delle relazioni umane.
In un libro analisi e proposte
Un anno per scoprire l'importanza delle relazioni
Da mesi il nostro stile di vita si è modificato radicalmente,
ma come sarà la vita sociale quando il Covid-19 sarà stato debellato?
Ritorneremo alla vita di prima, puntando ancora su obiettivi come benessere e
progresso, o dovremo adottare altre modalità e altri valori? I due autori si
interrogano sugli effetti della pandemia sulle nostre relazioni sociali:
distanziamento fisico, didattica a distanza, smart working sono stati e sono la
nostra nuova quotidianità. Offrono dei vantaggi, ma con il passare dei mesi ci
siamo resi conto che le relazioni sociali sono un elemento essenziale della
nostra vita, non sostituibile con i mezzi di comunicazione digitale. Ma in cosa
consistono le relazioni e come rimodularle tenendo conto dell'esperienza
vissuta con la pandemia? Nel volume i due autori offrono una pista illuminante
di riflessione sull’argomento, spiegando come e perché è necessario creare una
nuova visione relazionale della vita umana e dell’organizzazione sociale.
Donati: distanziamento fisico non è distanziamento sociale
Una apparente contraddizione che emerge da questo strano
tempo: la pandemia ci obbliga a stare lontani e ci dice però quanto abbiamo
bisogno gli uni degli altri. Come mettere insieme questi due elementi?
Nell'intervista a Vatican News, risponde a questo e a tanti altri
interrogativi Pierpaolo Donati, uno dei due autori del libro "Dopo la
pandemia". Professore Alma Mater (PAM) di Sociologia nell’Università di
Bologna, già presidente dell’Associazione Italiana di Sociologia, dal 1997
Donati è membro della Pontificia Accademia di Scienze Sociali. È
internazionalmente conosciuto come fondatore di una originale Sociologia
relazionale o Teoria relazionale della società.
R. - In realtà ciò che vediamo è quello che le pandemie
portano con sè, cioè il bisogno di stare distanti un po' gli uni dagli altri.
Ora, le relazioni sono come l'aria, cioè sono invisibili, ma realissime, senza
l'aria non viviamo, così anche senza relazioni non possiamo vivere e quindi il
problema è capire come gestire queste relazioni. La pandemia è stata quella che
nel libro chiamo una 'epifania delle relazioni', cioè ha rivelato la realtà
delle relazioni, che non dipendono dalla nostra volontà, dai nostri desideri,
ma sono una realtà esterna a noi che emerge nelle interazioni tra le
persone. Allora non è tanto che ci obbliga a stare lontani quanto direi a
prendere le distanze, però qui dobbiamo imparare a distinguere tra la distanza
fisica e la distanza sociale, cioè relazionale, il problema è che la modernità
non ci ha insegnato a gestire le relazioni. La distanza fisica è una distanza
spaziale, un metro, due o tre dall'altra persona, la distanza sociale invece è
distanza della relazione e si può stare in relazione anche a una certa distanza
fisica. Ma per questo dobbiamo vedere le relazioni, cioè sapere che esiste
qualcosa tra me e l'altro e le altre persone e che dobbiamo gestire la
relazione assieme, non è semplicemente quello che sono io e quello che sei tu.
Il problema è che non abbiamo una cultura della relazione perché la modernità
ci ha spiegato che la relazione è una proiezione dell'io, dei suoi desideri e
opinioni, mentre invece la relazione è una realtà oggettiva che non dipende nè
da me nè da te, anche se siamo noi che dobbiamo creare questa relazione.
Qualche giorno fa, ho sentito un papà dire a suo figlio, un
bambino di 5/6 anni: ti avevo detto di stare lontano dalle persone... Gli altri
sono un pericolo. E domani? Come crescerà il sentimento di fiducia nei bambini
che stanno vivendo questo tempo?
R.- Certamente questa generazione di bambini e di ragazzi che
non possono, diciamo, vivere una vita relazionale ricca, ma devono gestirla in
modo limitato, crescono con un bisogno di di fiducia molto più forte, rispetto
che nel passato È proprio per questo che dobbiamo insegnare loro che la fiducia
è una relazione. Non è un sentimento soggettivo, ma è un modo di gestire il
rapporto con l'altro, che cosa facciamo io e l'altro insieme. Quindi ai bambini
va spiegato che la distanza fisica che devono avere non è la stessa cosa che la
distanza relazionale: la distanza relazionale presuppone un'apertura, diciamo
così, di credito all'altro, però sapendo che ci sono sempre dei rischi nel
rapporto con gli altri. Ai bambini va insegnato proprio questo, che bisogna
gestire le relazioni.
Il tema delle relazioni è balzato in primo piano come una
cosa bella e desiderabile perfino nelle pubblicità televisive. Un traguardo da
raggiungere. Intanto dobbiamo continuare a tenerci collegati con gli strumenti
che ci offre la tecnologia che sono meravigliosi, ma il ricorso a queste
modalità ha qualche conseguenza su di noi, a lungo andare?
