ma la politica lo ignora.
Folle la scuola che insegue
il sistema produttivo"
La rivoluzione richiede pensiero critico,
l’istruzione non sia ossessionata dagli sbocchi occupazionali.
di
: Massimo Cacciari
Quale dovrebbe essere
il compito fondamentale di uno Stato? La risposta che ci proviene
dalle voci che stanno all’origine della nostra civiltà è una sola: nutrire,
allevare ed educare i giovani. Nutrire e allevare il loro corpo, formare ed
educare la loro anima. Nella loro indissolubile unità. Di che cosa infatti
dovrebbe avere massima cura una città, una polis retta secondo ragione, se non
della propria forza e della propria durata? E che cosa le garantisce se non
nuove generazioni attrezzate in tutti i sensi ad affrontare anche
l’imprevedibile? È un’idea gerontocratica dell’educazione quella che la riduce
essenzialmente a trasmissione di saperi. Educare, come dice la stessa
parola, significa trarre fuori dal giovane la potenza che già è in lui, aprire
la sua mente, i suoi occhi, e non informarlo di ciò che padri e nonni hanno
compreso e vissuto. Educare significa liberare.
Il peccato mortale della
nostra politica consiste nell’ignorare tutto ciò.
Il suo fallimento è palese, ma ci si ostina a nasconderlo. I dati lo denunciano
impietosamente. La sfiducia nelle capacità formative del nostro sistema cresce
con disarmante regolarità. I laureati nella fascia d’età 25/34
anni sono il 30% (ma al Sud solo il 20%), il 10% in meno rispetto alla media
europea. Di questi laureati quelli che prendono la via dell’emigrazione
crescono ogni anno dall’inizio del nuovo millennio, passando da qualche centinaio
a parecchie migliaia. Chi trova lavoro in patria lo ottiene, nella
stragrande maggioranza dei casi, irregolare e sottopagato. E per ogni
capitolo di questo dramma il Sud vede peggiorare la propria situazione rispetto
al Centro-Nord. Sono dati a disposizione di tutti, non opinioni. La formazione
delle nuove generazioni non rappresenta la priorità della nostra politica. E
una politica che nella sua agenda non esprime questa priorità cessa di avere un
qualsiasi futuro.
Non si tratta soltanto di
investimenti, di difendere almeno il potere d’acquisto degli stipendi di
personale e insegnanti, di armare il cervello dei giovani piuttosto che
riarmare eserciti per far guerre per interposta persona. Né la crisi della
scuola italiana può essere semplicemente trattata come un capitolo del
progressivo esaurirsi delle politiche di Welfare, del venire meno della volontà
stessa da parte dello Stato di garantire a tutti i servizi essenziali. Nella
sua politica per la scuola una classe dirigente ha sempre espresso, cosciente o
no, nel modo più chiaro il proprio livello culturale e la propria strategia
complessiva. L’assetto della scuola è lo specchio più veritiero della
sua qualità. Quale idea di società emerge dagli attuali ordinamenti? Una
confusa contrapposizione al modello classista gentiliano ha condotto a
inseguire quello di una scuola “al servizio” del sistema economico-produttivo.
Una scuola che tradisce il suo stesso etimo per diventare nec-otium, negozio,
una sorta di pre-lavoro.
Modello non solo
culturalmente odioso, ma semplicemente idiota, poiché esso prefigura una scuola
che si troverà sempre in costante ritardo rispetto alle trasformazioni
organizzative e tecnologiche. Se la scuola deve
essere nec-otium la si chiuda e si promuovano soltanto forme di learn-by-doing
gestite da imprese e società, al loro interno. La rivoluzione tecnologica (e
delle stesse forme di vita) in cui viviamo richiede persone capaci di capire, apprendere
rapidamente, educate a un pensiero critico, pronte nel cogliere i segni del
salto, della discontinuità nei processi economici e sociali. Altro che
adattarsi allo stato presente e integrarsi in esso.
Tutto si tiene. Una
scuola, a tutti i gradi, che persegue l’obbiettivo di addomesticare il giovane
al mercato, ossessionata dalla peregrina idea dello “sbocco occupazionale”,
sarà necessariamente il trionfo dell’ordinamento burocratico, del
controllismo formale. L’oppressione burocratica schiaccia l’autonomia
didattica, omologa al basso, rende vacua chiacchiera ogni selezione
meritocratica. L’insegnante ha sempre meno tempo per leggere, studiare,
continuare a formarsi; produzione di riunioni per mezzo di riunioni,
redazione di piani e progetti, rendiconti continui non sulle proprie
conoscenze, ma sull’osservanza di procedure e metodi soffocano il suo spirito
di iniziativa. Come ha bene spiegato Ivano Dionigi nel suo libro “Magister”
ormai la scuola non la fanno i maestri, ma i ministri.
È il sistema
dell’universale sorveglianza. Tutto si svolge sotto
il timore della punizione. Non hai seguito la regola, non hai riempito con
diligenza i moduli prescritti, la controversia legale, magari fino al Tar, sta
in agguato. Per essere tranquilli, obbedisci ai comandamenti ministeriali, per
quanto stupidi possano essere e anche se ciò ostacola fino a impedirla la tua
volontà di crescita intellettuale, di cambiare, di innovare dove le cose non ti
sembra funzionino. Bada anzitutto al “successo formativo”, che si misura
sulla percentuale degli studenti che finiscono il corso negli anni previsti.
“Successo formativo” significa perciò non avere “bocciati”, non avere “fuori
corso”. Il “sindacato Famiglia” vigila che così sia. La meritocrazia può
attendere, anche perché quale meritocrazia potrebbe esserci in un regime che
non ha alcuna politica per un reale diritto allo studio?.
Così non si educa il
giovane e così lo Stato abdica alla sua funzione politica essenziale. Docenti e
studenti debbono allearsi nel combattere questa intollerabile situazione. Solo
da questa lotta può nascere anche una nuova élite politica, una nuova
classe dirigente del Paese.
Fonte: La Stampa
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