- di
Andrea
Dall'Asta
- Direttore
della «Galleria d’Arte San Fedele» di Milano.
-
Le
drammatiche narrazioni di un Ribera, le luminose scene di Gloria di
un Pozzo o di un Rubens o l’intimità degli interni di un Vermeer continuano a
interrogare e a interpellare il mondo contemporaneo, come se vi ricercasse una
chiave d’interpretazione del proprio tempo, un orizzonte di senso in cui
cercare risposte, punti di riferimento.
D’altronde,
non mancano analogie tra il XVII secolo e il nostro. Se alla fine del
Rinascimento il mondo europeo è attraversato da inquietanti trasformazioni
epocali che gettano l’uomo in un profondo stato di precarietà e di angoscia,
non è forse un sentimento di oggi il sentirsi perduti e incapaci di vivere
un’unità di senso? Non è forse un tratto della cultura postmoderna il percepire
un sentimento d’incertezza e di frammentazione, per cui l’uomo si sente come
obbligato a una continua ricerca di se stesso, lontano da quelle sicurezze che
venivano in qualche modo «garantite» dall’adesione ai valori religiosi e
istituzionali, i quali fondavano l’identità di una cultura, di una società e di
un popolo?
In
questo irrequieto periodo di trasformazione che inizia già dalla prima metà del
Cinquecento, Caravaggio si staglia come un gigante, realizzando una sintesi
unica tra profondità di pensiero e capacità di lasciare emergere i sentimenti
umani più profondi, tra ricerca di fede e desiderio di uscire dai codici
tradizionali della religiosità del proprio tempo.
Attraverso
l’analisi di un dipinto, la Vocazione di san Matteo, collocato
nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma, grazie a una lettura di
carattere prevalentemente teologico (e filosofico), mostreremo come Caravaggio1,
interrogando un brano evangelico, elabori una profonda visione del mondo,
dell’uomo, di Dio; come, attraverso la messa in opera di uno straordinario uso
della luce, della prospettiva e del chiaroscuro, l’artista si faccia interprete
di una spregiudicata ricerca esistenziale, in grado di suggerire chiavi di
lettura per la comprensione del mondo moderno. In particolare, l’analisi si
concentrerà sulla luce e sul suo ruolo simbolico. Infatti, il fondo oro delle
icone medievali, simbolo della presenza di Dio che avvolge ogni realtà umana,
sembra trasformarsi in un raggio luminoso che appare e scompare
improvvisamente.
La
presenza di Dio illumina la vita di ogni uomo, ma si tratta soltanto di un
passaggio che s’iscrive nella durata di un istante. Ogni decisione umana si
decide in questo hic et nunc. Dopo questo
momento, l’uomo è rinviato alla responsabilità etica della propria storia. La
presenza di Dio non diventa allora che la scoperta del suo passaggio nel mondo.
La
vocazione di san Matteo
Il
ciclo della vita di san Matteo è dipinto all’inizio della carriera pubblica di
Caravaggio2,
nel 1599, ed è situato nella cappella Contarelli di San Luigi dei Francesi3,
chiesa nazionale dei francesi a Roma. Il programma iconografico tracciato già
diversi anni prima dal committente di origine francese Matteo Contarelli4,
proprietario della cappella dal 1565, prevedeva che la scena si svolgesse in
un magazeno, o in una grande sala contenente l’ufficio delle
imposte sul quale dovevano essere collocati alcuni libri e del denaro, secondo
le abitudini di tal officio.
Alla
chiamata di Cristo che passa per la strada, Matteo, vestito da gabelliere,
avrebbe dovuto alzarsi con slancio (con desiderio), per avvicinarsi a
lui e seguirlo. Matteo ha già compiuto la propria scelta. Ogni elemento di
tensione o di dramma è eliminato. La scena doveva dunque mostrare il contrasto
tra lo spazio del magazeno, luogo della miseria umana, e
l’atteggiamento di fede dell’apostolo che risponde immediatamente alla chiamata
di Cristo.
La Vocazione riprende
il racconto della chiamata di Levi, narrata dai Vangeli Sinottici. Leggiamo,
per esempio, nel Vangelo di Marco: «Nel passare, [Gesù] vide Levi, il figlio di
Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: “Seguimi”. Egli, alzatosi,
lo seguì» (Mc 2,14). Il centro drammatico è definito
dall’imperativo: «Seguimi», verbo che pone un punto di concentrazione narrativa
situato tra un prima e un dopo. Tra le azioni di Gesù, di passare, di vedere,
di dire, e la risposta di Levi, di alzarsi e di seguire. Tuttavia, in che modo
Caravaggio interpreta il racconto evangelico e la traccia iconografica
elaborata dal Contarelli?