R. - Certamente, ci sono delle conseguenze enormi che vanno
sotto il capitolo della ibridazione delle relazioni. Nel senso che le
dimensioni umane della relazione e quelle tecnologiche si ibridano, e il
problema, ancora, è che non abbiamo una cultura delle relazioni, non sappiamo
distinguere la relazione interpersonale faccia a faccia, dalla relazione
mediata dalla tecnologia. Quanto più usiamo le tecnologie che mediano la
relazione con gli altri, quanto più gli elementi della tecnologia - cioè il
modo di funzionare della tecnologia - entra anche nella mente. Cioè noi
ci adattiamo al mezzo e in questo modo ibridiamo la nostra identità perché
questa diventa la nostra immagine, la fotografia che mettiamo sui social ecc...
Quindi bisogna stare attenti a distinguere le relazioni interpersonali da
quelle mediate tecnologicamente. Per molte persone sono la stessa cosa e anche
molti studiosi lo dicono, ma non è vero.
Non solo zoom, messaggi sul cellulare e videochiamate. C’è
anche il lavoro da casa che ci tiene lontani dai colleghi e per i ragazzi la
didattica a distanza. Modalità che offrono vantaggi, ma che hanno anche molti
limiti…
R. - E anche qui, di nuovo, c'è la scoperta che il lavoro è
una relazione sociale, che studiare, che l'educazione è una relazione sociale e
non è semplicemente il lavoro come prestazione funzionale, cioè fare un certo
compito, questo si può fare anche al computer da casa, o l'educazione non è
mera istruzione, cioè trasferimento di una conoscenza informatica e
tecnologica, ma che c'è una socialità implicata nel lavoro nell'educazione.
Allora che cosa fare? Beh, bisogna appunto pensare che lo smart working, il
lavoro agile come si dice, o a distanza, va bene, ma bisogna dosarlo e bisogna
sempre combinarlo con altre forme di collegamento tra colleghi di lavoro o tra l'insegnante
e l'alunno. Io faccio sempre l'esempio anche nella messa del "Datevi il
segno di pace": molti sacerdoti evitano questo perchè giustamente non ci
si può dare la mano, però tra il non far nulla e avere un segno di pace che sia
un inchino, un saluto con la mano ecc..., questo ha un valore enorme perché
significa sentire che siamo persone umane fatte anche di un corpo che ha
bisogno di relazionarsi e non soltanto una mente: ci sono tante altre forme,
non abbiamo mobilitato le comunità, le reti comunitarie per far fronte alla
pandemia, in modo da avere un lavoro, un'educazione meno sostituibile dalle
tecnologie.
Qual è l'indicazione che viene dall'analisi contenuta nel
testo?
R. - Il messaggio del libro è che non si tratta di ritornare
a una supposta normalità del passato, che non si tratta neanche di ricostruire,
nel senso di ricostruire quello che avevamo e che abbiamo perso, ma si tratta
di rigenerare la società, cioè generarla nuovamente. E questo
significa fare attenzione alle relazioni, imparare come sono fatte,
gestire le relazioni interpersonali per una maggiore umanizzazione delle
persone, anche per non cadere nel mito tecnologico. C'è in tanti l'idea che le
epidemie del futuro si potranno risolvere con la tecnologia, oppure con i
vaccini. Il libro indica una conversione che vuol dire cambiare
direzione. Dobbiamo capire che la relazionalità tra le persone è un fatto
culturale di umanizzazione, non è la movida, l'assembramento. Per molti oggi è
un oscillare continuo tra il "mi chiudo, sto in casa e non vedo
nessuno" e il "faccio il branco, mi metto in maniera gregaria in
un mucchio di persone perchè mi piace questo stare insieme agli
altri". Dobbiamo invece imparare a gestire le relazioni, capire che
attraverso le relazioni dobbiamo diventare più umani. E non individualmente,
perchè la relazione è triadica, non è mai individuale, implica che ci siano
almeno due persone, ma la relazione come tale è il terzo della relazione.
Immagino che questo terzo sia il risultato, diciamo, chimico
che si produce tra le due persone. E' così?
R. - Sì è così, e a questo proposto vorrei evidenziare che i
due ultimi papi, Benedetto XVI e Papa Francesco, hanno dato una spinta in
questa direzione, cioè sono pensatori relazionali. Benedetto XVI
nella Caritas in veritate scrive che dobbiamo guidare la
globalizzazione dell'umanità in termini relazionali di condivisione dei beni
relazionali e, sempre Benedetto, dice che l'umano è la relazionalità. E Papa
Francesco è un pensatore relazionale per eccellenza, perché lui dice che tutto
è connesso con tutto. Ma nella Fratelli tutti scrive addirittura che per il
pensiero cristiano la primazia deve essere data alle relazioni, cioè
all'incontro del mistero sacro dell'altro, cioè la comunione universale con
l'intera famiglia umana, che è una vocazione di tutte le persone, di tutti gli
esseri umani. Che la primazia vada data alla relazione significa superare
l'individualismo, superare quel modello di società verso cui stavamo andando
prima della pandemia, che è un modello di società dei consumi individualistici.
La Trinità è relazione, quindi se il mondo è stato fatto da Dio a sua immagine,
vuol dire che il mondo è ontologicamente relazionale, è questo che noi non
riconosciamo. E questo coinvolge la vita umana e naturale, le scienze sociali e
la teologia. Ecco perché abbiamo scritto il libro in due, un sociologo e un
telogo.
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