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giovedì 15 aprile 2021

FRATELLANZA E' PORSI OBIETTIVI COMUNI


Il cardinale  Parolin, segretario di Stato del Vaticano,  è intervenuto all’evento web “Fraternità, Multilateralismo e Pace” incentrato sull’Enciclica “Fratelli tutti”: la pandemia, afferma, spinge a “una reciprocità di rapporti che superi l’isolamento e coinvolga gli Stati, i singoli e gli organismi internazionali”. Tra i promotori dell'evento, la Missione permanente della Santa Sede all'Onu di Ginevra e la Commissione internazionale cattolica per le Migrazioni

 

Adriana Masotti - Città del Vaticano

 

A fare da sfondo all’intervento del cardinale Pietro Parolin all’evento "Fratelli tutti, Multilateralismo e Pace" è la volontà di promuovere il principio del bene comune della famiglia umana per realizzare il quale occorrono un pensiero e un’azione più audaci e creativi. Questo corrisponde all’impegno a cui sono chiamati, osserva il cardinale, i partecipanti all’incontro, direttori generali e alti funzionari dell'Onu a Ginevra, e diversi ambasciatori, ed è lo scopo dell’azione diplomatica multilaterale della Santa Sede, a cui la Fratelli tutti offre un essenziale contributo. Per chiarire il concetto di fratellanza, contenuto nell’Enciclica, il segretario di Stato ritorna all’inizio del pontificato di Papa Francesco quando, appena eletto, disse: “Preghiamo sempre per noi: l’uno per l’altro. Preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza”. Francesco indicava così un “criterio programmatico” decisivo, afferma il porporato, per superare la dicotomia, particolarmente attuale in questo tempo di pandemia, tra “il codice dell’efficienza” e il “codice della solidarietà”:

Infatti, la fratellanza ci spinge ad un “codice” ancora più esigente ed inclusivo: “Mentre la solidarietà è il principio di pianificazione sociale che permette ai diseguali di diventare eguali, la fratellanza è quello che consente agli eguali di essere persone diverse. (…) Nell’azione multilaterale, la fratellanza si traduce nel coraggio e nella generosità per stabilire liberamente determinati obiettivi comuni e per assicurare l’adempimento in tutto il mondo di alcune norme essenziali”.

La destinazione universale dei beni

Il cardinale Parolin elenca le questioni prioritarie della Santa Sede nella declinazione del principio di fratellanza: accesso alla salute, rifugiati, lavoro, diritto internazionale umanitario e disarmo. In tema di salute, il porporato osserva che l’umanità ha sperimentato un iniziale senso di “indissolubile legame” dovuto al diffondersi della pandemia, sentendosi un’unica “comunità mondiale che naviga sulla stessa barca”, ma che oggi questo sentimento ha lasciato il posto alla “corsa al vaccino e alle cure a livello nazionale”. Evidente il gap nelle possibilità di cura tra i Paesi sviluppati e quelli più indietro.

La Santa Sede di fronte ad un problema sistemico, quale quello delle barriere all’accesso alle cure, acuito dall’emergenza attuale, ha offerto una serie di linee guida per affrontare tale questione, ispirate dalla convinzione dell’importanza della fratellanza. In ogni momento, dobbiamo concentrarci sul sottostante principio del servizio al bene comune. Tale approccio è ben esemplificato da San Giovanni Paolo II e dalla sua insistenza sull'“ipoteca sociale”, la quale insiste sul principio della destinazione universale dei beni.

Gli appelli alla globalizzazione della solidarietà: i rifugiati 

Il segretario di Stato vaticano ricorda che gli appelli alla comunità internazionale “per una nuova globalizzazione della solidarietà” sono costanti da parte del Papa e ripresi anche nella Fratelli tutti e osserva che, a 70 anni dall'istituzione dell' Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), il numero e le sofferenze di rifugiati, sfollati e migranti rappresentano ancora “una ferita nel tessuto sociale” mondiale. Quindi prosegue:

Ciò sottintende problematiche umanitarie e sociali profonde. In tal senso, la Santa Sede accoglie la visione di fondo del Global Compact sui rifugiati, che mira a rafforzare la cooperazione internazionale attraverso una condivisione della responsabilità più equa e prevedibile, ricordando al contempo che la soluzione duratura ideale e più completa è quella di assicurare i diritti di tutti a vivere e prosperare in dignità, pace e sicurezza nei propri Paesi d’origine.

Occorre un dialogo sociale più inclusivo

Una conseguenza delle misure di contenimento della pandemia, su cui si sofferma il cardinale Parolin, è poi la crisi del mondo del lavoro con un impatto negativo sul reddito dei lavoratori, specie quelli più vulnerabili. In questo contesto, sottolinea, occorre avviare un dialogo sociale più ampio e inclusivo rispetto alla sua forma tradizionale.

Il coinvolgimento delle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro è fondamentale, ma dovrebbe essere integrato da attori che rappresentano l'economia informale e le preoccupazioni ambientali. Come la Fratelli tutti ricorda “occorre pensare alla partecipazione sociale, politica ed economica in modalità tali ‘che includano i movimenti popolari e animino le strutture di governo locali, nazionali e internazionali con quel torrente di energia morale che nasce dal coinvolgimento degli esclusi nella costruzione del destino comune.

Promuovere il rispetto del diritto umanitario

E c’è un altro fronte, secondo Parolin, su cui c’è bisogno di lavorare, ed è il diritto umanitario. A questo proposito ricorda che Henry Dunant, il fondatore della Croce Rossa, aveva adottato il grido “Tutti fratelli” per incitare al soccorso dei feriti, a prescindere dall’appartenenza ad una o all’altra parte in conflitto. Da lì prese le mosse la sua organizzazione e il porporato afferma che oggi vanno rafforzati la promozione e il rispetto del diritto umanitario che si propone di proteggere la popolazione civile in un contesto di guerra e di bandire armi “che infliggono sofferenze tanto atroci quanto inutili”. Cita le Convenzioni di Ginevra del 1949 che implicitamente riconoscono la fratellanza universale e continua:

La Santa Sede, inoltre, cosciente di omissioni ed esitazioni, spera che gli Stati possano giungere ad ulteriori sviluppi del diritto internazionale umanitario, al fine di tenere conto adeguatamente delle caratteristiche dei conflitti armati contemporanei e delle sofferenze fisiche, morali e spirituali che ad essi si accompagnano, con l’obiettivo di eliminare i conflitti del tutto.