Caravaggio
interpreta la scena in uno spazio familiare nella sua semplicità e sobrietà. La
composizione, tracciata parallelamente alla parete di fondo, comprende due
gruppi di persone, divise da uno spazio vuoto segnato visualmente da una
finestra chiusa. Al lato sinistro del quadro, cinque personaggi sono posti
attorno a un tavolo sul quale sono collocati uno scrittoio, una borsa e alcune
monete d’argento. Si riconosce un luogo in cui si maneggia denaro. Il gruppo
comprende tre ragazzi, un uomo di età matura e un vecchio, in piedi. I due
personaggi all’estrema sinistra tengono gli occhi fissi sulle monete. Uno conta
il denaro, l’altro sembra verificare l’esattezza delle operazioni. Gli altri
tre hanno lo sguardo rivolto verso gli altri due uomini alla destra della
scena. L’uomo al centro del gruppo ha un movimento di sorpresa. Designa se
stesso con la mano sinistra, come per chiedere una conferma. L’altra mano, sul
tavolo, resta salda sulle monete che stava contando. I due giovani al centro
appaiono dubbiosi, interrogativi. Sembrano colti di sorpresa. Provocazione?
Paura? Stupore? In particolare, il ragazzo meno giovane, armato, mostra un
atteggiamento eccessivo, come di un sobbalzo. È posto in avanti, con un vago
atteggiamento di minaccia.
Tutti
i personaggi sono vestiti con colori vivaci, in modo fastoso e appariscente. Le
figure risaltano prepotentemente dal fondo scuro, grazie soprattutto a una luce
che proviene dal lato destro della scena. Indossano vestiti contemporanei. I
due personaggi situati nella parte opposta del gruppo hanno i piedi nudi e sono
vestiti all’antica. Al gesto perentorio del più giovane risponde timidamente la
mano dell’altro, come per ribadirlo. L’apparizione dei due personaggi
dev’essere inattesa, per sospendere temporaneamente ogni azione in un istante
chiuso e definito.
La
tela è divisa in due parti: i gruppi a sinistra costituiscono un blocco
orizzontale, mentre i personaggi in piedi sulla destra formano un rettangolo
verticale. I due gruppi sono separati da un vuoto attraversato dalla mano del
giovane uomo sulla destra, che ha la funzione visuale di unire le due parti
della scena. Il modo in cui la luce è collocata è particolarmente studiato. Se
la finestra chiusa, costituita da una tela oleata, non sembra destinata a
illuminare direttamente i personaggi (diffonde una tenue luce di atmosfera?),
un potente fascio di luce, che viene da una sorgente luminosa a destra,
illumina frontalmente il gruppo seduto e in modo radente i due personaggi in
piedi.
La
scena non offre difficoltà per l’interpretazione iconografica.
Il
collettore di imposte, Levi, insieme ad alcuni compagni, sta contando il denaro
della giornata. Con la mano destra, il Cristo, che entra insieme a Pietro, lo
chiama con un gesto al suo seguito5.
Alla chiamata «seguimi», diversamente da quanto aveva annotato il Contarelli,
risponde lo stupore e l’interrogazione di Levi. Un breve dialogo sembra così
stabilito. «Tu! Io? Tu!». Il gesto di Cristo è imitato da Pietro. La Chiesa
prolunga il gesto di Cristo, facendosi così mediatrice tra Dio e gli uomini. Se
i personaggi sono vestiti in abiti contemporanei, significa che questa storia
non è una chiamata avvenuta in un tempo passato ma un invito rivolto a ogni
uomo, qui e ora. Caravaggio annulla così la separazione tra attori e
spettatori. In questo senso, la Vocazione sembra ben aderire
alla sensibilità del libretto degli Esercizi di sant’Ignazio
di Loyola.
Infatti,
la contemplazione ignaziana, in cui l’esercitante è invitato a rappresentarsi
nella scena evangelica, si concretizza in un luogo familiare e sobrio in cui il
fedele, insieme ai personaggi vestiti in abiti contemporanei, può partecipare
direttamente all’evento rappresentato, diventando così testimone e partecipe
dell’incontro tra Cristo e Levi. Il carattere realista e umile dell’immagine,
che sottolinea l’elemento tattile e materiale della rappresentazione, mostra
che il rapporto con la fede implica la piena adesione a ogni realtà umana e
tangibile, al di là di ogni trasfigurazione o ricerca di bellezza teofanica.
