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di ALESSANDRO ZACCURI
- L’Antartide, per esempio. «Di solito se ne parla per motivi
ambientali – osserva il politologo John Keane –, trascurando il fatto che
questo territorio è governato da un sistema molto prossimo alla democrazia
monitorante». La monitory democracy è uno degli elementi
portanti della riflessione di Keane, che divide la sua attività tra
l’Università di Sydney (in Australia, ad Adelaide, è nato nel 1949) e il Centro
di ricerca per le Scienze sociali di Berlino. Pensatore molto influente nel
contesto anglosassone, come dimostra il dibattito suscitato dal suo recente
saggio sul “nuovo dispotismo”, finora lo studioso australiano non era mai stato
pubblicato in Italia. Adesso però è proprio un suo libro, il corposo Potere
e umiltà (traduzione di Piernicola D’Ortona, prefazione di Anna
Loretoni, pagine 492, euro 45,00), a inaugurare la collana “La stanza del
mondo”, ideata e diretta da Paola Caridi per l’editore torinese Hopefulmonster.
L’argomento centrale è esattamente il concetto di “democrazia monitorante”. «Di
norma i cittadini si servono di tradizioni consolidate e di consuetudini
sociali per semplificare e tenere a bada le grandi complessità della vita –
spiega Keane —. Oggi come oggi, però, populisti come Bolsonaro in Brasile,
Duterte nelle Filippine, Vucic in Serbia, Babis nella Repubblica Ceca e altri
ancora nel mondo fanno qualcosa di diverso: sfruttano la complessità per far
levitare l’inquietudine sociale».
In questo trovano terreno fertile, non trova?
Sì, mi rendo conto di come il fuoco del populismo si alimenti
della disaffezione derivante dalle attuali ingiustizie e, nel contempo,
prometta di illuminare un futuro migliore. In un nome di un “popolo” fittizio,
però, il populismo va politicamente all’attacco di quelli che vengono di volta
in volta definiti diversi, dissidenti o addirittura nemici. Peggio ancora, le
persone sono incoraggiate a schivare l’estrema complessità del mondo
contemporaneo.
Ed è a questo punto che interviene la democrazia monitorante?
La vedo come la cura più adatta per contrastare gli effetti
tossici del populismo, perché permette di consolidare il rispetto della
complessità da parte dei cittadini attraverso la libera circolazione di punti
di vista differenti, la denuncia delle ipocrisie, la messa in discussione dei
politici corrotti e con processi di analisi serrata che permettono di tenere
sotto osservazione le attività dello Stato e delle industrie.
In che cosa consiste?
Con l’espressione monitory democracy ci
riferiamo a una forma storicamente innovativa di democrazia, che poggia sulla
rapida diffusione di molte nuove istituzioni di controllo: cani da guardia, se
così vogliamo chiamarli, che all’occorrenza non smettono di abbaiare. Le prime
forme di cogestione lavorativa si incontrano nella Germania degli anni
Quaranta, i comitati per le generazioni future vengono inizialmente istituiti
in Galles, le cosiddette “sentinelle dei ponti” sono una specialità
sudcoreana, il Sudafrica ha garantito notorietà internazionale alle commissioni
per la verità e la riconciliazione, i bilanci partecipativi sono un’invenzione
brasiliana. Queste realtà di monitoraggio possono attecchire ovunque,
nell’ambito del governo locale o nazionale così come nella società civile e nei
contesti di frontiera.
Mettendo in crisi i tradizionali processi di
rappresentazione?
Favorendone l’evoluzione, semmai. Le elezioni, il
sistema dei partiti politici e gli stessi parlamenti esercitano
oggi una presa sempre più debole sulle esistenze dei
cittadini e sulla difesa dei loro interessi. In passato il principio
fondamentale era quello di “una persona, un voto, un rappresentante”, oggi
l’istanza etica che presiede alla democrazia monitorante è quella di “una
persona, molti interessi, molte voci, voti molteplici, molteplici
rappresentanti”.
Quali sono le caratteristiche essenziali di questo processo?
Non dobbiamo dimenticare che la democrazia monitorante non è
mai un progetto concluso. Tuttavia, laddove il modello funziona ragionevolmente
bene, troviamo sempre leader politici non corrotti, cittadini animati da forte
senso civico, numerose piattaforme mediatiche e numerosi organismi di controllo
pronti a contrastare ogni abuso di potere. Non meno importante è tornare alla
situazione degli anni Quaranta del secolo scorso. Allora circolava
un’energia oscura, scatenata dal tremendo massacro della guerra, dalle
dittature, dai totalitarismi. In quella fase l’universo di senso della
democrazia subì un’espansione straordinaria. Fu proprio in questo decennio che
si cominciò a immaginare e a costruire un altro modello, che scacciasse i
demoni di un potere arbitrario.
