mercoledì 30 luglio 2025

EDUCARE E' LIBERARE

 


"Educare è liberare, 

ma la politica lo ignora.


 Folle la scuola che insegue 

il sistema produttivo"

 

La rivoluzione richiede pensiero critico, 

l’istruzione non sia ossessionata dagli sbocchi occupazionali.

di : Massimo Cacciari

Quale dovrebbe essere il compito fondamentale di uno Stato? La risposta che ci proviene dalle voci che stanno all’origine della nostra civiltà è una sola: nutrire, allevare ed educare i giovani. Nutrire e allevare il loro corpo, formare ed educare la loro anima. Nella loro indissolubile unità. Di che cosa infatti dovrebbe avere massima cura una città, una polis retta secondo ragione, se non della propria forza e della propria durata? E che cosa le garantisce se non nuove generazioni attrezzate in tutti i sensi ad affrontare anche l’imprevedibile? È un’idea gerontocratica dell’educazione quella che la riduce essenzialmente a trasmissione di saperi. Educare, come dice la stessa parola, significa trarre fuori dal giovane la potenza che già è in lui, aprire la sua mente, i suoi occhi, e non informarlo di ciò che padri e nonni hanno compreso e vissuto. Educare significa liberare. 

Il peccato mortale della nostra politica consiste nell’ignorare tutto ciò. Il suo fallimento è palese, ma ci si ostina a nasconderlo. I dati lo denunciano impietosamente. La sfiducia nelle capacità formative del nostro sistema cresce con disarmante regolarità. I laureati nella fascia d’età 25/34 anni sono il 30% (ma al Sud solo il 20%), il 10% in meno rispetto alla media europea. Di questi laureati quelli che prendono la via dell’emigrazione crescono ogni anno dall’inizio del nuovo millennio, passando da qualche centinaio a parecchie migliaia. Chi trova lavoro in patria lo ottiene, nella stragrande maggioranza dei casi, irregolare e sottopagato. E per ogni capitolo di questo dramma il Sud vede peggiorare la propria situazione rispetto al Centro-Nord. Sono dati a disposizione di tutti, non opinioni. La formazione delle nuove generazioni non rappresenta la priorità della nostra politica. E una politica che nella sua agenda non esprime questa priorità cessa di avere un qualsiasi futuro. 

Non si tratta soltanto di investimenti, di difendere almeno il potere d’acquisto degli stipendi di personale e insegnanti, di armare il cervello dei giovani piuttosto che riarmare eserciti per far guerre per interposta persona. Né la crisi della scuola italiana può essere semplicemente trattata come un capitolo del progressivo esaurirsi delle politiche di Welfare, del venire meno della volontà stessa da parte dello Stato di garantire a tutti i servizi essenziali. Nella sua politica per la scuola una classe dirigente ha sempre espresso, cosciente o no, nel modo più chiaro il proprio livello culturale e la propria strategia complessiva. L’assetto della scuola è lo specchio più veritiero della sua qualità. Quale idea di società emerge dagli attuali ordinamenti? Una confusa contrapposizione al modello classista gentiliano ha condotto a inseguire quello di una scuola “al servizio” del sistema economico-produttivo. Una scuola che tradisce il suo stesso etimo per diventare nec-otium, negozio, una sorta di pre-lavoro. 

Modello non solo culturalmente odioso, ma semplicemente idiota, poiché esso prefigura una scuola che si troverà sempre in costante ritardo rispetto alle trasformazioni organizzative e tecnologiche. Se la scuola deve essere nec-otium la si chiuda e si promuovano soltanto forme di learn-by-doing gestite da imprese e società, al loro interno. La rivoluzione tecnologica (e delle stesse forme di vita) in cui viviamo richiede persone capaci di capire, apprendere rapidamente, educate a un pensiero critico, pronte nel cogliere i segni del salto, della discontinuità nei processi economici e sociali. Altro che adattarsi allo stato presente e integrarsi in esso. 

Tutto si tiene. Una scuola, a tutti i gradi, che persegue l’obbiettivo di addomesticare il giovane al mercato, ossessionata dalla peregrina idea dello “sbocco occupazionale”, sarà necessariamente il trionfo dell’ordinamento burocratico, del controllismo formale. L’oppressione burocratica schiaccia l’autonomia didattica, omologa al basso, rende vacua chiacchiera ogni selezione meritocratica. L’insegnante ha sempre meno tempo per leggere, studiare, continuare a formarsi; produzione di riunioni per mezzo di riunioni, redazione di piani e progetti, rendiconti continui non sulle proprie conoscenze, ma sull’osservanza di procedure e metodi soffocano il suo spirito di iniziativa. Come ha bene spiegato Ivano Dionigi nel suo libro “Magister” ormai la scuola non la fanno i maestri, ma i ministri. 

È il sistema dell’universale sorveglianza. Tutto si svolge sotto il timore della punizione. Non hai seguito la regola, non hai riempito con diligenza i moduli prescritti, la controversia legale, magari fino al Tar, sta in agguato. Per essere tranquilli, obbedisci ai comandamenti ministeriali, per quanto stupidi possano essere e anche se ciò ostacola fino a impedirla la tua volontà di crescita intellettuale, di cambiare, di innovare dove le cose non ti sembra funzionino. Bada anzitutto al “successo formativo”, che si misura sulla percentuale degli studenti che finiscono il corso negli anni previsti. “Successo formativo” significa perciò non avere “bocciati”, non avere “fuori corso”. Il “sindacato Famiglia” vigila che così sia. La meritocrazia può attendere, anche perché quale meritocrazia potrebbe esserci in un regime che non ha alcuna politica per un reale diritto allo studio?. 

 L’astratto metodologismo imperante determina anche i piani di studio. La competenza disciplinare lascia il posto a indigeribili melting-pot specie nelle materie cosiddette umanistiche, infarinature di impressioni generiche su letteratura, arte, storia, invece di letture dirette, poche ma solide, conoscenze specifiche, limitate ma reali, fondate. Il “politicamente corretto” completerà l’opera di metamorfosi della conoscenza disciplinare in chiacchiera universalistica. 

Così non si educa il giovane e così lo Stato abdica alla sua funzione politica essenziale. Docenti e studenti debbono allearsi nel combattere questa intollerabile situazione. Solo da questa lotta può nascere anche una nuova élite politica, una nuova classe dirigente del Paese.

Fonte: La Stampa

 

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