L’iconografia non rispetta dunque le annotazioni del committente. Anche in
relazione ai Vangeli, Caravaggio interpreta liberamente un dialogo non
riportato. Il pittore non rappresenta il momento in cui Matteo si alzerebbe per
seguire Cristo, ma un istante d’indecisione, di dubbio. Quale sintesi
Caravaggio opera tra forma e senso, oggetto e simbolo, contenuto ed
espressione? Occorre analizzare alcuni elementi dell’opera, come lo spazio e la
luce.
Lo
spazio
Lo
spazio costituisce un aspetto fondamentale delle arti visive. Esso non è una
forma vuota, un recipiente che accoglie semplicemente contenuti espressivi, ma
un luogo simbolico in stretta relazione con i processi percettivi dell’uomo
elaborati in un ambiente filosofico, teologico, sociale, in poche parole: in
una Weltanschauung determinata6.
Caravaggio
compie una vera e propria rivoluzione rispetto allo spazio organico e unitario
del Rinascimento, in stretta relazione ai cambiamenti culturali del suo tempo.
Le inquietanti novità del pensiero cosmologico copernicano, secondo il quale la
Terra non può essere considerata al centro topografico dell’universo,
dissolvono la concezione figurativa della prospettiva del Quattrocento. Quando
la terra e l’uomo erano situati al centro del cosmo, occorreva mettere in
relazione il mondo terreno con un Dio che lo osservava dall’alto. Per lo
spirito del Rinascimento, la prospettiva centrale, secondo la quale gli oggetti
sono costruiti a partire da un solo punto di vista, permette di rappresentare
un mondo pensato come oggettivo, unitario, misurabile e razionale. Se questo
spazio è poi concepito nella sua verità ontologica, grazie alle scienze della
matematica e della geometria, il punto di osservazione dell’uomo non può che
coincidere con quello di Dio7.
In una perfetta continuità tra arte e scienza, la prospettiva centrale cerca di
rappresentare un mondo in cui il fenomeno coincide con l’essere. In un contesto
teologico, Suárez dirà, alla fine del sec. XVI, che le creature uguagliano Dio
sotto il punto di vista della ragione generica: se l’una e l’altra sono, non
possono che essere identiche.
Il
pensiero copernicano e la scoperta galileiana dell’indefinitezza dei sistemi
solari conduce l’uomo a un’irrimediabile perdita di centro. L’unità del mondo
sublunare di Aristotele si disaggrega. La gerarchia degli esseri è spezzata. Se
il cosmo ruotava attorno a un centro, c’era una gerarchia. Se non c’è centro,
tutto si fa uniforme, senza punti privilegiati. L’universo si fa infinito e
omogeneo nella sua realtà materiale e spaziale, popolato da una pluralità di
mondi. I valori sul piano morale e metafisico sembrano dissolversi nella
relatività del tutto. «Dov’è Dio?», diventerà un problema centrale della
teologia. Dove collocarlo, se non esiste più un centro? Lo spazio, cessando di
avere un centro, si fa numerico, omogeneo, definito da coordinate geometrico-matematiche,
la cui serie è senza fine né inizio. Disincanto del mondo. L’universo diventa
come uno sfondo neutro, privo di centro, riducendosi a una somma di parti
simili e di eguale valore, come in un sistema di assi cartesiani. Il mondo è
estensione geometrica, caratterizzato da materia e movimento.
Se
nel Medioevo l’uomo era situato al centro grazie a Dio che ve l’aveva posto
naturalmente sin dalla creazione, ora si fa centro e misura di tutte le cose.
Il cogito ergo sum di Cartesio diventerà il fondamento di ogni
certezza di sé dell’Io. Tuttavia, se l’uomo fa sempre meno riferimento a Dio
per giustificare la realtà, come riconoscere una ragione di essere, per non
perdersi nell’indeterminato e nel vuoto del nulla? Non è forse questo un
problema centrale della contemporaneità? In tale contesto, l’uomo è posto in
una condizione di libertà inattesa, che lo conduce a una nuova coscienza di sé
in relazione a Dio e al mondo. Un nuovo sentimento di dubbio, incertezza e instabilità
attraversa l’uomo, che si percepisce come un elemento insignificante del
cosmo. Le silence des espaces infinis di Pascal esprimerà la
meraviglia ma anche l’angoscia dell’individuo di fronte a un universo
indefinito e illimitato. Si fa strada l’idea di un cosmo costituito da un
numero infinito di mondi simili o analoghi, sparsi nell’oceano etereo del
cielo.
