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sabato 18 gennaio 2025

ACQUA e VINO

 



 Is 62,1-5; Sal 95 (96); 1Cor 12,4-11; Gv 2,1-11

 

 Commento di Matias Augé

 

In questa domenica ci viene proposta la scena semplice e toccante del miracolo delle nozze di Cana. Gesù si trova con sua madre Maria ed i suoi discepoli ad una festa di nozze nella cittadina di Cana di Galilea. Venendo a mancare il vino, Gesù cambia sei giare d’acqua in vino. Ciò che sembra interessare particolarmente a san Giovanni, che racconta il fatto, è che con questo primo miracolo Gesù ha manifestato la sua gloria ed i discepoli hanno creduto in lui. Questo prodigio, come i restanti miracoli compiuti da Gesù, sono chiamati da san Giovanni “segni”, in quanto mostrano che Gesù è il Figlio di Dio, il Messia, il Salvatore atteso.

 La presenza di Maria non è una presenza di contorno, ma determinante e attiva. È Lei infatti a provocare l’intervento di Gesù. Alle parole di Maria “Non hanno più vino”, Gesù risponde: “Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora”. Ma quale ora? Con Gesù giunge l’ “ora” attesa annunciata dai profeti: in lui Dio manifesta la sua gloria afferma san Giovanni, facendo eco alle parole del profeta Isaia che abbiamo ascoltato nella prima lettura: “Allora le genti vedranno la tua giustizia, tutti i re la tua gloria”. Secondo il vangelo di Giovanni, la gloria nascosta di Dio è apparsa nel Cristo fra gli uomini (cf. Gv 1,14; 11,4.40) ed è riconoscibile attraverso la fede (cf. Gv 2,11). Il dono della fede fa sì che i discepoli intravedano nel miracolo o “segno” operato da Gesù a Cana la presenza di Dio che salva. Il gesto compiuto da Gesù alle nozze di Cana è quindi una “epifania” messianica, cioè una manifestazione di ciò che egli è e della sua missione salvifica.

 Nell’Antico Testamento la felicità promessa da Dio ai suoi fedeli è espressa sovente sotto la forma di una grande abbondanza di vino, come si vede negli oracoli di consolazione dei profeti d’Israele. Gesù, col miracolo dell’acqua cambiata in vino mostra che è cominciata l’era messianica in cui Dio comunica in abbondanza i suoi beni. Il momento culminante di quest’era sarà costituito dalla morte e risurrezione di Cristo, cioè dal mistero della sua pasqua. A questa fase culminante della sua opera si riferisce Gesù quando dice a Maria sua madre: “Non è ancora giunta la mia ora” (cf. Gv 7,30; 8,20; 12,23.27; 13,1; 17,1). In ogni caso, il vino nuovo che egli fornisce miracolosamente a Cana è già segno del dono completo della redenzione offerto sulla croce e perennemente presente nel sacrificio dell’altare: il vino distribuito in abbondanza è segno del sangue che sgorga dal costato di Gesù in croce, sangue della nuova ed eterna alleanza, versato per noi e per tutti in remissione dei peccati.

 La salvezza attesa dai profeti e compiuta da Cristo è sempre presente in mezzo a noi nei segni del pane e del vino dell’Eucaristia che celebriamo in obbedienza alle parole del Salvatore: “Fate questo in memoria di me”. Ci possiamo domandare se per noi la partecipazione alla santa Messa è veramente un incontro di fede con il nostro Salvatore, un momento in cui riscopriamo il senso della nostra vita cristiana come vita di comunione con Dio e con i fratelli e sorelle, un momento di gioia e di grazia.

 Alzogliocchiversoilcielo


 

sabato 15 gennaio 2022

SEI ANFORE


Vangelo: Gv 2,1-11 

 

- Visualizza Gv 2,1-11 -

 Commento di don Alberto Brignoli -

 “In quel tempo”: da sempre siamo abituati a leggere con questa introduzione il brano di Vangelo che la Liturgia ci propone. Una specie di “c'era una volta” con il quale solitamente introduciamo le favole narrate ai bambini: quelle, però, finiscono con “e vissero tutti felici e contenti”: il Vangelo, invece, non sempre termina con una felicità generale o con una dichiarazione di lunga vita. Termina con un impegno: quello di comprendere chi è per noi Gesù e che cosa vuole da noi. E per questo, non esiste un tempo determinato: “quel” tempo è il tempo di sempre, il tempo in cui ogni uomo e ogni donna sono chiamati a vivere, a conoscere e a credere in Gesù.

