IMMUNITA'
DIGITALE
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di Marinella Perroni
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Confesso
di essermene stupita, e questa è sicuramente la prova che essere boomer è un
condizionamento inesorabile.
Perché
riservare un evento giubilare missionari digitali e influencer cattolici, una
categoria specifica, quando poteva forse rientrare in quello degli addetti alla
comunicazione?
Non
entro nel programma, che ha certamente un suo interesse specifico, dato che
mira ad affrontare il tema della missione al tempo delle reti digitali, oltre
che a richiamare a responsabilità il crescente numero di missionari digitali
anche cattolici. Vorrei solo prendere lo spunto da qui per una riflessione a
margine che non ritengo però marginale.
Quanto
mi fa pensare è il repentino passaggio di testimone che c’è stato dalle agenzie
educative – la famiglia, la scuola, le Chiese – agli influencer. Figure che non
sono certo nate oggi, anche nelle Chiese. In molti abbiamo fatto l’esperienza
di parroci che si servivano delle omelie domenicali per suggerire precise
indicazioni di voto o di cardinali che hanno convinto a non andare a votare a
un referendum.
Il
cortocircuito fra libertà e aggressione
Che
la propaganda sia una delle forze che muovono il mondo non è certo invenzione
dell’era digitale, mentre lo è l’illusione che i propagandisti di ieri fossero
schiavi di un’ideologia mentre quelli di oggi sarebbero liberi e aprono strade
di libertà.
Non
intendo qui, però, inoltrarmi nel complesso tema della propaganda. Quanto mi
interessa è che il mondo della comunicazione, sia quello della carta stampata
sia quello del web, è diventato il luogo privilegiato del cortocircuito tra
libertà di espressione e aggressività verbale.
E
ha creato una sorta di “grande fratello influencer”. Più che per le cose che
comunica, per “come” le comunica. Non coincide con una persona, ma è piuttosto
un clima, una sottile ma potente forza motrice di modi di pensare e di sentire
collettivi.
A
una diffusa “mala educazione” digitale che non soltanto distorce la realtà, ma
inquina anche la comunicazione perché istilla false pretese e paure, paghiamo
ogni giorno un prezzo molto alto.
Mi
limito a un esempio, che però mi sta particolarmente a cuore perché riguarda un
personaggio pubblico a cui sono legata da un’amicizia carica di stima. È però
solo uno tra i tanti, e riferirmi a lui mi permette soltanto di mettere a fuoco
il meccanismo perverso che viene oggi contrabbandato come libertà di
espressione.
Mirare
al bersaglio: Antonio Spadaro
Nel
giro di due giorni, diversi quotidiani (Il Giornale, Libero, Il Tempo, Il
Foglio) e alcuni siti cari al tradizionalismo cattolico (Silere non possum,
Stilum curiae) hanno preso di mira padre Antonio Spadaro, il gesuita che è
stato negli ultimi dodici anni il reporter privilegiato di papa Francesco, il primo papa gesuita della storia.
Affinità,
amicizia, reciproca stima hanno fatto sì che padre Spadaro mettesse il suo
mestiere di giornalista a servizio di un pontificato come quello di Bergoglio il cui magistero si è articolato in un ricco
intreccio di parole e gesti.
La
capacità interpretativa di Spadaro ha provato a rendere conto di questo
intreccio e soprattutto del suo impatto, ma anche di rintracciarne
l’ispirazione e suggerirne le finalità. Si può ritenere discutibile il modo in
cui Spadaro ha assolto questo compito e io stessa ho avuto più volte occasione
di discuterne con lui. Ma il problema non è questo.
Quello
che colpisce è che, con precisione quasi chirurgica, un gruppo di soggetti
accreditati all’informazione e, per di più, all’informazione vaticana, più
vicini però ai mitici “leoni da tastiera” che non a genuini opinion makers,
abbiano coinciso nei tempi e nei modi per lanciare un’offensiva contro Spadaro
che gli riservava, di fatto, solo insulti.
Posso
supporre che, se fosse ancora tra noi, papa Francesco direbbe al suo confratello «se la
prendono con te, ma ce l’hanno con me». Fatto lampante, peraltro, perché gli
stessi giornalisti non hanno lesinato offese verbali tanto gravi quanto grevi
anche nei suoi confronti durante il suo pontificato: Francesco è stato il primo pontefice a confrontarsi
frontalmente con la manipolazione della realtà al soldo di interessi settari
tipica dell’epoca dei social e con un complottismo che, per quanto ridicolo, è
stato però quanto mai penetrante.
Una
situazione con cui anche Leone XIV dovrà presto fare i conti e che in fondo ha,
però, anche un suo lato illuminante. Ha, infatti, svelato il segreto profondo
di molti cuori, dato che anche chi si è sempre professato difensore ad ogni
costo della figura in quanto tale del Pontefice romano, perché a lui solo va
tributato onore e riconosciuta obbedienza, si è trasformato in professionista
del dileggio, della provocazione, dell’oltraggio nei confronti di un papa che
si permetteva di non rispondere alle sue aspettative. Ma torniamo a
Spadaro.