Spazio
di una natura benigna che dispensa i suoi doni? Luogo abitato da una bontà
divina, che si china sull’uomo per sorreggerlo durante il percorso della vita,
come suggeriscono le splendide rappresentazioni dei Carracci? No. Caravaggio
non vuole rappresentare uno spazio illimitato in cui i dubbi e le angosce sono
superate nel piacere di una pienezza di senso e nella contemplazione della
bellezza dello spettacolo del mondo. Non si tratta nemmeno di trasformare lo
spazio ordinato, unitario e oggettivo del Cinquecento in spazio infinito e in
continuo divenire. Se il mondo del Rinascimento aveva un centro con limiti
definiti e misurabili, ottenuti grazie alla prospettiva, Caravaggio rappresenta
spazi ciechi e senza profondità, in cui la luce non crea un centro ma numerosi
centri senza relazioni apparenti. Spazi cupi, oscuri, difficilmente definibili
nella pressoché assenza di elementi architettonici. Spazi d’ombra, indefiniti e
insondabili.
Così,
nella Vocazione, la luce non si diffonde uniformemente, ma si
concentra in modo diseguale sui volti, sulle mani, sulle stoffe. Perdita di
centro, di un’unità per secoli affermata e sostenuta. L’attenzione dello
spettatore non si focalizza su un personaggio preciso, ma deve percorrere la
composizione da un punto all’altro, per tracciare il legame invisibile che
unisce i diversi personaggi. Anche la ripartizione in quattro zone del
chiaroscuro, creando un’alternanza di luce e di ombra, appare concepita in modo
indipendente dalla logica di rappresentazione della scena8.
Così il Cristo, che occupa un posto centrale nel racconto evangelico e che
dovrebbe essere collocato in un posto di primo piano nell’immagine, si trova in
una zona d’ombra. Soltanto il profilo e il braccio destro sono in parte
illuminati dalla luce. Un carattere misterioso ed enigmatico attraversa questi
luoghi insondabili. Le scene sembrano dominate da una mancanza di chiarezza
spaziale. Si tratta poi di interni o di esterni? Lo spazio conserva un
carattere ambivalente e misterioso.
Dialettica
luce-ombra
Caravaggio
non rappresenta uno spazio «razionale» definito ed equilibrato
nell’articolazione del disegno e della luce. Questo spazio fa difficoltà.
Caravaggio rinforza i colori scuri, il nero. La scena appare avvolta da
un’atmosfera di mistero, in cui i corpi escono dallo spazio d’ombra, per
assumere un violento rilievo plastico. Caravaggio instaura un nuovo regime dei
colori e della luce. Al fondo di gesso che preparava la stesura dei colori,
Caravaggio sostituisce un fondo scuro rosso-bruno, sul quale pone le ombre più
forti o le luci più violente. Il chiaroscuro passa da un massimo di luminosità
a un massimo di oscurità, attraverso una molteplicità infinita di passaggi e di
gradazioni di toni, attraverso una progressione infinita della luce. Tutto si
distingue dal grado. Tutto differisce dal modo. Il quadro cambia statuto. Le
figure emergono dal fondo, come se gli appartenessero. Anche i colori
scaturiscono dal fondo, come se fossero testimoni della natura oscura dalla
quale sorgono. C’è un’inseparabilità del chiaro e dell’oscuro. È come se la
luce e le tenebre appartenessero allo stesso luogo indistinto da cui scaturisce
la dialettica cosmica.
La
scena caravaggesca si concentra sulla luce, manifestazione della presenza
divina. D’altronde, il simbolismo della luce rinvia a un aspetto fondamentale
dell’estetica cristiana. Una visione metafisica della realtà e una
preoccupazione teologica sono all’origine della formulazione dell’estetica
medievale, legata alla ricerca della bellezza come criterio oggettivo per la
salita dell’uomo verso Dio. La luce occupa un posto centrale nella concezione
neoplatonica. Se Dio è luce e bellezza infinita, l’universo si manifesta come
una cascata luminosa che sgorga dalla sorgente primigenia, secondo un
meraviglioso irradiamento che si materializza in tutti gli enti della
creazione. Dio, l’Altissimo, l’Immutabile, il Trascendente, accorda a tutta la
creazione, secondo diversi gradi d’intensità, una partecipazione di se stesso9.
