Il pellegrinaggio giubilare – sulla scia dell’esperienza di Cristo – dev’essere, perciò, una parabola spirituale che illumina il senso della vita del cristiano
- di Gianfranco Ravasi
Così
un mistico russo, Giovanni di Kronstadt (1828-1908), rappresentava la parabola
della vita sotto il simbolo di un pellegrinaggio. Tra l’altro, com’è noto,
uno dei testi più popolari di quella spiritualità sono i Racconti di un
pellegrino russo di autore anonimo. Di fronte all’incessante flusso dei
pellegrini a Roma per l’Anno Santo, è spontaneo riprendere il filo di questo
tema che abbiamo proposto nella precedente puntata del nostro itinerario
giubilare.
Abbiamo
già seguito l’Israele biblico pellegrino verso la Terra promessa nell’esodo
dall’Egitto. Il segno più alto, una volta entrati in essa, sarà il
pellegrinaggio a Sion, cioè al tempio, al culto, alla comunione col Signore,
come ammoniva la Legge: «Tre volte l’anno salirai per comparire alla presenza
di Dio» (Esodo 34,24). E Geremia ribadirà: «Su, saliamo a Sion, andiamo al
Signore Dio nostro!» (31,6).
Si
configura persino una sorta di libro del pellegrino: è un fascicolo di 15
Salmi, dal 120 al 134, intitolati “Canti delle ascensioni”, non solo perché la
Città santa è su un monte di 800 metri ma anche perché il fedele nella
preghiera “ascende” verso Dio in un dialogo e in un abbraccio
d’amore.
Suggeriamo,
però, la lettura di un altro canto di Sion, il Salmo 84, che raffigura dal vivo
il pellegrinaggio e l’arrivo al tempio. Là l’orante contempla il volo felice
degli uccelli che hanno i nidi nel santuario, simbolo della sorte fortunata di
coloro che, soprattutto i sacerdoti, hanno in quel luogo sacro una
residenza perpetua e non temporanea (come il pellegrino) in intimità con
Dio. Nella folla di quei pellegrini possiamo identificare un volto, quello di
Gesù. Già da neonato era stato offerto al Signore in Sion (Luca 2,22-24). A 12
anni era ritornato nel tempio in compagnia dei suoi genitori, dichiarando che
quella è la «casa del Padre suo» (2,49).
Là
ripetutamente egli accede, partendo dalla lontana Galilea, come ci ricorda il
Vangelo di Giovanni che pone spesso il fondale del tempio e delle varie
solennità ebraiche per le rivelazioni di Cristo in parole e in segni. Ma è in
particolare Luca a descrivere, nel cuore del suo Vangelo (9,51- 19,28), una
lunga marcia di Gesù pellegrino verso Gerusalemme. La sua ultima meta
non sarà il Golgota con la crocifissione, ma il monte dell’ascensione, ossia il
suo ritorno al Padre come aveva annunciato nel Cenacolo: «Sono uscito dal Padre
e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre»
(Giovanni 16,28).
Il
pellegrinaggio giubilare – sulla scia dell’esperienza di Cristo – dev’essere,
perciò, una parabola spirituale che illumina il senso della vita
del cristiano. Già il testo basilare biblico del Giubileo, il c. 25 del
Levitico, aveva una norma emblematica: «Le terre non si possono vendere per
sempre, perché la terra è mia – dice il Signore – e voi siete presso di me forestieri
e di passaggio» (25,23). E la Lettera agli Ebrei concluderà: «Non abbiamo
quaggiù una città stabile ma andiamo in cerca di quella futura» (13,14).
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