Quando, però, abbiamo a che fare con il Vangelo di Giovanni, sarebbe più corretto non iniziare in maniera generica la lettura di un suo brano solamente con l'indicazione “in quel tempo”, soprattutto quando il testo originale inizia con una precisa indicazione temporale. Il secondo capitolo del suo Vangelo, infatti, inizia così: “Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea”. Chiaramente, nei due giorni precedenti Giovanni deve aver narrato qualcos'altro: leggendo il capitolo precedente, si parla di due giorni nei quali Gesù incontra e chiama i suoi primi discepoli, già seguaci di Giovanni il Battista, ovvero lo stesso evangelista Giovanni, Andrea, Simon Pietro, Filippo e Bartolomeo. Tutti quanti della Galilea, la maggior parte di essi pescatori. Di loro e della loro chiamata ci dirà di più, nelle prossime domeniche, l'evangelista Luca, al quale spetta accompagnarci in questo anno liturgico, e che oggi mettiamo un po' in “stand-by” perché Giovanni, con il famoso brano delle nozze di Cana e dell'acqua mutata in vino, ha qualcosa di importante da insegnarci proprio in ordine al cammino che i discepoli - e noi con loro - sono chiamati a fare dietro a Gesù.

Un cammino che inizia con una festa di nozze: una festa che terminò con un segno compiuto da Gesù per mezzo del quale “i suoi discepoli credettero in lui”; una festa che avvenne, appunto, “il terzo giorno”. Non è un giorno a caso, e Giovanni (che non usa mai i numeri senza tenere conto di una simbologia particolare) lo sa bene. Nella narrazione di Dio che si rivela al popolo d'Israele sul monte Sinai (lo troviamo al capitolo 19 di Esodo), “nel terzo giorno” dopo l'arrivo ai piedi del monte, Dio scende sul Sinai attraverso lampi e tuoni, ovvero attraverso una manifestazione della sua gloria, alla quale seguirà il dono delle Tavole dell'Alleanza. E anche nella Liturgia, come facciamo ogni domenica dopo l'omelia recitando il Credo, ricordiamo “il terzo giorno” come quello in cui Gesù “è risuscitato, secondo le Scritture”. Ciò significa che questo “terzo giorno”, a Cana, durante un banchetto di nozze, quello che avviene è una rivelazione importante, qualcosa che manifesta Gesù come il protagonista della Nuova Alleanza tra Dio e il suo popolo, qualcosa che è l'anticipo del giorno di Pasqua, nel quale Gesù, con la sua resurrezione, farà nuove tutte le cose. Qui, di nuovo, c'è l'acqua trasformata in vino, e non un vino qualsiasi, ma un vino buono, di ottima qualità, perché quando Dio in Gesù fa nuove tutte le cose, le fa bene, non tanto per farle. E lo fa attraverso un percorso e con modalità che a noi possono apparire quantomeno strane, poco usuali, a tratti anche sgarbate.

Come nei confronti della Madre, la vera protagonista di queste nozze insieme agli sposi: Gesù e i suoi discepoli vengono invitati “anche” loro, ma perché c'è lei, forse madrina di quel momento di gioia. Un momento di gioia che si trasforma in tristezza a causa di una leggerezza, di una disattenzione che si paga cara (dai... come si fa a rimanere senza vino a un banchetto di nozze? Siamo proprio un'umanità incapace, che senza l'aiuto di Dio non è proprio capace di fare nulla...). Queste situazioni, però, a una Madre non sfuggono. Anzi, a una “Donna”, non sfuggono: perché qui è la Donna a essere esaltata per la sua capacità di farsi carico delle tristezze dell'umanità e dare a esse una svolta positiva. Gesù, infatti, non la chiama “Madre”, ma per ciò che è profondamente, “Donna”: e nel vangelo di Giovanni, Gesù chiamerà “Donna” altri due personaggi femminili che non rispondono certo ai nostri “cliché” di donne ideali, ovvero la pluridivorziata samaritana e l'adultera condannata alla lapidazione, che qualcuno può anche sbizzarrirsi a identificare con la Maddalena, dato che dopo la risurrezione anch'essa viene chiamata “Donna” prima di essere chiamata per nome da Gesù... non sono certo le storie personali, e neppure i propri limiti umani a impedire a Gesù di chiamare “Donna” ogni donna, e di equipararla alla Madre, perché ciò che conta di una vera Donna è il cuore, un cuore capace di amare e attento alle necessità.