In
termini figurativi, questa luce soprannaturale che avvolge e illumina ogni
realtà umana prende corpo nel caldo colore dell’oro, che ben si presta a creare
un’atmosfera mistica e soprannaturale. L’oro diventa il simbolo
dell’incorruttibile, della forma senza forma, dell’assolutamente semplice,
della manifestazione visibile del sacro. Della verità e dell’autentica coerenza
di tutte le cose. L’ordine della grazia avvolge l’ordine della natura. Natura
praeambula est ad gratiam. Si tratta della discesa dell’eternità nel tempo,
in cui tutte le leggi della storia e della natura sembrano cancellate. La
teofania dell’oro permette in questo modo la manifestazione di un mondo che
assembla nell’unità ogni realtà, riconducendola a Dio stesso. Certo, grazie a
Giotto e soprattutto al Rinascimento italiano, la luce è studiata come fenomeno
fisico che permette la percezione della realtà sensoriale. Occorre dunque
analizzarne i riflessi, le vibrazioni, le modalità d’irradiamento nella densità
dell’atmosfera. Tuttavia, la dimensione simbolica della luce costituirà sempre
una componente fondamentale10,
sia essa posta in relazione al lumen intellectuale, grazie al quale
l’anima può salire fino all’Uno, principio di ogni luce, o all’eros platonico
(identificato con la caritas cristiana) o alle forze
spirituali e magiche che si liberano dal mondo caotico della natura.
Nei
quadri del Caravaggio, un raggio luminoso irrompe nella scena, come se potesse
arrestare il tempo per un istante, per una frazione minimale di tempo, quasi
fosse un fotogramma. Raggio che sembra emettere una luce breve e accecante, per
poi scomparire subito dopo, quasi potesse lasciare la scena nell’oscurità in
cui era immersa. L’irruzione improvvisa e inattesa della luce crea un’atmosfera
di sospensione che concentra l’attenzione sull’azione. Nella Vocazione,
sul dialogo tra Cristo e Matteo. È il momento di massima intensità spirituale.
Istante di dramma. Un legame inseparabile tra la luce che scende dall’alto e il
Cristo che entra nella scena sembra stabilito. L’irruzione del Cristo nella
scena è l’evento dell’unità della Luce-Grazia con Gesù di Nazaret. È
l’irruzione del Cristo-Luce nella vita di un uomo: «Seguimi! Chi, Io? Proprio
Io?». Lui, il pubblicano, è chiamato. La vita di Matteo è sospesa a una parola,
a una decisione. Nel divenire di questa luce, non c’è che l’istante strappato
all’oscurità e al silenzio. La luce arresta un momento particolare,
irripetibile. Momento della più grande intensità esistenziale. È la
rappresentazione del dilemma tra autenticità e finzione, verità e artificio.
Momento di dubbio. Si tratta dello stesso dramma tra «essere o non-essere» di
Amleto?
Ogni
svolgimento naturale della storia è interrotto, sospeso. La pittura di
Caravaggio non può essere tradotta con un semplice ragionamento. Il suo
discorso è incompleto, irregolare, discontinuo. C’è soltanto l’avvenimento
inatteso del gesto di Cristo. L’apparire improvviso della luce. Dopo questa
chiamata, ci sarà l’obbedienza o il rifiuto, il sì o il no. Non è tuttavia
possibile dedurre una risposta. Non si tratta di giustificare o di capire, ma
di credere. Si comprende l’importanza dello sfondo nero. Se Caravaggio rinforza
il nero, come dice Bellori, che separa e stacca violentemente le figure dal
fondo, è per ottenere un effetto visuale, avente il fine di sottolineare
un’emergenza e un sorgere che nasce dall’irruzione della luce. Se il fondo
diventa nero, soltanto il raggio di luce può illuminare la forma. Ma questa
forma è l’uomo stesso che si presenta sulla scena della vita nella verità della
propria esistenza. L’emergenza del rilievo sul fondo non è dunque funzione di
una relazione spaziale, ma di un nuovo ordine spirituale e interpersonale.
Spazio
della coscienza
Lo
spazio caravaggesco supera la definizione di una struttura spaziale organica e
unitaria. Non è facilmente identificabile. Le coordinate cartesiane non
saprebbero giustificarlo. Si tratta di uno spazio reale e simbolico allo stesso
tempo, in cui i personaggi sono chiamati a confrontarsi con il passaggio di Dio
nella loro storia. Se la luce che scende dall’alto crea numerosi centri senza
relazione apparente, la scena della Vocazione diventa un luogo
di peccatori in cui ciascuno è chiamato a una risposta personale. Universo
interiore e non solo fisico, dunque, che separa i dannati dai salvati, i beati
dai maledetti. Universo, in cui è rivelata la verità di ogni uomo. Così, quando
questo raggio fa irruzione nella scena, il vecchio e il giovane continuano a
contare il denaro. La bramosia e l’avidità rendono l’uomo cieco di fronte
all’irrompere della luce. Per gli altri, questa luce conduce a una decisione, a
una scelta tra la vita e la morte, tra la libertà e la schiavitù. La Vocazione diventa
un dramma vissuto nella vita quotidiana, la rappresentazione del giudizio tra
coloro che hanno accettato di essere i protagonisti della loro storia,
sollevando il volto di fronte alla luce, e coloro che al contrario hanno
vissuto soltanto l’indifferenza di una penombra.
