giovedì 17 luglio 2025

INDICAZIONI VECCHIE E NUOVE

  


Nuove indicazioni, 

vecchie = progressiste 

e nuove = di destra? 

Calvani: “Meglio parlare di evidenze sperimentali. 

Vi spiego le criticità delle vecchie e delle nuove”

Di Anselmo Penna

 

In questo intervento, Antonio Calvani – già Professore ordinario di Didattica e Pedagogia speciale e Direttore scientifico della Società S.Ap.I.E. – propone una riflessione critica e documentata sul dibattito in corso riguardante le nuove Indicazioni nazionali per il curricolo. Calvani denuncia il rischio di derive ideologiche e dogmatiche, esortando a un confronto basato su evidenze scientifiche e dati empirici. Evidenzia le fragilità delle precedenti Indicazioni – troppo generiche, scarsamente ancorate ai saperi disciplinari e disallineate rispetto agli strumenti di valutazione nazionale – e rileva le criticità emergenti nelle nuove formulazioni, giudicate retoriche, ambiziose e affette da residui di “pedagogia ingenua”. A partire dai dati Invalsi e Pisa, l’autore mette in luce una profonda crisi delle competenze di base degli studenti, denunciando il sovraccarico di progetti scolastici, il disorientamento metodologico e l’impoverimento delle pratiche didattiche fondamentali. L’intervista si chiude con un appello per una scuola più essenziale, guidata dalla ricerca evidence-based, e capace di recuperare rigore, profondità e senso critico, al di là di mode e slogan.

Prof. Calvani che idea si è fatta del dibattito in corso?

Mi sembra inficiato da assunti pregiudiziali. Le ideologie sono cornici importanti, nessuno può farne a meno ma non dovrebbero diventare gabbie per una assertività dogmatica. Le posizioni dovrebbero essere sostenute da argomentazioni razionali e magari, essendo oggi più possibile di ieri, anche da evidenze sperimentali.

Presentare le nuove Indicazioni come “di destra”, e dunque da rigettare in quanto tali, a fronte delle vecchie a cui ci si dovrebbe ricollegare perché espressione di una ideologia progressista (a parte che se qualcuno verificasse le appartenenze ideologiche di chi sta lavorando alle nuove potrebbe scoprire che sono ben diverse rispetto a quelle del governo in carica), è espressione di un cliché preconcetto.

I problemi da affrontare nella scuola sono rilevanti, trasversali, e si sono radicati nel tempo. E le vecchie e nuove Indicazioni vanno valutate nel merito, senza sconti, considerando quanto siano e potranno essere capaci di confrontarsi con questi problemi reali.

Purtroppo, ministri di qualunque colore politico e le stesse commissioni di esperti hanno pochi strumenti di analisi e possono incontrare difficoltà a staccarsi da un mainstream culturale e anche dai riferimenti propri di una pedagogia ingenua, che li imbrigliano e determinano poi le decisioni della politica scolastica ripetendo spesso errori già visti nel tempo.

Si dovrebbero però intanto condividere tre punti di partenza:

a.    -  avvicinarsi quanto più possibile al mondo reale lasciando da parte sogni e desiderata;

b.   -  ammettere che si può avere sbagliato nelle scelte passate e che anche una tradizione di atteggiamenti e pratiche che ci sono apparse valide, possano essere state fonte di errori;

c.   - abbandonare una volta per tutte il solito logoro ritornello “autoreferenziale”: Noi abbiamo la scuola più bella del mondo, noi facciamo tante cose, non abbiamo bisogno di controlli esterni, Invalsi, Pisa-Ocse e così via…

NNo! Tutt’altro, la nostra scuola ha criticità forse anche maggiori di quanto si sia sinora sospettato, abbiamo assoluto bisogno di strumenti di confronto e di valutazioni esterne per uscire dal guado.

Quale è la sua valutazione delle vecchie Indicazioni e delle nuove?

Ho salutato con favore l’iniziativa di una riformulazione delle vecchie -fino ad un anno fa sembravano un tabù intoccabile- e anche che questa avvenisse all’insegna di una più robusta presenza dei disciplinaristi. Sono il prodotto culturale di un’epoca e in quanto tali vanno riconosciute e se vogliamo, anche apprezzate, ma non sono da rimpiangere avendo diversi difetti. Hanno preteso di indicare target di apprendimento (obiettivi e competenze, con un’enfasi particolare sulle seconde) senza una adeguata riflessione su come si definiscano e valutino questi concetti, presentando al loro posto solo generiche attività didattiche; hanno sottovalutato l’importanza dei saperi disciplinari (soprattutto nelle Scienze, e in questo forse sono corresponsabili del tracollo che i dati Pisa-Ocse ci mettono dinanzi), non hanno frenato adeguatamente un processo più vasto e pervasivo di concezioni e pratiche di pedagogia ingenua già diffuse da tempo.