La sovranità rappresenta un nodo molto delicato… Siamo abituati a concepire la sovranità in termini di
demarcazione territoriale, in particolare mediante il riferimento agli Stati,
ma a dispetto di quanto vogliano sostenere i nazionalisti e gli antiglobalisti
di oggi, il problema che è ormai ogni democrazia agisce in condizioni di post-sovranità. Il
contagio da Covid-19 è l’ennesima conferma di quanto le reti mondiali di
interdipendenza non consentano più alle singole democrazie territoriali di
rimanere splendidamente isolate rispetto al resto del pianeta. È con questo
spirito che mi interrogo sulla possibilità che la democrazia possa esistere
anche al di fuori di una cornice territoriale.
È il caso dell’Antartide?
Di solito ci si appassiona allo scioglimento dei ghiacci del
Polo Sud e alle conseguenze sul cambiamento climatico, ma non si sa nulla di
come sia governata questa vasta distesa di freddo. Benché qualcosa di simile
sia già avvenuto in Europa, questo è il primo continente che si sia formalmente affrancato
dalla condizione di Stato territoriale sovrano. L’Antartide post-sovrana è un
genere inedito di conglomerato governativo, regolato dal Trattato Antartico, da
un parlamento in via di costituzione, dal rispetto di leggi proclamate da
istituzioni che condividono il proprio potere sulla base di valutazioni
trasparenti e dell’esercizio del diritto di voto.
In che modo la pandemia potrebbe influire?
Uno degli esiti più singolari e inattesi della grande pestilenza sta nel fatto che il Paese colpito per primo può ora godere dei vantaggi tecnologici, di governo e di soft power derivanti dal fatto di essere stato anche il primo a liberarsi del virus. Per questo alcuni osservatori sono tentati dal trarre la conclusione che il “modello cinese” sia il migliore per affrontare eventuali pestilenze future, ma io non sono di questo parere. Una manciata di governi democratici (Uruguay, Corea del Sud, Taiwan, Nuova Zelanda e la stessa Australia) ha dimostrato l’esistenza di alternative efficaci. L’elemento davvero interessante è che i processi di diagnosi precoce e di allerta digitale messi in atto da questi governi hanno ribadito quanto sia cruciale la trasparenza. All’opposto, lo stile di governo alla Boris Johnson, con le sue decisioni alla cieca, ha generato confusione. Il risultato? Milioni di contagi, centinaia di migliaia di morti evitabili. Il segreto del successo delle democrazie monitoranti sta nel dichiarato coinvolgimento e nella responsabilizzazione dei cittadini, puntualmente invitati a fare la loro parte.
C’è una questione irrisolta che le sta particolarmente a
cuore?
La mia maggior preoccupazione riguarda i tentativi di
scatenare una guerra contro la Cina. La distruzione del regime di Pechino
rappresenta la priorità di molti “falchi”, persuasi che la Cina sia un castello
di carte da far volare in aria con uno schiocco di dita. Un’altra Guerra
fredda, ecco che cosa vogliono. Dal mio punto di vista, questi attacchi
sfrenati guardano con eccessiva sufficienza alle disastrose conseguenze che la
caduta di Pechino avrebbe su scala globale. Per trattare con la Cina occorrono
strategie più realistiche, nella logica di quello che mi piace chiamare “non
allineamento agile”. È un atteggiamento che presuppone un impegno di
cooperazione critica con la Cina in campi quali lo sviluppo delle
infrastrutture, la ricerca scientifica, l’alta formazione e le energie
rinnovabili. Rompere con la Cina non è necessario. Anzi, sarebbe un’impresa
insensata e autodistruttiva.
Da qui il valore dell’umiltà come virtù politica?
Le virtù democratiche sono molte: pazienza, misericordia,
coraggio, rispetto degli altri, attitudine al compromesso. Tutto considerato,
però, la virtù cardinale è proprio quella dell’umiltà, che non ha nulla a che
vedere con la sottomissione del gregge. L’umiltà sa sempre opporsi
all’arroganza del potere, è la consapevolezza dei propri limiti e di quelli
altrui e, insieme, è l’assunzione di responsabilità affinché il riconoscimento
e il rispetto di questi limiti siano universalmente garantiti. Le persone umili
si percepiscono come abitanti della terra, nel senso di humus, terreno.
L’umiltà incoraggia, rafforza chi non ha potere, conferisce un’energia
interiore che permette di agire al cospetto del mondo. Detesta l’arroganza, la
dismisura, così come la violenza e i violenti. È una virtù sociale, una forma
di generosità. Giustamente sant’Agostino sosteneva che, lì dove si trova
l’umiltà, si trova anche la carità. Le persone umili, in definitiva, vivono
nella democratica convinzione che il mondo possa essere un posto migliore, più
tollerante e più ispirato all’uguaglianza.
Una versione più ampia di questa intervista è disponibile nel
sito www.avvenire.it
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