Le armi non garantiscono la pace

L’aspirazione alla pace e alla sicurezza, afferma ancora il porporato, non può “essere soddisfatta soltanto da mezzi militari e meno che mai dal possesso di armi nucleari ed altre armi di distruzione di massa”. I conflitti, inoltre, provocano sempre sofferenze, a tutte le parti:

È in quest’ottica che la Santa Sede incoraggia con convinzione l’impegno degli Stati nell’ambito del disarmo e del controllo degli armamenti verso accordi duraturi sulla strada della pace e, in modo particolare, sul fronte del disarmo nucleare. Se è valida l’affermazione che siamo tutti fratelli e sorelle, come può la deterrenza nucleare essere alla base di un’etica di fraternità e coesistenza pacifica tra i popoli?

Responsabilità individuale e capacità di sentirsi fratelli

Avviandosi alla conclusione, il cardinale Parolin osserva che per invertire la marcia e realizzare davvero un’azione adeguata rispetto ai processi in atto nella comunità internazionale, non è sufficiente una proclamazione d’impegno, ma è necessario predisporre un progetto efficace in grado di rispondere al post pandemia. “L’elemento in più – sottolinea Parolin - è la responsabilità individuale e la capacità di sentirsi fratelli, cioè di far propri i bisogni degli altri attraverso una reciprocità di rapporti che superi l’isolamento e coinvolga gli Stati, i singoli e gli organismi internazionali”. E’ il cammino della fratellanza per il quale il segretario di Stato si augura anche l’evento di oggi costituisca un passo avanti.

 Vatican News

DISCORSO CARD. PAROLIN



 

martedì 8 dicembre 2020

EDUCAZIONE E FRATELLI TUTTI

 Per un nuovo modello educativo fondato sulla fraternità   

 Riflessioni a partire 

dalla Fratelli Tutti

 

Il mondo globalizzato – pensato e costruito essenzialmente dal ricco Occidente – si radica su due presupposti: la priorità dell’individuo da intendere come sganciato dalla comunità che abita e, di conseguenza, una comprensione della libertà slegata da ogni rimando alla responsabilità sociale. Tale profilo culturale, sociale, economico e politico ha generato – oltre alla lacerazione delle nostre città – l’aumento delle paure, delle diseguaglianze, dei poveri e dei migranti. Sin dall’inizio del suo magistero, papa Francesco ha contrapposto a questa cultura dello scarto la prospettiva della centralità dell’uomo e dell’ambiente per il presente e il futuro dell’umanità.

Il tentativo di Bergoglio – mosso da una rilettura cristiana della realtà alla luce di una fede intesa nella sua rilevanza pubblica – non è quello di avviare partiti cattolici bensì di spingere i credenti ad un impegno in politica per sostenere alcuni valori cristianamente ispirati come la libertà, la giustizia, l’educazione, la famiglia, l’attenzione ai poveri e all’ambiente. Così, quello di Francesco non è un tentativo di dominare il potere politico o di gestirlo anche solo in parte ma di iniziare processi a partire dal bene comune. Si tratta di una nuova antropologia sociale e politica fondata sulla promozione della cittadinanza responsabile e dell’educazione integrale.

Anche nella recente enciclica Fratelli tutti, possiamo registrare che il punto di partenza della proposta di Bergoglio risiede sul valore sociale del Kerygma il quale induce i seguaci di Cristo ad annunciare la salvezza non soltanto per le singole coscienze ma anche per le relazioni umane di carattere sociale, culturale, economico e politico. In tal modo la promozione umana è parte costitutiva dell’opera di evangelizzazione dei cristiani nel mondo perché l’annuncio della salvezza in Cristo conduce ad una visione solidale verso la storia concreta delle persone che ricercano la giustizia. Così attraverso una chiesa in uscita – ovvero una comunità estroversa in grado di partorire nella società plurale spazi di fraternità – Francesco ricorda che il cristianesimo è chiamato ad orientare la coscienza dei singoli per influenzare i processi sociali.

Il grande progetto della modernità ha condotto l’uomo al collasso ambientale ma anche a quello finanziario e geopolitico. Nonostante questo, per Bergoglio non tutto è perduto. Infatti, per il pontefice, l’uomo capace di degradarsi fino all’estremo può «ritornare a scegliere il bene e rigenerarsi, al di là di qualsiasi condizionamento psicologico e sociale» (Laudato sì, 205). Per far ciò urgono nuovi processi in grado di cambiare le abitudini e di educare non più all’istinto di sopravvivenza ma al senso di tutela verso le future generazioni. Insomma, abbiamo bisogno di riscoprire l’amore civile e politico che rende tutti i cittadini del mondo dei convocati al bene comune e alla responsabilità collettiva. Da questa tensione verso la fraternità umana nasce – a partire dall’insegnamento sociale di Francesco – un umanesimo popolare frutto di un noi condiviso.

La Fratelli tutti ribadisce la necessità di avviare processi condivisi per evitare ulteriori drammi planetari che oltre a distruggere l’ambiente saranno sempre più destinati a colpire l’uomo. In vista di ciò, l’ultima enciclica si rivolge direttamente alla politica internazionale e locale. Infatti, il pontefice oltre a denunciare la corruzione e l’assenza di un profilo etico significativo nella politica attuale avanza una visione fatta di dialogo, di inclusione e di riforma affinché possa costituirsi un modello educativo e poi socio-politico non più succube dell’individualismo dei popoli ma della forza rigenerante della fraternità.

 www.tuttavia.eu

 