Uomo
irrimediabilmente perduto nell’oscurità di un universo senza confini? No, la
luce permette di riconoscere un senso. L’uomo smarrito nelle tenebre di un
universo indefinito può trovare una risposta mediante la luce della grazia,
attraverso l’incontro di un uomo. Il Cristo entra nella storia di ciascuno,
nell’oggi della sua vita. L’assoluto si manifesta nella relatività di un fatto
quotidiano. La contingenza è innalzata all’universalità. Caravaggio toglie così
alla rappresentazione ogni carattere trionfalistico e soprannaturale e la
lascia all’attualità di tutti i giorni. Lo spazio sacro è trasposto all’interno
della coscienza dell’uomo che incontra Dio il quale chiama a seguirlo. Dio si
rivela, chiamando, strappando così l’uomo all’oscurità del non senso. E la
sequela comporta un passaggio attraverso la morte. Caravaggio situa la mano
destra di Cristo perpendicolarmente alla croce disegnata dai telai incrociati
della finestra. Il gesto della mano è così visualmente messo in rilievo non
solo dal chiaroscuro, ma anche dal disegno della croce che simboleggia la morte
del Figlio di Dio11.
Come se quest’uomo chiamasse Levi a seguirlo, fino al dono della sua stessa
vita.
Messaggio
ben diverso dall’ideale eroico della Riforma cattolica, che aveva rappresentato
gli slanci, le estasi dei santi, in un contesto melodrammatico di esaltazione
dei sentimenti. L’eroismo di Matteo è legato a un concetto di santità che si
definisce in relazione all’incontro col Cristo. L’apostolo non si alza con
slancio, come suggerisce il Contarelli, ma vive fino in fondo il punto
culminante della sua esistenza, in tutta la sua drammaticità, nella sua offerta
e nel suo rischio. La posizione di Caravaggio è rivoluzionaria. L’arte non è
nobile per la perfezione dei suoi contenuti, ma per la sua capacità di
rappresentare l’uomo di fronte alla capacità di vivere fino in fondo il dramma
della propria coscienza, di rispondere al Cristo che chiama. Certo, il Cristo
si fa presente a tutti gli uomini, ma occorre riconoscerlo, perché l’istante si
trasformi in quello della grazia, della comunicazione di Dio all’uomo.
È
stato più volte sottolineato come questo raggio di luce sembri apparire per
scomparire immediatamente. Come un flash che illumina e si
ritira. Il Cristo si mostra in una condizione di passaggio. È colui che passa.
Si tratta di un aspetto specifico dell’opera di Caravaggio. Se il fondo oro
sottolineava l’entrata dell’eternità nel mondo per trasfigurarlo, per
Caravaggio il tempo diventa la grazia, fatta all’uomo, dello svelamento di Dio
come passaggio nel mondo. Diventa l’istante di un raggio di luce che ha il
potere di ritirarsi. Si tratta del passaggio dell’alternanza di un pieno e di
un vuoto, di una luce e di un’ombra, dell’irruzione di una parola e di un
silenzio. Ma dopo questo passaggio, il vuoto e l’ombra che riconquisteranno
simbolicamente la scena della vita umana non sono più semplicemente un segno
negativo, un’oscurità o un silenzio che rimettono ogni cosa nell’indeterminato.
Cristo passa nella storia dell’uomo, per trasformare la sua vita, perché possa
convertirsi e seguirlo. Perché possa ricevere la luce della grazia. Così
Matteo, Paolo, Maddalena, Pietro… Essere chiamati significa essere creati,
nascere, passare dalle tenebre alla luce. Si tratta dell’avvenimento dell’unità
della vita e della morte perché la vita possa trionfare. Da questo momento Levi
si chiamerà Matteo: la sua nuova identità di credente.