Ci sono poi aspetti indiretti. Lasciando in forma così generica gli obiettivi, si è anche prodotto e mantenuto un gap con le prove Invalsi (che hanno dato una delle possibili interpretazioni di quei target). Ciò ha generato ansia e frustrazione in scuole e insegnanti, che non sanno bene dove orientare la loro programmazione e vedono con timore le prove Invalsi come una sorta di giudizio poco prevedibile e sconnesso dal proprio operato.

Circa le nuove Indicazioni, conviene aspettare la fine della revisione in corso per valutarle, sperando in una significativa riscrittura. Non è affatto detto che questi problemi siano affrontati con maggiore chiarezza. Nella prima formulazione risultano molte criticità: tratti evidenti di retorica, una visione dell’infanzia che non coglie le dimensioni più recenti che la ricerca ha portato in luce, parti debordanti e, a mio parere inapplicabili, come le ibridazioni ecc., altri tratti residuali di pedagogia ingenua.

A titolo puramente personale avrei preferito una scelta di fondo più coraggiosa orientata per un testo più asciutto ed essenziale. Anche il termine competenza, che considero fonte di confusione, avrebbe potuto essere eliminato. Sul piano tassonomico può essere sufficiente parlare di conoscenze di superficie (conoscenze soprattutto fattuali o dichiarative) e di conoscenze profonde (applicazioni, estensioni, usi di livello cognitivo più alto delle prime).

Inoltre, un testo di Indicazioni dovrebbe rendere chiaramente riconoscibili gli obiettivi minimi a cui tutti devono arrivare, lasciando poi per il resto maggiore libertà all’insegnante.

La scuola verte in situazioni di forte criticità. A cosa si riferisce con questa espressione?

Dobbiamo chiederci quali indicatori possiamo assumere per avere il “polso” dei risultati scolastici. Senza qui stare a ricordare le indicazioni Invalsi e Pisa-Ocse che dovrebbero essere analizzate con maggiore cura e che saltuariamente balzano all’attenzione dell’opinione pubblica, per poi essere dimenticate, abbiamo già richiamato in un altro intervento (Orizzonte scuola, 10 apr. 2025) due test che dovrebbero far riflettere, il primo concernente una prova di conoscenze basilari di fisica, il secondo ricavato da dati Invalsi stessi sulla riflessione linguistica; da entrambi emergono carenze che era difficile immaginare; su temi fondamentali di fisica la maggioranza degli alunni mantiene le conoscenze ingenue che aveva prima di aver studiato quegli argomenti e, per portare un esempio clamoroso, quasi nessuno in una scuola media sa correttamente spiegare da cosa dipenda l’alternanza del giorno e della notte; in modo quasi speculare, dal secondo test si ricava come quasi nessuno sappia riconoscere una proposizione dipendente, trovare il soggetto in una frase in cui è sottinteso, decidere se un “che” è soggetto o complemento oggetto e cose simili.

Se i risultati sono di questo tipo, e saremmo ben lieti se venissero smentiti, non sono forse indicativi di un vero e proprio disastro che è andato e va aggravandosi nella disattenzione di tutti? Quali previsioni si possono fare sulla formazione futura di giovani che escono con questa preparazione dalla scuola secondaria di primo grado, per non chiederci quali scienziati questo Paese immagini per il futuro di mettere in campo nelle sfide internazionali da affrontare.

Questo basta intanto per fornire qualche caveat urgente alle scuole e agli insegnanti di buon senso: si facciano controlli sistematici su aspetti analoghi a quelli segnalati relativi ad ogni ambito disciplinare. Gli alunni sanno riconoscere in un mappamondo le aree geografiche più importanti? Sanno ricordare e situare sulla linea del tempo i principali fenomeni storici studiati in precedenza? Quale è il loro livello lessicale? E così via.

Quali sono le cause principali di queste criticità?

A mio avviso il fattore più importante è il sovraccarico a cui sono sottoposti scuole, insegnanti e alunni. Se vogliamo migliorare la scuola dovremmo iniziare una battaglia culturale coraggiosa, contro corrente nei riguardi del sovraccarico, che non accenna a decrescere ma appare alimentato da una smania irrefrenabile di “innovare” (assumendo che innovare significhi tout court migliorare, il che è smentito quasi sempre). Un fiume di progetti sommerge la scuola da decenni (ora si è anche intensificato con i fondi del PNRR), progetti che non vengono mai seriamente valutati e senza che abbiano mai lasciato un sedimento di pratiche didattiche migliori.