 

martedì 1 dicembre 2020

LA VIRTU' CRISTIANA DELLA GENTILEZZA


 Una riflessione a partire da «Fratelli tutti»

di Andrea Monda

 Tre dei 287 punti che compongono l’enciclica Fratelli tutti il Papa li dedica per parlare del tema della gentilezza. Potrebbe suonare strano: in fondo che c’entra la gentilezza con tutto il resto dell’enciclica? E che senso ha riservarle tutto questo spazio nel drammatico momento storico che il mondo intero sta vivendo? Insomma la cosa lascia pensare e quindi è giusto pensare un po’ a questa cosa qui, questa cosa “strana” che è la gentilezza, un oggetto sconosciuto o almeno dimenticato nel frenetico mondo contemporaneo (e viene da dire che il motivo è proprio per rispondere a questa dimenticanza). Se dunque ci pensiamo con attenzione, la prima domanda che sovviene è quella relativa a Gesù, anche perché l’autore del testo è il vicario di Cristo e ogni cosa che dice, scrive, fa ha come primo e ultimo punto di riferimento proprio la figura di Gesù; e la domanda è: ma Gesù era un uomo gentile? A sentirlo come si scaglia contro gli ipocriti e a vederlo come si costruisce con le proprie mani delle fruste per scacciare i mercanti dal tempio, non viene proprio da pensare alla gentilezza come alla prima delle sue virtù. Eppure.. forse è meglio vedere un po’ più da vicino. E se ci avviciniamo a Gesù troveremo in lui un vero, il vero gentiluomo.

Pensiamo ad esempio alla sua attenzione verso tutti, la cura e la delicatezza con cui si dava a ciascuno che incontrasse lungo la strada. La sua apertura verso i bambini e le donne era così forte, costante e dirompente rispetto ai canoni del tempo da creare sconcerto e disorientamento tra tutti i presenti, anche all’interno della cerchia più stretta dei suoi amici. Ma gli esempi di questa gentilezza abbondano. Quando gli portano un infermo, un cieco o un malato il più delle volte la sua prima domanda è “cosa posso fare per te?” o, ”cosa desideri?”, come potrebbe fare un cameriere o un albergatore che accoglie l’ospite mettendosi al suo servizio. Allora comprendiamo che la gentilezza non è essere affettato ma invece affettuoso, non è amore per il quieto vivere ma per l’inquietudine dell’altro che ho di fronte, non è debolezza ma forza potente che rovescia la logica del potere e la soppianta con quella del servizio. Una forza che è anche resistenza. Pensiamo all’episodio narrato nel diciottesimo capitolo di Giovanni quando Gesù viene schiaffeggiato nel sinedrio durante il processo-farsa da una guardia che, senza alcun vero motivo, lo colpisce violentemente e Gesù gli risponde: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?». Gli esempi che vengono in mente, come quelli appena citati, dimostrano il gusto di Gesù di approcciarsi all’altro con una domanda, un dettaglio che rivela qualcosa della gentilezza: essa è costituita da quell’apparente ossimoro che è una “curiosità discreta”. Un uomo gentile è necessariamente un uomo discreto, però è anche attento e interessato all’altro, a chi gli sta davanti.

Pensiamo a quando appare a Paolo facendolo cadere da cavallo (capitolo 9 degli Atti degli Apostoli) e si presenta rivolgendogli una domanda: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». Questo gesto, il farlo cadere da cavallo, non sembra un gesto gentile eppure a volte è l’unico modo per aiutare una persona a cui si vuole bene, cambiargli bruscamente la prospettiva, ma in questo brano è importante la domanda, che è vera, sincera, come tutte quelle di Gesù: egli vuole conoscere l’altro, vuole comprendere le sue ragioni e vuole che anche lui ponga questa domanda a se stesso, alla propria coscienza come a dire “sei consapevole di quello che stai facendo?”.

La curiosità discreta di Gesù è la sana curiosità di chi veramente si interessa all’altro perché gli vuole bene e vuole stringere con lui un legame sincero. E qui la gentilezza s’incontra con la sua eterna promessa sposa: l’umiltà. Felice l’intuizione dello scrittore inglese C.S. Lewis su questo punto: «Non immaginatevi che un uomo davvero umile, se vi capiterà di incontrarlo, corrisponda a ciò che oggi si suole designare con quell’aggettivo: una persona untuosa e viscida, che dichiara a ogni piè sospinto di non essere nessuno. Probabilmente vi troverete di fronte un uomo vivace e intelligente, che si interessa davvero a ciò che voi gli dite. Se vi riesce antipatico, sarà perché vi sentite un po’ invidiosi di uno che sembra godersi così facilmente la vita. Costui non pensa all’umiltà: non pensa affatto a se stesso». Eccolo qua il profilo del gentiluomo: un uomo aperto all’altro, capace dell’attitudine più rara e preziosa, l’ascolto. Da questo approccio sano verso gli altri il più delle volte scaturisce la leggerezza, ma anche la gioia o quanto meno il buon umore, tutte caratteristiche che contraddistinguono le persone umili e gentili.

Gesù era curioso, la sua incarnazione stessa è un modo per “interessarsi” agli uomini (in latino inter-esse: essere dentro, stare, “abitare in mezzo a noi”): è il paradosso di un Dio che si fa uomo per condividere la natura e il destino degli uomini, compresa l’esperienza estrema della morte, un Dio che si fa compagno di viaggio lungo il cammino della nostra esistenza. Gesù camminava per le strade degli uomini e amava incontrarli e fare loro domande come fa con i discepoli di Emmaus, ma la sua era appunto una curiosità discreta, capace cioè di preservare la libertà altrui, di non invadere il campo dell’altrui responsabilità.

Gesù tra l’altro usava anche quelle parole che il Papa spesso raccomanda nei suoi discorsi, come “permesso” o “grazie” e che ripete anche nell’enciclica (n.224); tutta la sua vita è stata una “eucaristia”, un rendimento di grazie al Padre, che a volte sembra non riuscire a trattenere come ad esempio quando esplode nell’inno di giubilo di Matteo 11, 25: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli».

E Gesù chiede anche “permesso?”, lo dice lui stesso di sé nell’ultimo libro della Bibbia: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3, 20). Ecco la discrezione di un Dio che si propone ma non s’impone, rispetta la sfera d’autonomia di ogni uomo chiamato ad esercitare la propria libera scelta.

