fenomeni scientifici, politici, storici, sociali ed economici; è legata prevalentemente alle esperienze personali o a quelle delle persone vicine e tende a generalizzare a partire da singoli episodi non rappresentativi; fa largo uso di stereotipi e pregiudizi. Ha scarso senso critico, tendenza a credere ciecamente alle informazioni ricevute, incapacità di distinguere notizie false dalle vere e di distinguere fonti attendibili e inattendibili.
Su dati del 2018 Istat ha rilevato come soltanto il 40,6% degli italiani legga almeno un testo all’anno ed una famiglia su dieci non ha libri in casa. La lettura risulta molto più diffusa nelle regioni del Nord: ha letto almeno un libro il 49,4 per cento delle persone residenti nel Nord-ovest e il 48,4 per cento di quelle del Nord-est. Al Sud la quota di lettori scende al 26,7 per cento mentre nelle Isole si conferma una realtà molto differenziata tra Sicilia (24,9 per cento) e Sardegna (44,7 per cento). Il 31 per cento delle famiglie possiede non più di 25 libri e il 64 per cento ha una libreria con al massimo 100 titoli. C’è da chiedersi dove siano finiti gli oltre settantacinquemila libri pubblicati nel medesimo anno più le decine di migliaia edite sino ad oggi oltre, ovviamente, che nelle librerie affollate che ormai fanno da sfondo ai volti di molti opinionisti intervistati a distanza. In qualche caso, tuttavia, dove le immagini lo hanno consentito, in qualcuna di essa abbiamo intravisto anche raccolte enciclopediche di non illustrissimo livello e molti libri d’arte, probabili strenne natalizie inviate da banche o istituzioni, mai sfogliati.
Si pone urgentemente la necessità di rifondare il processo di
orientamento lungo tutto l’arco della vita che fa riferimento ad un continuum
di scelte formative e lavorative e di transizioni psicosociali
(formazione/formazione, formazione/lavoro, lavoro/lavoro), che assumono
caratteristiche peculiari nelle diverse fasi della storia personale, ma che
sono legate da una ricerca di coerenza e continuità nel tempo (continuità
personale, sociale, professionale) come hanno rilevato Baubion-Broye e Le
Blanc, 2001e Kleiman, Gati, Peterson, Sampson, Reardon, e Lenz, nel 2004.
È possibile quindi parlare di un processo di attribuzione di senso ad un
percorso di esperienze, le quali negli scenari socio-economici contemporanei
rischiano di risultare sempre più segmentate. Secondo Savickas (1997)
l’attribuzione di significato all’esperienza lavorativa viene modulato dal
livello di adattabilità della persona al contesto, ovvero dalla “capacità di
cambiare, senza grandi difficoltà, per rispondere alle nuove circostanze”. La
pressante richiesta di saper diagnosticare, capire, individuare soluzioni,
prendere decisioni, agire sulle situazioni anche impreviste, implica
aggiornamento e sviluppo di conoscenze, abilità di livello superiore, nonché
richiede caratteristiche personali diverse rispetto al passato: in altre
parole, richiede motivazione al lifelong learning.
Superata la concezione sociologica di carriera esemplificabile
con la definizione di Wilensky (1961) per il quale il termine carriera indicava
la “successione di posizioni ordinate secondo una precisa gerarchia di
prestigio, attraverso la quale una persona si muove in una sequenza ordinata”,
oggi in un’ottica psicosociale la carriera viene definita come un percorso
individuale, segnato da eventi e scelte che caratterizzano l’interazione tra
persona e contesto lavorativo, ai quali la persona attribuisce un ordine e un
significato. L’esperienza lavorativa acquista un senso all’interno dello
sviluppo globale della persona, e dell’articolazione tra i differenti ruoli
sociali che la persona riveste, i quali acquisiscono un’importanza relativa
dovuta a preferenze individuali, strutture sociali e opportunità del contesto.