A seguito di ciò la didattica quotidiana si presenta ormai come un continuo mordi e fuggi, un’occhiata e via, tutto in superficie, sempre di corsa, senza memorizzare. È una scuola che vede il trionfo dei pensieri veloci rispetto a quelli lenti, per dirla con Kahneman. È saltata la meccanica fondamentale dei processi di comprensione e di studio: fare letture riflessive, sintetizzare, riassumere, sono aspetti che in ogni classe dovrebbero ricevere la massima attenzione ma che sono assai poco praticati. Il “ripasso”, non inteso in una forma banalmente mnemonica e nozionistica, ma come operazione metacognitiva per cui si ritorna a distanza di tempo su quanto già studiato riorganizzando in memoria le conoscenze già apprese in forme di migliori sintesi, è uno degli aspetti che la ricerca ha riconosciuto della massima importanza. Ma quanto viene praticato in una scuola che corre sempre a cambiare, anche per paura di annoiare gli alunni?

Ha usato più volte l’espressione “pedagogia ingenua”. Cosa intende?

La ricerca in educazione si articola in diversi settori e non mancano certo lavori importanti sul piano filosofico, storico, mentre più debole è rimasta in Italia, a differenza di altri Paesi, la ricerca empirica e sperimentale.

Quello che arriva nelle pratiche didattiche sono spesso banalizzazioni di teorie che danno luogo a dannosi fraintendimenti. Se ne potrebbe fare una lunga lista. Per fare un esempio, una formuletta che si sente ripetere come il learning by doing, attribuita a Dewey, se fosse presa sul serio significherebbe immaginare che gli alunni possano arrivare a scoprire autonomamente quanto è stato imparato nel corso dell’umanità. Un altro ritornello di vecchia data è quello per cui bisognerebbe “abolire la lezione frontale”, quando tutte le evidenze più consolidate dimostrano come le scuole migliorano quando se ne migliora qualità.

Un riferimento importante come il costruttivismo è reso oggetto di cattive applicazioni: chiunque si occupa di pedagogia non può non essere costruttivista, nel senso di riconoscere che l’apprendimento muove sempre da schemi e preconoscenze già possedute e va visto come una ristrutturazione di questi schemi originari; però su questa base si è reinserita la fiumana carsica delle ingenuità di origine attivistica che periodicamente riemerge, per le quali andrebbe eliminata se non ridotta a qualche suggerimento la guida istruttiva e lasciata ampia autonomia agli alunni che dovrebbero soprattutto apprendere con pratiche di scoperta attiva da soli o in gruppi, magari con le nuove tecnologie, atteggiamenti questi che sono stati ormai definitivamente riconosciuti come causa di insuccessi, se non di veri e propri disastri educativi.

Anche l’interdisciplinarità è espressione di una pedagogia ingenua?

Certo. È una delle trappole in cui le nuove Indicazioni sono inesorabilmente cadute (ma del resto come sfuggirne se fanno parte dell’ultimo degli idola tribus dei nostri tempi, le STEM-STEAM)?

Ritengo che impiegare questi concetti prima del livello di una laurea magistrale in ambito scientifico sia una sostanziale mistificazione e una ulteriore causa di confusione. Le STEM vorrebbero esaltare la cultura di un ingegnere moderno, ma praticate già alla secondaria di secondo grado possono portare solo, nella migliore dei casi, a formare un modesto bricoleur (per usare la contrapposizione di Levi Strauss sui due modelli culturali).

Se ancora si scende a livelli più bassi ancora peggio.

Il tema meriterebbe una riflessione più critica, se ce ne fosse tempo e disponibilità. È ragionevole parlare di interdisciplinarità quando si incontrano criticità di base come quelle che abbiamo indicato? Risultano davvero convincenti quelle prove orali negli esami al termine della secondaria di primo grado in cui l’alunno “recita” un argomento a piacere con riferimenti interdisciplinari? O non sono vacui esercizi di retorica e un modo per stendere un velo pietoso su una reale inconsistenza dei saperi di base? Cosa accade quando il commissario, al di là del tema spesso altisonante scelto dal candidato, si sofferma a chiedere di spiegare uno qualunque dei termini o concetti che l’alunno ha utilizzato?

Tra chi l’interdisciplinarità la pratica sul serio (scienziati, professionisti), ce n’è qualcuno che sia arrivato a quel livello senza essere passato da una solida preparazione interna alla/e discipline?