Sarà proprio uno straordinario intuito femminile a stravolgere la rispostaccia di Gesù a sua Madre in un'indicazione di salvezza ai servitori del Vangelo: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”. Qualsiasi. Anche la più strampalata. Anche quella di riempire di acqua (l'esatto opposto del vino di cui si ha bisogno) le sei anfore di pietra che servivano per la purificazione rituale dei Giudei. Non anfore qualsiasi: anfore per la purificazione rituale, ovvero anfore soggette all'uso rituale e legale prescritto dall'Antica Alleanza, sempre bisognosa di purificarsi finché troverà l'acqua vera che dona vita, quella della Nuova Alleanza sigillata dal Battesimo; una purificazione rituale che non dona salvezza, che è incapace di portare a compimento la salvezza, perché se fosse totale e perfetta, le anfore non sarebbero solo sei (numero dell'imperfezione), bensì sette, il numero della totalità; una Legge, quella dell'Antica Alleanza, che pesa come un macigno sulla vita del popolo d'Israele, proprio come pesano sei anfore di pietra piene fino all'orlo di una quantità di acqua spaventosa (alla fine, calcolatrice alla mano, parliamo di 700 litri di acqua...).

Ma come si fa a pensare che da lì può uscire un vino nuovo, e di qualità eccellente? Non importa: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”. Abbiate fiducia, dice la Madre: egli sa quello che fa! Lo sa lui, e lo sanno i servi che hanno attinto l'acqua! Queste cose non le sa “colui che dirige il banchetto”! Nella logica del Vangelo, chi “dirige”, chi “comanda”, resta all'oscuro di tutto, perché “Dio nasconde queste cose ai grandi e ai sapienti e le fa conoscere ai piccoli”. È così che Dio si rivela in Gesù come Signore della storia e dell'umanità: ai piccoli e ai servi.

E questo, avvenuto il terzo giorno, fu solo l'inizio dei segni compiuti da Gesù. Come a dire: ne vedremo delle belle!

 

Parole Nuove

 

sabato 10 ottobre 2020

INVITI E RIFIUTI

-  Dal Vangelo secondo Matteo  

Mt 22, 1-14

 In quel tempo, Gesù, riprese a parlare con parabole [ai capi dei sacerdoti e ai farisei] e disse: «Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire.  Mandò di nuovo altri servi con quest'ordine: Dite agli invitati: "Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!". Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. Poi disse ai suoi servi: "La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze". Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l'abito nuziale. Gli disse: "Amico, come mai sei entrato qui senza l'abito nuziale?". Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: "Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti". Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

 

Il commento al Vangelo di domenica 11 Ottobre 2020 – Anno A, a cura di Paolo Curtaz.

 Inviti e rifiuti

Preparo il commento al vangelo la domenica sera.  Mi ritaglio un tempo di riflessione e di preghiera che mi proietta alla domenica successiva, una sorta di post-it della mia vita interiore per fecondare la settimana. Dalle mie parti è arrivato l’autunno in anticipo con temperature gelide e la neve. È un effetto straniante, la scorsa settimana ancora si girava in t-shirt.  Ho appena letto i quotidiani del giorno. Sono coinvolto da quanto sta succedendo dietro le mura leonine, gli scandali che da tempo scuotono il Vaticano e la (irrisolta e in salita) riforma della Curia romana attuata da Francesco. Provo disagio, lo confesso. Anche un senso di nausea.  Non voglio entrare nello specifico: non ho gli strumenti per capire fino in fondo la situazione (chi li ha?), e le poche informazioni fornite sono interpretate nella linea di pensiero del giornalista che le riporta, lo so bene.  Ma il disagio rimane. Come se qualcuno parlasse male di mia madre e mi invitasse a prendere le distanze solo perché ha un vestito fuori moda (leggetevi Il santo, di Antonio Fogazzaro).  No, non è questa la Chiesa che ho conosciuto. Non così, almeno. Siamo peccatori, lo so. Tutti. E ne siamo consapevoli. Ma non a sufficienza. E se tutto quello che sta succedendo, dal Covid in avanti, ma anche prima, fosse lo sgambetto che lo Spirito ci sta facendo per fermarci e capire cosa stiamo facendo? E se – sul serio – ci stesse sfuggendo qualcosa di grandioso che, pure, è sotto gli occhi di tutti? Ho bisogno urgente e inappellabile di Profezia.