Com’è difficile dunque quest’atteggiamento della gentilezza, difficile ma non impossibile come ricorda il Papa nell’enciclica: «Eppure ogni tanto si presenta il miracolo di una persona gentile, che mette da parte le sue preoccupazioni e le sue urgenze per prestare attenzione, per regalare un sorriso, per dire una parola di stimolo, per rendere possibile uno spazio di ascolto in mezzo a tanta indifferenza» (Fratelli tutti, n.224). Sono queste persone gentili i “giusti” di cui parlava il poeta argentino Borges, quelle persone che vogliono «giustificare un male che gli hanno fatto», che preferiscono «che abbiano ragione gli altri, / tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo». 

L'Osservatore Romano 



giovedì 5 novembre 2020

DIALOGO E INCONTRO: UN DENOMINATORE COMUNE

    La fraternità nella nuova enciclica 

di Papa Francesco

                                                      - di Rino Fisichella

 Un insegnamento comporta sempre una consegna che viene fatta perché altri possano partecipare della propria esperienza. L’enciclica appartiene all’insegnamento ordinario del magistero e con Fratelli tutti Papa Francesco intende consegnare un messaggio alla luce della fraternità e amicizia sociale. Addentrarsi in questo insegnamento richiede l’esigenza di non trasferire le proprie precomprensioni all’interno dell’enciclica, ma porsi nell’atteggiamento dell’accoglienza per verificare anzitutto l’intenzione dell’autore. Una regola fondamentale per una corretta ermeneutica infatti consiste nel lasciarsi provocare dal testo, prima di fargli dire quanto si vorrebbe secondo le proprie intenzioni. In questo senso, la lettura coerente di qualsiasi testo impone di rispettare la globalità prima di fermarsi al particolare, e l’accortezza di non togliere mai un’espressione dal contesto in cui vive e assume significato pieno.

Fratellifraternitàfratellanza sono termini che ricorrono frequentemente nell’enciclica, utilizzati spesso come sinonimi anche se la semantica evidenzia alcune sfumature che ne caratterizzano il senso. Prendere tra le mani il testo del Papa partendo da questi concetti può essere utile per entrare maggiormente nel suo insegnamento. La categoria di fraternità sembra essere assunta da Francesco per tentare di trovare nell’epoca della globalizzazione un denominatore comune che possa permettere il dialogo e il confronto sincero tra le persone che abitano il nostro piccolo mondo. Il tentativo è lodevole. In altre epoche della storia i cristiani non si sono sottratti a questa impresa. Forti del comando all’evangelizzazione, hanno sempre intrapreso la strada per comprendere quale via migliore si dovesse seguire. Ai primordi della nostra storia, ad esempio, colpisce non poco l’esperienza di Giustino che nel suo Dialogo con Trifone non fa altro che perseguire la strada dell’incontro con il suo interlocutore pagano per annunciare la novità della fede cristiana. Alla stessa stregua, Tommaso d’Aquino scrive la sua Summa contra Gentiles con l’obiettivo di dialogare con ebrei e mussulmani. Non potendolo fare alla luce della Bibbia, ritrovò nella categoria della “ragione” lo spazio necessario per un dialogo universale. Ai nostri giorni, giunge questa enciclica di Francesco con la categoria di “fratellanza” per esprimere la preoccupazione di trovare un interfaccia comune per il dialogo tra i popoli e le religioni. L’intento è chiaro: «Pur avendola scritta a partire dalle mie convinzioni cristiane, che mi animano e mi nutrono, ho cercato di farlo in modo che la riflessione si apra al dialogo con tutte le persone di buona volontà» (n. 6).

I termini usati da Papa Francesco, comunque, si muovono nel solco di almeno tre contesti peculiari che è bene non dimenticare. Il primo è l’orizzonte della spiritualità francescana. Il Papa lo esplicita fin dall’inizio dell’enciclica quando ricorda che l’appellativo utilizzato dal santo di Assisi era rivolto in forza dell’amore evangelico a tutti, vicini e lontani non solo nel senso spaziale, per proporre «una forma di vita dal sapore di Vangelo» (n. 1). Per san Francesco, che chiamava “sorella” perfino la morte, l’essenziale consisteva nel riconoscere ogni singola persona, senza distinzione alcuna per il colore della pelle, lo stato sociale, la religione e la sessualità, come un fratello e una sorella da amare. Chiamarli fratelli e sorelle era lo strumento, la mediazione per far emergere il vero contenuto della fede: l’amore di Gesù Cristo. Se si dovesse togliere questa componente, si distruggerebbe l’originalità stessa della fede e con essa l’esigenza dell’evangelizzazione come testimonianza dell’incontro con il Risorto che invia quanti credono in lui a partecipare alla trasformazione del mondo con un nuovo stile di vita.

Il secondo contesto a cui far riferimento è il rimando alla parabola del buon samaritano «un’icona illuminante, capace di mettere in evidenza l’opzione di fondo che abbiamo bisogno di compiere per ricostruire questo mondo» (n. 67). Non è un caso che Papa Francesco dopo aver commentato la parabola ponga come titolo alla sua attualizzazione il verbo “Ricominciare”. È proprio così. Si tratta di ripartire ancora una volta dal Vangelo, perché per un credente non c’è alternativa alcuna. «La storia del buon samaritano si ripete: risulta sempre più evidente che l’incuranza sociale e politica fa di molti luoghi del mondo delle strade desolate» (n. 71), che richiedono la nostra presenza fattiva, senza volgere lo sguardo altrove per paura, disinteresse o indifferenza. Quando c’è qualcuno che ha bisogno di aiuto, lì si è chiamati ad agire con misericordia perché si riconosce la presenza di un fratello e una sorella che soffrono. Tra le povertà più emergenti oggi è innegabile che quella dell’emigrazione e dell’ingiustizia sociale abbiano il sopravvento per le cause storiche che si conoscono. Chiedere almeno la solidarietà in nome della fratellanza, è il comando evangelico a essere misericordiosi come il Padre. La misericordia costituisce il retroterra per riconoscere un fratello nel bisogno e non passare oltre. Il terzo contesto è il richiamo a Charles de Foucauld, un santo dei nostri anni che ha saputo dare testimonianza feconda in forza della sua fede in Cristo, diventando ultimo con gli ultimi del deserto africano fino a essere identificato come “fratello universale” (nn. 286-287).