I
suoi detrattori sono partiti tutti nello stesso momento e tutti con lo stesso
tono. Poco importa se spinti da una medesima occasione, l’annuncio della
prossima uscita di un suo libro, oppure per un ordine di scuderia dato che, in
fondo, nessuno di loro è entrato nel merito del libro, ma tutti si sono
limitati solo a insultarne l’autore. Il tentativo di Spadaro di rilevare una
linea di continuità tra Bergoglio e Prevost a partire dal magistero del primo e da
interessanti dichiarazioni fatte dal secondo in un’intervista di alcuni mesi fa
può essere legittimamente giudicato una pretesa inconsistente.
Sappiamo
tutti, infatti, che l’assunzione di un ruolo può determinare un cambiamento
decisivo nelle presone ma, soprattutto, dodici anni di pontificato non sono
un’unità di misura paragonabile a idee espresse in un’intervista, per quanto
seria essa possa essere.
Io
stessa, d’altro canto, ho discusso con Spadaro sulla sua pretesa,
eccessivamente cattolica a mio avviso, di stabilire sempre e comunque legami di
continuità anche quando farebbe invece molto bene riflettere su decisivi
elementi di rottura: mi aveva già lasciata perplessa, in fondo, l’opinione di
Benedetto XVI quando, parlando con il clero romano, aveva sostenuto che
l’ermeneutica della continuità e non quella della discontinuità dovevano
guidare il giudizio sul Vaticano II.
Le
idee di Spadaro sono del tutto discutibili, ma magari, prima, è necessario
leggerle e ancora più necessario è provare ad elaborare un’argomentazione
critica.
Ma
proprio qui viene il punto che mi sta a cuore mettere in risalto. Perché si
passa dalla legittima, anzi del tutto necessaria, possibilità di discutere i
punti di vista alla precisa volontà di offendere le persone? E ci si trasforma
in mestatori che volutamente hanno come unico scopo quello di sfregiare
l’immagine di una persona?
Si
tratta di un processo che dovremmo cercare di mettere sempre più a fuoco in
questa nostra epoca in cui in troppi pretendono di influenzare i sentimenti
prima ancora che le idee.
Quando
il livore detta legge
Il
caso Spadaro mi sta a cuore per amicizia, ma soprattutto perché è indicativo
del clima che, purtroppo, sta diventando tossico anche nella mia Chiesa. Alla base di questo meccanismo perverso che sposta
l’attenzione dalla discussione sulle idee all’oltraggio delle persone c’è un
incontenibile livore.
Nei
confronti di papa Francesco ha accompagnato tutti i giorni del suo
pontificato e alimenta la damnatio memoriae che ha avuto inizio il giorno
stesso della sua morte. Un livore che deve essere cresciuto a dismisura durante
il silenzioso quanto imponente abbraccio di folla che ha accompagnato il suo
ultimo viaggio in papamobile verso il luogo della sua sepoltura.
Se
per molti ha prevalso la commozione, per alcuni specialisti dell’odio seriale
ha invece prevalso il livore, e il livore, si sa, ha grande forza di collante.
Creare un nemico e riservargli sarcasmo, disprezzo, sfregio è chiara
attestazione della volontà di annichilire ciò (o chi) con cui non si sa avere a
che fare.
Le
nostre cronache, d’altro canto, sono piene di sfregi, siano essi nei confronti
delle pietre di inciampo o di monumenti alla memoria di chi è stato ucciso per
le sue idee. Vige il principio: non sei in grado di costruire nulla, sfregia
ciò che qualcun altro ha costruito, non sei in grado di rendere ragione dei
tuoi valori, sputa su quelli di altri.
La
protezione dell’immunità
Ma
c’è qualcosa di ancora più distruttivo, a mio avviso, in questo modo di fare
l’influencer all’arma bianca ed è l’assoluta immunità da cui ci si sente
protetti in nome di un vero e proprio simulacro della libertà di espressione.
Un’immunità che fa pensare.
Quella
parlamentare, prevista dalla Costituzione a tutela dal rischio di ingerenze
dittatoriali, si è ormai trasformata in un privilegio di casta tanto scontato
quanto pericoloso.
L’immunità
digitale, invocata come espressione del più alto valore democratico, la libertà
di espressione, si sta trasformando in un non meno pericoloso corrosivo della
tenuta sociale.
La
libertà di espressione è e resta certamente un diritto fondamentale, ma la
grammatica e la sintassi dell’espressione sono e restano uno dei primi doveri
delle istituzioni, che devono farsene carico.
Nessuno
pensa a una censura imposta dal padrone di turno, ma certamente l’anarchia
delle parole non tutela la libertà né costruisce la responsabilità, ma anzi è
preludio, a volte anche ben orchestrato, di pericolosi irrigidimenti del
potere.
E
sono convinta che la legittimazione silenziosa dell’immunità digitale
contribuisce a trasformare un gruppo umano in un branco, dominato dalla pretesa
di ciascuno di avere ragione piuttosto che dalla capacità di ciascuno di
discutere le ragioni di tutti.
Fonte: SettimanaNews
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