martedì 29 luglio 2025

IL LIVORE DEL BRANCO

 


IMMUNITA'

 DIGITALE

 


-       di Marinella Perroni

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Confesso di essermene stupita, e questa è sicuramente la prova che essere boomer è un condizionamento inesorabile.

Perché riservare un evento giubilare missionari digitali e influencer cattolici, una  categoria specifica, quando poteva forse rientrare in quello degli addetti alla comunicazione? 

 Non entro nel programma, che ha certamente un suo interesse specifico, dato che mira ad affrontare il tema della missione al tempo delle reti digitali, oltre che a richiamare a responsabilità il crescente numero di missionari digitali anche cattolici. Vorrei solo prendere lo spunto da qui per una riflessione a margine che non ritengo però marginale. 

 Quanto mi fa pensare è il repentino passaggio di testimone che c’è stato dalle agenzie educative – la famiglia, la scuola, le Chiese – agli influencer. Figure che non sono certo nate oggi, anche nelle Chiese. In molti abbiamo fatto l’esperienza di parroci che si servivano delle omelie domenicali per suggerire precise indicazioni di voto o di cardinali che hanno convinto a non andare a votare a un referendum. 

 

Il cortocircuito fra libertà e aggressione 

 

Che la propaganda sia una delle forze che muovono il mondo non è certo invenzione dell’era digitale, mentre lo è l’illusione che i propagandisti di ieri fossero schiavi di un’ideologia mentre quelli di oggi sarebbero liberi e aprono strade di libertà. 

 Non intendo qui, però, inoltrarmi nel complesso tema della propaganda. Quanto mi interessa è che il mondo della comunicazione, sia quello della carta stampata sia quello del web, è diventato il luogo privilegiato del cortocircuito tra libertà di espressione e aggressività verbale. 

 E ha creato una sorta di “grande fratello influencer”. Più che per le cose che comunica, per “come” le comunica. Non coincide con una persona, ma è piuttosto un clima, una sottile ma potente forza motrice di modi di pensare e di sentire collettivi. 

 A una diffusa “mala educazione” digitale che non soltanto distorce la realtà, ma inquina anche la comunicazione perché istilla false pretese e paure, paghiamo ogni giorno un prezzo molto alto. 

 Mi limito a un esempio, che però mi sta particolarmente a cuore perché riguarda un personaggio pubblico a cui sono legata da un’amicizia carica di stima. È però solo uno tra i tanti, e riferirmi a lui mi permette soltanto di mettere a fuoco il meccanismo perverso che viene oggi contrabbandato come libertà di espressione. 

 Mirare al bersaglio: Antonio Spadaro 

 Nel giro di due giorni, diversi quotidiani (Il Giornale, Libero, Il Tempo, Il Foglio) e alcuni siti cari al tradizionalismo cattolico (Silere non possum, Stilum curiae) hanno preso di mira padre Antonio Spadaro, il gesuita che è stato negli ultimi dodici anni il reporter privilegiato di papa Francesco, il primo papa gesuita della storia. 

 Affinità, amicizia, reciproca stima hanno fatto sì che padre Spadaro mettesse il suo mestiere di giornalista a servizio di un pontificato come quello di Bergoglio il cui magistero si è articolato in un ricco intreccio di parole e gesti. 

 La capacità interpretativa di Spadaro ha provato a rendere conto di questo intreccio e soprattutto del suo impatto, ma anche di rintracciarne l’ispirazione e suggerirne le finalità. Si può ritenere discutibile il modo in cui Spadaro ha assolto questo compito e io stessa ho avuto più volte occasione di discuterne con lui. Ma il problema non è questo. 

 Quello che colpisce è che, con precisione quasi chirurgica, un gruppo di soggetti accreditati all’informazione e, per di più, all’informazione vaticana, più vicini però ai mitici “leoni da tastiera” che non a genuini opinion makers, abbiano coinciso nei tempi e nei modi per lanciare un’offensiva contro Spadaro che gli riservava, di fatto, solo insulti. 

 Posso supporre che, se fosse ancora tra noi, papa Francesco direbbe al suo confratello «se la prendono con te, ma ce l’hanno con me». Fatto lampante, peraltro, perché gli stessi giornalisti non hanno lesinato offese verbali tanto gravi quanto grevi anche nei suoi confronti durante il suo pontificato: Francesco è stato il primo pontefice a confrontarsi frontalmente con la manipolazione della realtà al soldo di interessi settari tipica dell’epoca dei social e con un complottismo che, per quanto ridicolo, è stato però quanto mai penetrante. 

 Una situazione con cui anche Leone XIV dovrà presto fare i conti e che in fondo ha, però, anche un suo lato illuminante. Ha, infatti, svelato il segreto profondo di molti cuori, dato che anche chi si è sempre professato difensore ad ogni costo della figura in quanto tale del Pontefice romano, perché a lui solo va tributato onore e riconosciuta obbedienza, si è trasformato in professionista del dileggio, della provocazione, dell’oltraggio nei confronti di un papa che si permetteva di non rispondere alle sue aspettative. Ma torniamo a Spadaro. 