Dopo
la morte di Caravaggio, questa straordinaria tensione sarà spesso oggetto di
equivoci. La luce perderà progressivamente il suo carattere simbolico, per
trasformarsi semplicemente in luce fisica, della nostra esperienza visiva e
sensoriale, che permette la visione della natura che ci circonda, grazie
all’organo dell’occhio, alla retina. Se il Cristo-luce irrompe nella nostra
vita soltanto per la durata di un istante, il mondo sarà sempre più lasciato
alla sua profanità, alla rappresentazione fenomenica delle cose reali
ed esistenti, senza ideale e senza religione, come direbbe
Courbet. A distanza di secoli, il mondo rappresentato dall’Impressionismo non
sarà forse quello dello studio della natura, della realtà sensibile, nella
messa tra parentesi di ogni carattere teologico? Lenti passaggi, attraverso
l’arte olandese del Seicento, gli studi del vedutismo veneziano, il realismo
francese… Come dimenticare le splendide rappresentazioni di un Vermeer che
sembrano anticipare alcune conquiste dell’Impressionismo, dal punto di vista
della percezione dell’associazione dei colori e della resa della vibrazione
della luce? Frammenti di vita quotidiana, istanti di luce che si concretizzano
in evidenza della materia.
Da
un punto di vista teologico, questo raggio della «presenza» che attraversa il
tempo e gli spazi della vita umana sembra percorrere un cammino che condurrà
alla sua sparizione. La luce degli Impressionisti si trasformerà in luce fisica
che illumina gli oggetti, scomponendosi nei diversi colori. Tutto ciò che
l’uomo vede è luce e colore. Che si tratti dell’una o dell’altra, cambiano
continuamente, minuto dopo minuto, secondo dopo secondo, relativamente alla
posizione della sorgente luminosa e al punto di vista dell’artista. Ma se il
raggio di luce scompare, il mondo sarà illuminato soltanto dalla luce
fenomenica, nel suo divenire e nel suo flusso continuo, nella rappresentazione
di un istante tratto dal perpetuum mobile della vita, della
sua atmosfera, della decomposizione e delle vibrazioni della luce a partire
dalla visione dinamica del soggetto. Il fondo oro del Medioevo rappresentava
l’essere nella sua trascendenza e immobilità. La luce fisica e nello stesso tempo
simbolica del Rinascimento rappresentava una realtà in cui l’Essere e il
fenomeno erano strettamente legati. L’opera del Caravaggio segna una rottura:
se il raggio di luce ha la durata di un istante, la realtà non potrà essere
percepita che nella sua piena autonomia, per diventare spazio della contingenza
e della storia. Si potrebbe parlare di secolarizzazione?
Se
questo raggio di luce passa per la durata di un istante, l’arte rappresenterà
la vita umana in tutta la sua contingenza e temporalità. Il mondo della
sorpresa e del dubbio, dell’uomo alla ricerca di un senso.
Tra i numerosi testi, ci limitiamo
a citare C. BAGLIONI, Le vite de’ pittori, scultori, architetti e intagliatori
dal pontificato di Gregorio XIII dal 1572 fino a’ tempi di Papa Urbano VIII nel
1641, Roma, 1642; G. BELLORI, La vita de’ pittori, scultori e architetti
moderni, Roma, 1672; W. FRIEDLAENDER, Caravaggio Studies, Princeton
(New Jersey), University Press, 1955; G. C. ARGAN, «Il realismo nella poetica
del Caravaggio», in Scritti di storia dell’Arte in onore di Lionello Venturi,
Roma, De Luca 1956; G. MANCINI, Considerazioni sulla Pittura, a
cura di A. MARUCCHI – L. SALERNO, 2 voll., Roma, Accademia Nazionale dei
Lincei, 1956-57; R. LONGHI, Caravaggio, Roma, Editori Riuniti, 1968; M.
MARINI, Caravaggio e il naturalismo internazionale, vol. VI/1,
Torino, Einaudi, 1981, 345-445; M. CALVESI, Le realtà del Caravaggio,
Torino, Einaudi, 1990. Per una lista dei testi fondamentali su Caravaggio
rinviamo a M. CINOTTI, Caravage, Paris, Biro, 1991; M. GREGORI «Caravaggio, La
Tour, Rembrandt, Zurbarán: ombra e luce», in La luce del vero. Caravaggio, La
Tour, Rembrandt, Zurbarán, Cinisello Balsamo (MI), Silvana, 2000.