Quando un cristiano va alla ricerca di un denominatore comune non lo fa prescindendo dalla propria fede. A volte, è come se la mettesse tra parentesi per allargare lo sguardo e trovare uno spazio in cui poter far confluire la maggior parte delle convinzioni in modo tale da esprimere al meglio la sua ricerca. È questa alla fine la vera dimensione della fede: una ricerca che non smette mai di interrogare non solo i contenuti della fede, ma la realtà stessa a cui bisogna dare una risposta. Una fede avulsa dalla realtà, che si concretizza nelle diverse culture e nelle persone che le abitano, sarebbe una teoria, non la risposta alla domanda di senso. In questo orizzonte è necessario porre la dinamica stessa della fede che non si isola dal mondo creando bastioni insormontabili per sentirsi sicura. La sicurezza le è già data dalla Parola di Dio che la obbliga a seguire sotto l’azione permanente dello Spirito Santo nuove strade. Tra queste c’è quella dell’incontro che la porta non solo a guardare come la cultura di oggi impone, ma soprattutto ad ascoltare ogni uomo e donna che incontra nel proprio cammino, per trovare una via condivisa. Come annunciare il Vangelo oggi se le categorie sono talmente differenti e ognuno sembra rinchiudersi sempre più in se stesso senza voler entrare in relazione? Ricordare a viva voce che esiste una fraternità vera, reale e originale che appartiene alla fede cristiana e comunque trova riscontro in altre religioni e filosofie è un tentativo che i cristiani non possono lasciarsi sfuggire. Ne va della credibilità della loro presenza nel mondo globalizzato che mentre impone modelli spesso in contrasto con le tradizioni dei popoli, richiede tuttavia la presenza di uomini e donne che testimoniano ancora l’efficacia dell’amore per ogni singolo volto che incontrano.

 

www.osservatoreromano.va

 

sabato 10 ottobre 2020

LA NOVITA' DI "FRATELLI TUTTI"

Probabilmente la novità dell’ultima enciclica di papa Francesco, Fratelli tutti, va cercata più nella sua forma che nei contenuti. Non perché questi ultimi siano irrilevanti , o almeno scontati, come qualche critico ha sostenuto, ma perché la loro carica – che non esiterei a definire “rivoluzionaria” – si sprigiona in tutta la sua forza dirompente precisamente a causa delle modalità nuove in cui viene comunicata.

                                                                                                        di Giuseppe Savagnone

 

La forma tradizionale delle encicliche

Finora per “enciclica” si è intesa una lettera pastorale del Papa ai vescovi della Chiesa cattolica e, attraverso di loro, a tutti i fedeli. Ancora nella Lumen fidei (2013) – la prima enciclica dell’attuale pontefice (dichiaratamente ispirata, però, a un testo già elaborato dal suo predecessore) – questa impostazione era stata mantenuta. Il documento si rivolgeva «ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, alle persone consacrate, e a tutti i fedeli laici» e partiva dai testi della Rivelazione. Benedetto XVI, nella sua enciclica sociale Caritas in veritate (2009), aveva aggiunto, ai suddetti destinatari, anche «tutti gli uomini di buona volontà». In ogni caso il punto di partenza era la fede che accomunava i membri della Chiesa. Perciò le encicliche normalmente si aprivano con una esposizione dei fondamenti biblici e magisteriali del messaggio che volevano comunicare, passando poi alle applicazioni ai problemi della comunità cristiana e della società.

La svolta della «Laudato si’»

Già con la Laudato si’ (2015) papa Francesco ha cambiato questo struttura tradizionale. L’enciclica sulla crisi ecologica si apre con un capitolo dedicato alla rassegna dei fenomeni negativi che contrassegnano il nostro rapporto con la terra. E ne spiega il motivo: «Le riflessioni teologiche o filosofiche sulla situazione dell’umanità e del mondo possono suonare come un messaggio ripetitivo e vuoto, se non si presentano nuovamente a partire da un confronto con il contesto attuale, in ciò che ha di inedito per la storia dell’umanità» (n.17).

Perché la voce della Rivelazione?

Solo nel secondo capitolo, intitolato «Il vangelo della creazione» e aperto da una sezione dedicata a «La luce che la fede ci offre», entrano in gioco la Rivelazione e il suo insegnamento. E che questo non sia scontato lo evidenzia l’interrogativo con cui questa sezione si apre: «Perché inserire in questo documento, rivolto a tutte le persone di buona volontà, un capitolo riferito alle convinzioni di fede?» (n.62).

Il Vangelo come contributo alla riflessione umana

Due le risposte date a questa domanda. La prima, che «se si vuole veramente costruire un’ecologia che ci permetta di riparare tutto ciò che abbiamo distrutto, allora nessun ramo delle scienze e nessuna forma di saggezza può essere trascurata, nemmeno quella religiosa con il suo linguaggio proprio» (n.63); la seconda, che «anche se questa Enciclica si apre a un dialogo con tutti per cercare insieme cammini di liberazione, voglio mostrare fin dall’inizio come le convinzioni di fede offrano ai cristiani, e in parte anche ad altri credenti, motivazioni alte per prendersi cura della natura e dei fratelli e sorelle più fragili (…). Pertanto, è un bene per l’umanità e per il mondo che noi credenti riconosciamo meglio gli impegni ecologici che scaturiscono dalle nostre convinzioni» (n.64). Dove è chiaro che il discorso deve parlare a tutti gli uomini, anche al di fuori della Chiesa, non prescindendo dalla prospettiva cristiana, ma tenendola presente come un «forma di saggezza», dunque nelle sue implicazioni umane; e ai credenti fornendo loro «motivazioni alte», legate alla fede, che dovrebbero renderli più direttamente protagonisti nella lotta per la salvaguardia del creato.

Il dialogo aperto di «Fratelli tutti»

Nella nuova enciclica di Francesco questa intenzione di parlare a tutti gli uomini e le donne del pianeta, e non solo ai cristiani è ancora più evidente. Il papa la dichiara, del resto, espressamente, all’inizio: «Pur avendola scritta a partire dalle mie convinzioni cristiane, che mi animano e mi nutrono, ho cercato di farlo in modo che la riflessione si apra al dialogo con tutte le persone di buona volontà» (n.6).