 I suoi detrattori sono partiti tutti nello stesso momento e tutti con lo stesso tono. Poco importa se spinti da una medesima occasione, l’annuncio della prossima uscita di un suo libro, oppure per un ordine di scuderia dato che, in fondo, nessuno di loro è entrato nel merito del libro, ma tutti si sono limitati solo a insultarne l’autore. Il tentativo di Spadaro di rilevare una linea di continuità tra Bergoglio e Prevost a partire dal magistero del primo e da interessanti dichiarazioni fatte dal secondo in un’intervista di alcuni mesi fa può essere legittimamente giudicato una pretesa inconsistente. 

 Sappiamo tutti, infatti, che l’assunzione di un ruolo può determinare un cambiamento decisivo nelle presone ma, soprattutto, dodici anni di pontificato non sono un’unità di misura paragonabile a idee espresse in un’intervista, per quanto seria essa possa essere. 

 Io stessa, d’altro canto, ho discusso con Spadaro sulla sua pretesa, eccessivamente cattolica a mio avviso, di stabilire sempre e comunque legami di continuità anche quando farebbe invece molto bene riflettere su decisivi elementi di rottura: mi aveva già lasciata perplessa, in fondo, l’opinione di Benedetto XVI quando, parlando con il clero romano, aveva sostenuto che l’ermeneutica della continuità e non quella della discontinuità dovevano guidare il giudizio sul Vaticano II. 

 Le idee di Spadaro sono del tutto discutibili, ma magari, prima, è necessario leggerle e ancora più necessario è provare ad elaborare un’argomentazione critica. 

 Ma proprio qui viene il punto che mi sta a cuore mettere in risalto. Perché si passa dalla legittima, anzi del tutto necessaria, possibilità di discutere i punti di vista alla precisa volontà di offendere le persone? E ci si trasforma in mestatori che volutamente hanno come unico scopo quello di sfregiare l’immagine di una persona? 

 Si tratta di un processo che dovremmo cercare di mettere sempre più a fuoco in questa nostra epoca in cui in troppi pretendono di influenzare i sentimenti prima ancora che le idee. 

 Quando il livore detta legge 

 Il caso Spadaro mi sta a cuore per amicizia, ma soprattutto perché è indicativo del clima che, purtroppo, sta diventando tossico anche nella mia Chiesa. Alla base di questo meccanismo perverso che sposta l’attenzione dalla discussione sulle idee all’oltraggio delle persone c’è un incontenibile livore. 

 Nei confronti di papa Francesco ha accompagnato tutti i giorni del suo pontificato e alimenta la damnatio memoriae che ha avuto inizio il giorno stesso della sua morte. Un livore che deve essere cresciuto a dismisura durante il silenzioso quanto imponente abbraccio di folla che ha accompagnato il suo ultimo viaggio in papamobile verso il luogo della sua sepoltura. 

 Se per molti ha prevalso la commozione, per alcuni specialisti dell’odio seriale ha invece prevalso il livore, e il livore, si sa, ha grande forza di collante. Creare un nemico e riservargli sarcasmo, disprezzo, sfregio è chiara attestazione della volontà di annichilire ciò (o chi) con cui non si sa avere a che fare. 

 Le nostre cronache, d’altro canto, sono piene di sfregi, siano essi nei confronti delle pietre di inciampo o di monumenti alla memoria di chi è stato ucciso per le sue idee. Vige il principio: non sei in grado di costruire nulla, sfregia ciò che qualcun altro ha costruito, non sei in grado di rendere ragione dei tuoi valori, sputa su quelli di altri. 

 La protezione dell’immunità 

 Ma c’è qualcosa di ancora più distruttivo, a mio avviso, in questo modo di fare l’influencer all’arma bianca ed è l’assoluta immunità da cui ci si sente protetti in nome di un vero e proprio simulacro della libertà di espressione. Un’immunità che fa pensare. 

 Quella parlamentare, prevista dalla Costituzione a tutela dal rischio di ingerenze dittatoriali, si è ormai trasformata in un privilegio di casta tanto scontato quanto pericoloso. 

 L’immunità digitale, invocata come espressione del più alto valore democratico, la libertà di espressione, si sta trasformando in un non meno pericoloso corrosivo della tenuta sociale. 

 La libertà di espressione è e resta certamente un diritto fondamentale, ma la grammatica e la sintassi dell’espressione sono e restano uno dei primi doveri delle istituzioni, che devono farsene carico. 

Nessuno pensa a una censura imposta dal padrone di turno, ma certamente l’anarchia delle parole non tutela la libertà né costruisce la responsabilità, ma anzi è preludio, a volte anche ben orchestrato, di pericolosi irrigidimenti del potere. 

 E sono convinta che la legittimazione silenziosa dell’immunità digitale contribuisce a trasformare un gruppo umano in un branco, dominato dalla pretesa di ciascuno di avere ragione piuttosto che dalla capacità di ciascuno di discutere le ragioni di tutti.

 Fonte: SettimanaNews

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