Uno studioso come Ong ha dimostrato il significato profondo dell’avanzamento del pensiero scientifico con l’avvento dei manuali (testi in grado di recintare in modo coerente e esaustivo un sapere chiuso) rispetto a forme più interdisciplinari, ma scientificamente assai più gracili quali quelle dei saperi medievali o di altri modelli più primitivi. L’interdisciplinarità praticata da soggetti inesperti delle discipline non può che produrre futili accostamenti tra le idee ingenue dei bambini da cui ogni apprendimento non può prescindere.

È un altro portato della pedagogia ingenua anche sottovalutare l’importanza dei manuali. Un buon manuale rimane il medium più potente per consentire in tempi veloci la trasmissione dei saperi più importanti che l’umanità ha acquisito. Chiunque abbia incontrato nella propria esperienza scolastica un buon manuale disciplinare non può non riconoscere la validità insuperabile di questo strumento ed essere grato al suo autore. Vedo che però le nuove generazioni vengono private di questa fondamentale esperienza. I testi scolastici hanno oggi poco dei buoni manuali di una volta. Giganteschi e dispersivi, non invitano certo ad essere posseduti, riesaminati, interiorizzati. E gran parte dell’apprendimento si svolge attraverso il frammentismo delle informazioni tratte da Internet.

Lei si occupa di Evidence-based education da anni. Cosa pensa che di positivo possa venire da questo orientamento?

L’Evidence-based education non va considerata un’etichetta o una moda; in primo luogo, implica un atteggiamento mentale che invita a confrontarsi con le acquisizioni fondamentali a cui è arrivata la ricerca internazionale a seguito di bilanci sistematici (metanalisi) che fanno il punto sui diversi problemi dell’apprendimento e dell’istruzione comparando anche decine di sperimentazioni.

Ci sono diversi centri nel mondo come l’Education Endowment Foundation (EEF), che forniscono anche suggerimenti operativi alle scuole, spiegano come fare un buon programma con alte probabilità di successo, danno esempi e consigli sugli errori da evitare. Da questa cultura si impara anche come le scuole devono e possono procedere verso il miglioramento progressivo praticando forme di sperimentazioni sostenibili e migliorabili ed evitando di andare dietro agli slogan di moda.

Nell’ambito delle acquisizioni basate su evidenze, include anche la valutazione formativa, che è oggetto di discussione tra Ianes e Zanniello?

Sì. La valutazione formativa è una delle acquisizioni scientifiche più importanti che ha ricevuto alte conferme negli ultimi decenni. Alla su base c’è il concetto di feed-back, un’informazione che deve fare immediatamente capire ad un soggetto a che punto è in un percorso rivolto ad un obiettivo e cosa deve fare per avvicinarsi al suo conseguimento. È un concetto che va però collegato alla chiarezza degli obiettivi e a un sistema di complicità che si deve generare tra alunni e insegnante, all’interno del quale possono e debbono anche essere inseriti obiettivi sfidanti.

Speriamo che nelle nuove Indicazioni abbia adeguato risalto. Ma questo riferimento è stato introdotto in Italia da Domenico Vertecchi già ben cinquant’anni fa (La valutazione formativa, 1976). Nelle vecchie indicazioni, del resto poco interessate ad ogni intervento sugli studenti, che si vorrebbe ora difendere, non ce n’era affatto presenza.
Cosa pensa di Ianes che dice che le nuove indicazioni sono piene di paure

Mi sembra che semmai il problema sia proprio l’opposto, sono troppo ambiziose. L’immagine poi dei giovani che Ianes presenta sta nel mondo dei desiderata, non nella realtà.

Se poi si parla delle tecnologie verso cui si dovrebbe esser aperti e fiduciosi, occorrerebbe una visione più articolata. È una tematica multidimensionale che dovrebbe essere analizzata facendo gli opportuni distinguo, anche riconoscendo cosa è veramente utile e che rimane non utilizzato. C’è un aspetto che non mi incute paura, bensì orrore e pena allo stesso tempo.

È questo, infatti, quello che provo quando vedo una coppia di adolescenti su una panchina intenti ciascuno a guardare il proprio smartphone. Non ci si rende conto abbastanza del disastro generazionale in atto: giovani con il volto sempre abbassato, che non guardano più negli occhi, depauperati nella loro capacità di provare empatia verso gli altri. Prima di fare corsi di educazione socio-affettiva occorrerebbero sistematici interventi di collaborazione tra scuola e famiglia ed anche leggi proibitive più incisive e severe per mettere un argine contro gli effetti assai pericolosi di queste pratiche sempre più pervasive che, se lasciate a se stesse, tenderanno ad aggravarsi.

 Orizzonte Scuola


 

Nessun commento:

Posta un commento