2 Troppo
lungo sarebbe tracciare il percorso con il quale la letteratura artistica ha
trasformato Caravaggio in un pittore violento, stravagante, ribelle, che,
cancellando ogni idealismo e ricerca di bellezza, si sarebbe consacrato al
culto della realtà, per metterne in evidenza il carattere tragico. Soprattutto
nell’Ottocento, sulla scia dei poètes maudits, Caravaggio è stato trasformato
in pittore «maledetto», precocemente geniale, sempre tentato dalla follia e
dalla violenza, alimentando un’immagine romanticamente fantasiosa. La sua
assenza di pregiudizi e la sua libertà di fronte alle interpretazioni dei
valori religiosi dell’epoca sono così divenute espressione di
desacralizzazione, di violenza critica verso le disposizioni tradizionali della
Chiesa sull’immagine. La violenza polemica della pittura di Caravaggio
dev’essere situata nel contesto del suo ambiente artistico, culturale e
religioso. Secondo i contemporanei, la sua pittura si fonda su un naturalismo
finalizzato all’imitazione diretta della natura, di fatti particolari tratti
dalla realtà umile e semplice del mondo quotidiano. Tuttavia, se da un lato
apprezzano l’abilità a imitare la natura e i suoi colori, dall’altro ne
deplorano la mancanza d’invenzione, di decoro, di disegno e di scienza della
pittura. Secondo queste biografie, le sue rappresentazioni sono volgari e senza
bellezza. Le sue composizioni sono dipinte direttamente sulla tela contro ogni
regola di pittura, sottostimando il valore metafisico del disegno interiore,
dell’idea. Il rifiuto di ogni preoccupazione per la dignità dei personaggi è
all’origine di rappresentazioni deplorevoli e scandalose che non si conformano
che agli aspetti più brutti e volgari della natura. Questi tratti ne faranno
nel XIX secolo un artista che, in rapporto all’atteggiamento contemplativo
dell’arte classica, saprà spogliare la realtà da ogni significato trascendente
per denunciarne il carattere di violenza e di sofferenza. Caravaggio costituirà
un punto di riferimento per il Seicento. La sua pittura esplorerà soluzioni
difficili e radicali che saranno riprese dai suoi seguaci ma, spesso, soltanto
nei suoi aspetti più esteriori e superficiali. L’opera di Caravaggio ha bisogno
di un approccio critico, che tenga conto di diversi aspetti teologici e
filosofici, che solamente in questi ultimi anni sono stati affrontati in modo
significativo.
3 La
storia della cappella è ricca di vicissitudini. Acquistata nel 1565 da Matteo
Contarelli (il francese Matthieu Cointrel), la tela è dedicata all’evangelista
Matteo. Caravaggio intervenne tra il 1599 e il 1602, grazie all’appoggio del
cardinale Francesco Maria del Monte, rappresentante italiano della nazione
francese. Per la bibliografia sugli studi della Cappella Contarelli, rinviamo a
D. PONNAU, Caravage. Une lecture, Parigi, Cerf, 1993, 130.
4 Per
le vicende contrattuali della decorazione della cappella cfr M. MARINI, Caravaggio,
«pictor praestantissimus». L’iter artistico completo di uno dei
massimi rivoluzionari di tutti i tempi, Roma, Newton & Compton, 2001,
431-441.
5 A
partire dalle somiglianze tra il volto di Matteo e i ritratti di Enrico IV, re
di Francia, il dipinto è stato interpretato come conversione del re francese
dal movimento religioso degli ugonotti alla fede cattolica. Dobbiamo ricordare
che la chiesa di San Luigi è la chiesa nazionale dei francesi (anche i costumi
dei personaggi rappresentati da Caravaggio sono “alla francese”). Riferimento
esplicito all’attualità degli avvenimenti che vedono al centro l’editto di
Nantes del 1598, secondo il quale Enrico IV concede ai sudditi la libertà di
coscienza? Cfr V. FANTUZZI, «La morte per decapitazione nei dipinti del
Caravaggio. Una conversazione con Dario Fo», in Civ. Catt. 2004 II 259-272.
6 Cfr
E. PANOFSKY, La prospettiva come forma simbolica e altri scritti,
Milano, Feltrinelli, 1987.
7 Cfr
P. GISEL, La création. Essai sur la liberté et la nécessité, l’histoire
et la loi, l’homme, le mal et Dieu, Genève, Labor et Fides, 1980.
8 Cfr
G. A. DELL’ACQUA – M. CINOTTI, Il Caravaggio e le sue grandi opere da
San Luigi dei Francesi, Milano, Rizzoli, 1971.
9 Cfr
U. ECO, Il problema estetico in S. Tommaso, Cuneo, Edizioni di
Filosofia, 1956; J.-M. TÉZÉ, Théophanie du Christ, Paris, Desclée, 1988; C.
RAYMOND, Sagesse de l’Art, Paris, Méridiens Klincksieck, 1987.
10 Vedi,
per esempio, G. P. LOMAZZO, L’Idea del Tempio della Pittura,
Milano, 1590.
11 Cfr
M. CALVESI, Le realtà del Caravaggio, Torino, Einaudi, 1990.
Immagine: La vocazione di Matteo, Caravaggio
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