Le nuove forme di “contratto di carriera”, comunemente
definite come atipiche e indicate nella letteratura psicologica con i
termini protean career (Hall e Mirvis, 1995) e boundaryless
career (Arthur e Rousseau, 1996) incoraggiano la gestione autonoma
della propria carriera (career selfmanagement) e dello sviluppo
delle proprie competenze oltre le opportunità fornite da una sola
organizzazione (Ashford, 2001), ma perché la persona sia in grado di cogliere
tali opportunità, è necessario che essa possegga le risorse adeguate per
gestire possibili cambiamenti di ruolo e di responsabilità, anche qualora si
presentino in maniera imprevedibile, e per costruire o riorganizzare il proprio
progetto professionale. Ne sanno qualcosa molti dei nostri giovani siciliani
che hanno trovato all’estero tali logiche fondate sul risultato dell’intreccio
virtuoso tra capacità, meriti e obiettivi raggiunti, uniti dall’
espressione full achievement.
L’orientamento è dunque un processo autonomo e “continuo
caratterizzato da molteplici compiti di sviluppo che richiedono al soggetto di
dominare cognitivamente e muoversi autonomamente rispetto a svariate situazioni
critiche connesse allo sviluppo del proprio processo di socializzazione al
lavoro” come rilevato da Pombeni e D’Angelo già nel 1994.
In alcuni momenti cruciali dello sviluppo vocazionale risulta però indispensabile l’intervento di azioni professionali. In generale è possibile identificare due macro-obiettivi di tali azioni. Il primo obiettivo consiste nell’educazione all’auto-orientamento, ovvero si prefigge lo sviluppo di una metodologia e della capacità di gestione autonoma dei diversi momenti di snodo del processo orientativo; il secondo, riguarda il supporto ai processi decisionali e alla definizione dei progetti professionali. Il primo obiettivo si pone come elemento centrale dell’approccio al lifelong guidance, secondo cui occorre muoversi in un’ottica preventiva di accompagnamento allo sviluppo di carriera e alla socializzazione negli ambienti scolastici e lavorativi. Con il termine guidance ci si riferisce contemporaneamente in senso generale alle pratiche di orientamento e in senso specifico a quelle azioni che si caratterizzano come educazione all’auto-orientamento e accompagnamento alla socializzazione scolastico/professionale. La guidance intende dunque sostenere la maturazione di un atteggiamento attivo e responsabile rispetto al fronteggiamento dei diversi compiti, intervenendo per potenziare sia la preparazione generale della persona (atteggiamenti, metodi, competenze trasversali, informazioni, etc.) sia l’insieme di competenze specifiche finalizzate ad auto-monitorare in itinere le esperienze formative e lavorative e a progettarne l’evoluzione. In questo senso, le azioni di guidance si muovono nell’ottica di accompagnamento del processo di orientamento lungo tutto l’arco di vita e superano la divisione classica tra orientamento scolastico e professionale, per proporsi come lifelong guidance. Ciò significa che le specifiche azioni devono rispondere a due bisogni differenziati rispettivamente del mondo scolastico-formativo e del mondo del lavoro, alla prevenzione della dispersione scolastica e al sostegno delll’occupabilità. All’interno dell’istituzione scolastica, le azioni di guidance si configurano come sostegno alla funzione di educazione all’auto-orientamento che la scuola già svolge implicitamente attraverso le discipline ma episodicamente in modo formalizzato. Infatti, gli obiettivi formativi connessi alla crescita e allo sviluppo globale della persona comprendono, anche se talvolta in maniera generica, la maturazione del processo di auto-orientamento. Tuttavia ciò oggi non è più sufficiente.
La seconda funzione di tipo orientativo del sistema scolastico-formativo
è esplicita, ovvero si esprime attraverso azioni che intenzionalmente
influenzano lo svolgersi dell’esperienza orientativa dello studente; in questo
senso, tali interventi assumono le caratteristiche di un’azione dedicata cioè
mirata a produrre effetti immediati sul processo individuale. Queste azioni
possono essere specificamente rivolte a migliorare la qualità dell’esperienza
scolastica in corso, oppure possono configurarsi come azioni di sostegno ad
esperienze di transizione formativa, connesse alle scelte naturali di fine
ciclo (scuola media, scuola superiore) o a situazioni di ri-orientamento di
decisioni non andate a buon fine (interruzione di percorsi e cambio di
indirizzo di studio). Tali interventi organici di accompagnamento al monitoraggio
del processo di orientamento risultano particolarmente efficaci nell’ottica di
prevenzione della dispersione scolastica.