Un re che chiama

Il Dio che Gesù è venuto a rivelare è un re che invita a nozze. Non costringe, non obbliga, non intima. Propone. E non propone solo di andare a lavorare nella vigna per cambiare il mondo insieme a lui, no.  Propone di partecipare ad una bella festa, ad un banchetto elegante, ad una cena che lungamente abbiamo sognato. Così è Dio. Non quello piccino della nostra testa, quello severo delle nostre paure, quello intransigente delle nostre ristrette visioni inutilmente moralistiche.  Un Dio che fa festa. Un Dio che ama la compagnia, che la cerca, che mi invita. Invita me, perché non è egoista come sappiamo essere noi, non narcisista e diffidente. Dio è uno spettacolo di luce e di vita e mi chiede, mi propone nell’assoluta libertà, di partecipare alla sua vita ma anche di condividere la sua gioia. E i servi vanno, invitano, insistono. Noi servi, noi discepoli che già abbiamo conosciuto l’immensa bellezza di Dio. Come sono belli sui monti piedi di chi parla di Dio! Solo che.

 Ahia

Grandioso, direte voi.  In teoria. In pratica Dio si riceve un solenne e condiviso: no, grazie. Abbiamo delle cose da fare. Vero, certo. Cose urgenti, necessarie, importanti. Ma sempre e solo delle cose. Materia, impegno, lavoro, sudore.

Cose.

Che riempiono ogni spazio, che occupano la mente, che spengono l’anima e il desiderio. Peggio: che la uccidono. Non sono malvagi coloro che rifiutano. Sono solo troppo impegnati per diventare felici. Si illudono di trovare la felicità dopo avere finito le cose da fare. Come se la felicità potesse aspettare. Come se dipendesse dalle cose. Eppure, basta poco. Accogliere l’invito, andare. Vedere quanta gioia, verità, bellezza, abitano in Dio, e come la nostra vita, comunque sia, possa fiorire. Tutto il Vangelo consiste in un vieni e vedi. Cosa abbiamo di meglio da fare, oggi, dell’essere felici? Accampiamo scuse. Problemi, dolore, a volte addirittura attribuito a Dio, ostacoli.  Macché: se non siamo felici oggi, non lo saremo mai.

L’abito

Una sola cosa serve: l’abito. Un abito adatto, confacente.  Richiesta assurda, all’apparenza: al rifiuto degli invitati il re spinge ad entrare cattivi e buoni, medicanti e poveri. Come pretendere da loro un abito nuziale? Matteo, riprendendo questa parabola, pensa a quanti, in Israele, non hanno accolto l’invito, ora rivolto ai pagani.  Noi, oggi, sappiamo che l’invito di Dio è rivolto a tutti, anche a chi non ne è degno, anche ai peccatori. Nessuna selezione di bravi cristiani per far parte della festa. Ma l’abito sì. Certo. La consapevolezza del dono ricevuto, il desiderio, lo stupore, sì, certo. Quello è necessario. Il re è un padre, è buono, non è un bonaccione, un inutile Babbo Natale. Ci ama seriamente, con gioia, ma non si fa prendere in giro. Possiamo drammaticamente rifiutare la gioia. Ma anche fingere e non essere disposti a crescere, a fiorire, a convertirci. La conseguenza, allora, sarà quella di essere per sempre legati alla nostra minuscola visione della vita ed abitare nelle tenebre.

Forse

Allora questa Parola mi aiuta, mi spinge, mi scuote, mi inquieta. Forse è rivolta a me. Forse sono proprio io a rifiutare la logica della festa. Anche se discepolo da lungo corso. Anche se catechista o prete o cardinale. Forse davvero dobbiamo smetterla di pensare che queste parabole siano per gli altri. Io, Paolo, posso rifiutarmi di partecipare alla festa di Dio. O convertirmi. Perché Dio continua ad invitare, dice Isaia. E se chi doveva partecipare non c’è, pazienza.  Voglio esserci. E preparare un vestito che sia all’altezza. Non lussuoso o straordinario, ma che manifesti il desiderio che mi abita. Tutto posso in colui che mi dà la forza. Anche di vivere questo tempo di scelta e di setaccio. Ecco. Cosa abbiamo di meglio da fare oggi che non essere felici?


https://www.cercoiltuovolto.it/vangelo-della-domenica/commento-al-vangelo-di-domenica-11-ottobre-2020-paolo-curtaz/