Il primato della trascendenza

Non è un caso che in Fratelli tutti il riferimento esplicito alla prospettiva religiosa e a quella più specificamente evangelica compaia solo nell’ottavo capitolo, l’ultimo. Dove Francesco sottolinea che «quando, in nome di un’ideologia, si vuole estromettere Dio dalla società, si finisce per adorare degli idoli, e ben presto l’uomo smarrisce sé stesso, la sua dignità è calpestata, i suoi diritti violati» (n.274). Una rivendicazione del primato della trascendenza, comune a molte religioni, che ha il suo ulteriore sviluppo nella precisazione che per il cristiano la «sorgente di dignità umana e di fraternità sta nel Vangelo di Gesù Cristo» (n.277). È coerente con questa apertura alle altre religioni il reiterato richiamo al documento firmato ad Abu Dabi col Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb. Mentre, come lo stesso Francesco ricorda, ad ispirarlo nella redazione della Laudato si era stato il Patriarca ortodosso Bartolomeo – non cattolico, ma comunque cristiano, ora il punto di riferimento è il suo dialogo con un autorevole rappresentante dell’islam (cfr. n.5).

Un manifesto illuminista?

Non stupisce che l’enciclica sia apparsa, agli occhi di una parte del mondo cattolico che da tempo accusa l’attuale pontefice di eresia e di sincretismo, «il manifesto ideologico del bergoglismo». Lo ha scritto sul quotidiano «La Verità» (6 ottobre 2020) un noto intellettuale di destra, Marcello Veneziani, sostenendo che «la fratellanza a cui allude Papa Francesco è il terzo principio della Rivoluzione Francese, dopo liberté ed égalité» e che, con questa enciclica, l’ideologia di Bergoglio cerca un posto alla Chiesa postcristiana nella modernità laica in nome della fratellanza (…) inserendo la Chiesa dentro il mondo moderno, ateo e laicista, disceso dalla Rivoluzione francese e cercando ispirazione anche da altre religioni come l’Islam».

Una Chiesa che vuole uscire dal tempio

In realtà, se proviamo a decrittare questo messaggio, scopriamo che in fondo Veneziani coglie abbastanza bene l’intenzione fondamentale del papa: fare uscire la Chiesa e il suo annuncio del Vangelo dal ghetto in cui la cultura del mondo moderno li hanno da tempo relegati e puntare sui valori che questa stessa cultura ha accolto e celebrato, per mostrare le loro radici cristiane e denunciare l’incoerenza della società attuale rispetto ad essi. Che questo diventi un’accusa lo si comprende alla luce della pressante e ricorrente richiesta, da parte di esponenti politici della destra, che i pastori della Chiesa “si facciano gli affari loro”, se ne restino, cioè, ben chiusi fra le mura dei loro templi a parlare di una fede senza il minimo riscontro nella vita reale degli uomini, a cominciare dagli stessi fedeli.

Una fede che pretende di parlare anche alla ragione umana

È interessante, però, che questa sia anche la pretesa di intellettuali di segno opposto, come Paolo Flores d’Arcais, il quale, in uno scritto di alcuni anni fa, sottolineava la necessità di combattere «l’idea, criticamente insostenibile, che abbia qualche fondamento la pretesa della “fides” di essere anche “ratio”, la pretesa del magistero della Chiesa, con le proprie dottrine morali, di essere anche la custode della natura umana in quanto ragione».  Perché, «se la “fides” di cui si tratta è (…) “follia per la ragione” (…), nessuna Chiesa potrà pretendere che questa sua “follia”, che pure chiederà ai suoi fedeli di praticare, diventi regola della civile convivenza». Invece, avvertiva Flores d’Arcais, «una religione che pretende di fare tutt’uno con la ragione, anzi di essere il compimento della ragione, inevitabilmente torna (…) alla richiesta di far valere erga omnes, credenti e non credenti (…) i propri precetti morali». Infatti, se si accettasse questa logica, «ogni norma in contrasto con la “legge naturale” di ragione, inglobata nella fede, sarebbe irragionevole e disumana, e nessuno può volere che la convivenza civile si autodistrugga con leggi positive disumane» («Micromega» 3/2007, pp.14-215).

La sfida di Francesco

Ora, è proprio questo che papa Francesco ha cercato di fare, già nella Laudato si’, più decisamente in Fratelli tutti: mostrare che la Chiesa ha qualcosa da dire al mondo contemporaneo, non in termini confessionali, ma per rispondere a un problema che sta davanti agli occhi di tutti, credenti e non credenti, evidenziando che la fraternità, centrale nel messaggio cristiano, è anche un valore umano e che un mondo che la misconosce – come il nostro – è disumano. È una sfida. La parabola del buon Samaritano – a lungo analizzata nell’enciclica come modello di fraternità, ma che nel Vangelo è il racconto dell’umano fatto da Dio –, ci rassicura che a porre questa sfida non è solo l’ideologia di Bergoglio.

 

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lunedì 5 ottobre 2020

FRATELLI TUTTI. L'ENCICLICA SOCIALE DI PAPA FRANCESCO

 
Fraternità e amicizia sociale sono le vie indicate dal Pontefice per costruire un mondo migliore, più giusto e pacifico, con l’impegno di tutti: popolo e istituzioni. 

Ribadito con forza il no alla guerra e alla globalizzazione dell’indifferenza

 

Isabella Piro – Città del Vaticano

 Quali sono i grandi ideali ma anche le vie concretamente percorribili per chi vuole costruire un mondo più giusto e fraterno nelle proprie relazioni quotidiane, nel sociale, nella politica, nelle istituzioni? Questa la domanda a cui intende rispondere, principalmente, “Fratelli tutti”: il Papa la definisce una “Enciclica sociale” (6) che mutua il titolo dalle “Ammonizioni” di San Francesco d’Assisi, che usava quelle parole “per rivolgersi a tutti i fratelli e le sorelle e proporre loro una forma di vita dal sapore di Vangelo” (1).

