delle creature
ci insegna a vivere
“senza misure”
-di
GIUSEPPE CAFFULLI*
Abitare
il mondo non possederlo
Francesco
d’Assisi si chiamava in realtà Giovanni di Pietro di Bernardone. Il nome «
Francesco» gli fu dato dal padre, ricco mercante di stoffe, forse per via dei
suoi rapporti commerciali con la Francia. Francesco nasce e cresce in un
ambiente di mercanti e commercianti, tra botteghe, tessuti e bilance. Impara
fin da piccolo il valore delle cose, il linguaggio dello scambio, la logica del
guadagno. Sa misurare, valutare, contrattare. La sua formazione è legata al
mondo degli affari e alla mentalità borghese che, nel XIII secolo, si afferma
con forza nelle città.
Non
si può non tenere conto di questo aspetto per capire fino in fondo la
radicalità della scelta di Francesco. Quando sceglie la povertà, non compie
solo un gesto spirituale, ma un atto di rottura con la cultura mercantile del
misurare, del valutare, del contrattare, del guadagnare... Si spoglia nudo
davanti al vescovo e alla città, restituisce tutto al padre, rinuncia a ogni
proprietà: un gesto simbolico che segna il rifiuto della «logica economica»
nella vita che sta intraprendendo. La sua fede è imitazione concreta di Cristo
povero, non solo nella parola, ma nella forma di vita. Proprio perché conosce
bene la misura delle cose Francesco sceglie di vivere senza misura, nel dono
totale, sottraendosi a ogni calcolo e alla logica dello scambio, del potere e
del denaro.
Se
rileggiamo in questa luce il Cantico delle Creature appare
chiara la distinzione, implicita ma radicale, tra l’abitare e il possedere. San
Francesco non celebra la natura come qualcosa da sfruttare, da soggiogare, da
ridurre a oggetto, bensì come realtà vivente con cui intrattenere relazioni di
fraternità. Il Sole, la Luna, il Fuoco, l’Acqua, la Terra – tutte le creature
sono chiamate fratello o sorella. Il linguaggio del Cantico non
è metaforico, ma teologico: ogni creatura partecipa della stessa origine, è
segno della presenza del Creatore e ha una sua dignità intrinseca.
In
questa visione, abitare il mondo significa riconoscere la propria collocazione
all’interno di una rete di relazioni. Significa vivere di ciò che il Creato
offre con gratitudine, sfuggendo all’ansia dell’accumulo. L’abitare è legato al
rispetto, all’ospitalità e alla cura; il possedere, invece, genera distacco,
alienazione, competizione.
Il
linguaggio di Francesco è pervaso da un senso di meraviglia. Ogni creatura è
lodata per ciò che è, non per l’uso che se ne può fare. Il Sole, la Luna,
l’Acqua, la Terra non sono elementi da sfruttare ma realtà che esistono in sé,
con la loro bellezza e la loro voce. Questo stupore è il contrario
dell’atteggiamento consumistico, che riduce tutto a risorsa da consumare,
esaurire o merce da scambiare.
Nel Cantico, l’economia
del dono sostituisce quella dell’appropriazione. Se tutto è dono, nulla è
veramente posseduto. L’uomo non è il vertice della creazione ma il fratello del
Sole e della Luna, perché ad esse accomunato dall’unico Padre Creatore cui solo
«se konfane le laude et onne benedictione». Insomma, il Cantico propone
un’etica dell’interdipendenza e della fraternità cosmica.
Ora,
potrebbe sembrare un azzardo, come accennavo all’inizio, ma credo che il Cantico si
offra come un sorprendente manifesto contro l’idolatria contemporanea. Dove
l’economia del desiderio, con i suoi idoli, ha sostituito il senso del limite e
il marketing ha colonizzato con i suoi «fantasmi » l’immaginario (fantasmi che
spingono a desiderare oltre il desiderabile), il Cantico appare
come una contro-narrazione potente: non siamo padroni del mondo, ma ospiti.
Una
critica all’idolatria del nostro tempo
L’idolatria
contemporanea non è fatta di vitelli d’oro o divinità pagane, ma di beni di
consumo, ideologia del successo e della produttività. È un’idolatria sottile,
pervasiva e perversa, che trasforma i mezzi in fini e confonde l’essere con il
possesso. In questa prospettiva, la casa non è più luogo delle relazioni
affettive ma status symbol; il lavoro non è più servizio ma
strumento di affermazione; la natura non è più madre ma risorsa da spremere. Il Cantico
delle creature smaschera queste idolatrie proponendo una logica
opposta: l’essere invece dell’avere, la relazione invece del dominio, la nostra
finitezza come benedizione. Il mondo non è un supermarket a nostra
disposizione, ma un mistero da abitare. L’uso strumentale della Creazione è una
forma di idolatria perché mette l’uomo al centro, come misura di tutte le cose,
cancellando ogni riferimento al Creatore e alla gratuità del dono. San
Francesco, invece, restituisce la centralità a Dio, lodandolo per tutte le
creature, non al posto loro. È il rifiuto umile di un antropocentrismo
arrogante, che invita a riconosce il valore della realtà che ci circonda oltre
la sua utilità.
Nell’era
del riscaldamento globale, della crisi ecologica che segna una frattura tra
uomo e natura, il Cantico delle creature è più attuale che
mai. Non è solo un testo spirituale, ma un manifesto etico e culturale che
propone un altro modo di «abitare» il mondo. Rileggere oggi il Cantico – a
scuola, nelle università, nei gruppi, nelle parrocchie ma anche in famiglia –
significa riscoprire la bellezza del piccolo, la forza della semplicità.
Significa imparare a ringraziare invece di pretendere, a contemplare
invece di possedere. San Francesco, uomo del Medioevo ma profeta del
futuro, ci invita in sostanza con il Cantico a un cambiamento
radicale di sguardo. Non è un testo per devoti baciapile, ma una bussola
esistenziale capace orientarci nelle secche dell’idolatria consumistica.
In
un mondo che ci divora e si divora, il Cantico è un invito a lodare, ad
abitare, a custodire. A riscoprire che tutto è dono. E ciò che è dono non si
possiede, ma si accoglie.
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