Per quanto riguarda invece il mondo del lavoro, l’approccio al lifelong guidance appare di fondamentale importanza per mantenere alto il livello di occupabilità delle persone, ovvero della loro spendibilità sul mercato del lavoro. Gli studi psicologici tendono infatti a confermare che l’occupabilità non possa essere garantita solamente dall’aggiornamento delle competenze professionali, seppure esso si distingua come elemento chiave di garanzia, occorre altro e di più. Dal punto di vista politico, l’occupabilità nei documenti comunitari si sostanzia di fatto in un richiamo a migliorare la capacità di inserimento professionale delle persone nel mercato del lavoro, da un lato facendo riferimento a obiettivi quantitativi a cui tendere nel breve e medio periodo, dall’altro impegnando gli stati membri a garantire a tutti i disoccupati – prima dei sei mesi se giovani e prima dei dodici se adulti – un’opportunità sotto forma di formazione, riqualificazione, esperienza professionale, impiego o di qualunque altra misura atta a favorire l’inserimento, combinata, se del caso, con un’assistenza permanente nella ricerca di un posto di lavoro. Dal punto di vista psicologico, l’occupabilità è un attributo della persona che riguarda, come detto, non solo il possesso di competenze professionali aggiornate, ma anche la sfera motivazionale e la capacità di adattamento alle domande del contesto (Fugate, Kinicky, e Ashforth, 2004).
Partendo da questa definizione è possibile comprendere l’importanza della lifelong guidance, come azione professionale di sostegno alla motivazione e alla capacità di rispondere al contesto che la realtà attuale del mercato in cui è richiesta una elevata flessibilità personale. Agendo in sinergia, quindi, lifelong guidance e lifelong learning risultano un’efficace risposta alle richieste di professionalità di un futuro sempre più vicino. Naturalmente essa rappresenta anche una sfida per gli addetti ai lavori, che si trovano ad operare tuttora in un sistema di orientamento non sempre coordinato, dove risulta di pressante attualità la richiesta di fissare standard di qualità e promuovere politiche di facilitazione dell’accesso ai servizi da parte di tutti i cittadini.
Chi scrive ebbe a confrontarsi con tali temi nel corso dei seminari europei frequentati a Oslo nel 2001 ed a Stoccarda nel 2005 – unico italiano parlante inglese, lingua ufficiale del team di lavoro, in entrambi i casi – seguiti da massimo 30 docenti e formatori provenienti da ogni altra parte del Continente, anche da paesi allora non ancora membri dell’Unione Europea che, nel frattempo, hanno fatto tesoro di quelle esperienza com’è rilevabile nei sistemi della Norvegia e dei Paesi Baltici oltre a quelli già collaudati da anni in Germania e nel Regno Unito. In quegli anni di inizio millennio in Italia si avvicendarono a raffica governi con ministri dell’Istruzione titolari ciascuno della propria provvisoria riforma mai sperimentata poi nel tempo adeguato per vederne i risultati e oggi di tutto ciò vediamo le tragiche conseguenze su più generazioni.
In conclusione, chi si aspetta che dopo la pandemia il Paese
possa risollevarsi con redditi più o meno di cittadinanza o con una pioggia di
“ristori” di cui presto l’Unione Europea chiederà conto in sede di erogazione
delle prime tranche del Recovery Plan che in Italia prende il nome di Piano di
rinascita e di resilienza, potrebbe avere brutte sorprese. E’ questa infatti
una delle tante declinazioni del “debito buono” al posto di quello clientelare
e improduttivo di cui Mario Draghi è il massimo garante e che sta anche alle
organizzazioni datoriali e sindacali comprendere al più presto. Non occorre
sforzarsi molto ad inventare “modi italiani di approccio” poiché il
contrasto all’analfabetismo funzionale si trova nell’Agenda 2030, obiettivo quattro, delle
Nazioni Unite, purchè ovviamente si sappia leggerne “la lettera e lo
spirito”. Se la pandemia è stata ed è paragonabile allo scorso conflitto
mondiale e pertanto come dopo la fine di quella guerra troverà macerie sociali
ed economiche, occorrerà non dimenticare, mutatis mutandis, la
grande lezione della ricostruzione di città, di infrastrutture e di coscienze
che allora il Paese apprese. A poco più di sessant’anni dalle prime lezioni
televisive tenute nella trasmissione “Non è mai troppo tardi” il maestro
Alberto Manzi ne sarebbe contento.
(L’autore è stato docente di Psicologia della Formazione nel corso di laurea magistrale di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni presso l’Università degli studi di Palermo)
Nessun commento:
Posta un commento