Sulla tomba di san Francesco il Papa firma “Fratelli tutti”

Il Poverello “non faceva la guerra dialettica imponendo dottrine, ma comunicava l’amore di Dio”, scrive il Papa, ed “è stato un padre fecondo che ha suscitato il sogno di una società fraterna” (2-4). L’Enciclica mira a promuovere un’aspirazione mondiale alla fraternità e all’amicizia sociale. A partire dalla comune appartenenza alla famiglia umana, dal riconoscerci fratelli perché figli di un unico Creatore, tutti sulla stessa barca e dunque bisognosi di prendere coscienza che in un mondo globalizzato e interconnesso ci si può salvare solo insieme. Motivo ispiratore più volte citato è il Documento sulla fratellanza umana firmato da Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar nel febbraio 2019.

La fraternità è da promuovere non solo a parole, ma nei fatti. Fatti che si concretizzano nella “politica migliore”, quella non sottomessa agli interessi della finanza, ma al servizio del bene comune, in grado di porre al centro la dignità di ogni essere umano e di assicurare il lavoro a tutti, affinché ciascuno possa sviluppare le proprie capacità. Una politica che, lontana dai populismi, sappia trovare soluzioni a ciò che attenta contro i diritti umani fondamentali e che punti ad eliminare definitivamente la fame e la tratta. Al contempo, Papa Francesco sottolinea che un mondo più giusto si raggiunge promuovendo la pace, che non è soltanto assenza di guerra, ma una vera e propria opera “artigianale” che coinvolge tutti.

Guardare gli altri come fratelli e sorelle per salvare noi e il mondo

Legate alla verità, la pace e la riconciliazione devono essere “proattive”, puntare alla giustizia attraverso il dialogo, in nome dello sviluppo reciproco. Di qui deriva la condanna che il Pontefice fa della guerra, “negazione di tutti i diritti” e non più pensabile neanche in una ipotetica forma “giusta”, perché ormai le armi nucleari, chimiche e biologiche hanno ricadute enormi sui civili innocenti. Forte anche il rifiuto della pena di morte, definita “inammissibile”, e centrale il richiamo al perdono, connesso al concetto di memoria e di giustizia: perdonare non significa dimenticare, scrive il Pontefice, né rinunciare a difendere i propri diritti per custodire la propria dignità, dono di Dio. Sullo sfondo dell’Enciclica c’è la pandemia da Covid-19 che – rivela Francesco – “ha fatto irruzione in maniera inattesa proprio mentre stavo scrivendo questa lettera”. Ma l’emergenza sanitaria globale è servita a dimostrare che “nessuno si salva da solo” e che è giunta davvero l’ora di “sognare come un’unica umanità” in cui siamo “tutti fratelli” (7-8).

Problemi globali esigono azioni globali, no alla “cultura dei muri”

Aperta da una breve introduzione e articolata in otto capitoli, l’Enciclica raccoglie – come spiega il Papa stesso – molte delle sue riflessioni sulla fraternità e l’amicizia sociale, collocate però “in un contesto più ampio” e integrate da “numerosi documenti e lettere” inviate a Francesco da “tante persone e gruppi di tutto il mondo” (5). Nel primo capitolo, “Le ombre di un mondo chiuso”, il documento si sofferma sulle tante storture dell’epoca contemporanea: la manipolazione e la deformazione di concetti come democrazia, libertà, giustizia; la perdita del senso del sociale e della storia; l’egoismo e il disinteresse per il bene comune; la prevalenza di una logica di mercato fondata sul profitto e la cultura dello scarto; la disoccupazione, il razzismo, la povertà; la disparità dei diritti e le sue aberrazioni come la schiavitù, la tratta, le donne assoggettate e poi forzate ad abortire, il traffico di organi (10-24). Si tratta di problemi globali che esigono azioni globali, sottolinea il Papa, lanciando l’allarme anche contro una “cultura dei muri” che favorisce il proliferare delle mafie, alimentate da paura e solitudine (27-28). Inoltre, oggi si riscontra un deterioramento dell’etica (29) cui contribuiscono, in un certo qual modo, i mass-media che sgretolano il rispetto dell’altro ed eliminano ogni pudore, creando circoli virtuali isolati e autoreferenziali, nei quali la libertà è un’illusione e il dialogo non è costruttivo (42-50).

L’amore costruisce ponti: l’esempio del Buon Samaritano

A tante ombre, tuttavia, l’Enciclica risponde con un esempio luminoso, foriero di speranza: quello del Buon Samaritano. A questa figura è dedicato il secondo capitolo, “Un estraneo sulla strada”, in cui il Papa sottolinea che, in una società malata che volta le spalle al dolore e che è “analfabeta” nella cura dei deboli e dei fragili (64-65), tutti siamo chiamati – proprio come il buon samaritano - a farci prossimi all’altro (81), superando pregiudizi, interessi personali, barriere storiche o culturali. Tutti, infatti, siamo corresponsabili nella costruzione di una società che sappia includere, integrare e sollevare chi è caduto o è sofferente (77). L’amore costruisce ponti e noi “siamo fatti per l’amore” (88), aggiunge il Papa, esortando in particolare i cristiani a riconoscere Cristo nel volto di ogni escluso (85). Il principio della capacità di amare secondo “una dimensione universale” (83) è ripreso anche nel terzo capitolo, “Pensare e generare un mondo aperto”: in esso, Francesco ci esorta ad “uscire da noi stessi” per trovare negli altri “un accrescimento di essere” (88), aprendoci al prossimo secondo il dinamismo della carità che ci fa tendere verso la “comunione universale” (95). In fondo – ricorda l’Enciclica – la statura spirituale della vita umana è definita dall’amore che “è sempre al primo posto” e ci porta a cercare il meglio per la vita dell’altro, lontano da ogni egoismo (92-93).

I diritti non hanno frontiere, serve etica delle relazioni internazionali

Una società fraterna, dunque, sarà quella che promuove l’educazione al dialogo per sconfiggere “il virus dell’individualismo radicale” (105) e per permettere a tutti di dare il meglio di sé. A partire dalla tutela della famiglia e dal rispetto per la sua “missione educativa primaria e imprescindibile” (114). Due, in particolare, gli ‘strumenti’ per realizzare questo tipo di società: la benevolenza, ossia il volere concretamente il bene dell’altro (112), e la solidarietà che ha cura delle fragilità e si esprime nel servizio alle persone e non alle ideologie, lottando contro povertà e disuguaglianze (115). Il diritto a vivere con dignità non può essere negato a nessuno, afferma ancora il Papa, e poiché i diritti sono senza frontiere, nessuno può rimanere escluso, a prescindere da dove sia nato (121). In quest’ottica, il Pontefice richiama anche a pensare ad “un’etica delle relazioni internazionali” (126), perché ogni Paese è anche dello straniero ed i beni del territorio non si possono negare a chi ha bisogno e proviene da un altro luogo. Il diritto naturale alla proprietà privata sarà, quindi, secondario al principio della destinazione universale dei beni creati (120). Una sottolineatura specifica l’Enciclica la fa anche per la questione del debito estero: fermo restando il principio che esso va saldato, si auspica tuttavia che ciò non comprometta la crescita e la sussistenza dei Paesi più poveri (126).

Migranti: governance globale per progetti a lungo termine

Al tema delle migrazioni è, invece, dedicato in parte il secondo e l’intero quarto capitolo, “Un cuore aperto al mondo intero”: con le loro “vite lacerate” (37), in fuga da guerre, persecuzioni, catastrofi naturali, trafficanti senza scrupoli, strappati alle loro comunità di origine, i migranti vanno accolti, protetti, promossi ed integrati. Bisogna evitare le migrazioni non necessarie, afferma il Pontefice, creando nei Paesi di origine possibilità concrete di vivere con dignità. Ma al tempo stesso, bisogna rispettare il diritto a cercare altrove una vita migliore. Nei Paesi destinatari, il giusto equilibrio sarà quello tra la tutela dei diritti dei cittadini e la garanzia di accoglienza e assistenza per i migranti (38-40). Nello specifico, il Papa indica alcune “risposte indispensabili” soprattutto per chi fugge da “gravi crisi umanitarie”: incrementare e semplificare la concessione di visti; aprire corridoi umanitari; assicurare alloggi, sicurezza e servizi essenziali; offrire possibilità di lavoro e formazione; favorire i ricongiungimenti familiari; tutelare i minori; garantire la libertà religiosa e promuovere l’inserimento sociale. Dal Papa anche l’invito a stabilire, nella società, il concetto di “piena cittadinanza”, rinunciando all’uso discriminatorio del termine “minoranze” (129-131). Ciò che occorre soprattutto – si legge nel documento – è una governance globale, una collaborazione internazionale per le migrazioni che avvii progetti a lungo termine, andando oltre le singole emergenze (132), in nome di uno sviluppo solidale di tutti i popoli che sia basato sul principio della gratuità. In tal modo, i Paesi potranno pensare come “una famiglia umana” (139-141). L’altro diverso da noi è un dono ed un arricchimento per tutti, scrive Francesco, perché le differenze rappresentano una possibilità di crescita (133-135). Una cultura sana è una cultura accogliente che sa aprirsi all’altro, senza rinunciare a se stessa, offrendogli qualcosa di autentico. Come in un poliedro – immagine cara al Pontefice – il tutto è più delle singole parti, ma ognuna di esse è rispettata nel suo valore (145-146).

La politica, una delle forme più preziose della carità

Il tema del quinto capitolo è “La migliore politica”, ossia quella che rappresenta una delle forme più preziose della carità perché si pone al servizio del bene comune (180) e conosce l’importanza del popolo, inteso come categoria aperta, disponibile al confronto e al dialogo (160). Questo è, in un certo senso, il popolarismo indicato da Francesco, cui si contrappone quel “populismo” che ignora la legittimità della nozione di ‘popolo’, attraendo consensi per strumentalizzarlo al proprio servizio e fomentando egoismi per accrescere la propria popolarità (159). Ma la migliore politica è anche quella che tutela il lavoro, “dimensione irrinunciabile della vita sociale” e cerca di assicurare a tutti la possibilità di sviluppare le proprie capacità (162). L’aiuto migliore per un povero, spiega il Pontefice, non è solo il denaro, che è un rimedio provvisorio, bensì il consentirgli una vita degna mediante l’attività lavorativa. La vera strategia anti-povertà non mira semplicemente a contenere o a rendere inoffensivi gli indigenti, bensì a promuoverli nell’ottica della solidarietà e della sussidiarietà (187). Compito della politica, inoltre, è trovare una soluzione a tutto ciò che attenta contro i diritti umani fondamentali, come l’esclusione sociale; il traffico di organi, tessuti, armi e droga; lo sfruttamento sessuale; il lavoro schiavo; il terrorismo ed il crimine organizzato. Forte l’appello del Papa ad eliminare definitivamente la tratta, “vergogna per l’umanità”, e la fame, in quanto essa è “criminale” perché l’alimentazione è “un diritto inalienabile” (188-189).

Il mercato da solo non risolve tutto. Occorre riforma dell’ONU

La politica di cui c’è bisogno, sottolinea ancora Francesco, è quella che dice no alla corruzione, all’inefficienza, al cattivo uso del potere, alla mancanza di rispetto delle leggi (177). È una politica incentrata sulla dignità umana e non sottomessa alla finanza perché “il mercato da solo non risolve tutto”: le “stragi” provocate dalle speculazioni finanziarie lo hanno dimostrato (168). Assumono, quindi, particolare rilevanza i movimenti popolari: veri “poeti sociali” e “torrenti di energia morale”, essi devono essere coinvolti nella partecipazione sociale, politica ed economica, previo però un maggior coordinamento. In tal modo – afferma il Papa – si potrà passare da una politica “verso” i poveri ad una politica “con” e “dei” poveri (169). Un altro auspicio presente nell’Enciclica riguarda la riforma dell’Onu: di fronte al predominio della dimensione economica che annulla il potere del singolo Stato, infatti, il compito delle Nazioni Unite sarà quello di dare concretezza al concetto di “famiglia di nazioni” lavorando per il bene comune, lo sradicamento dell’indigenza e la tutela dei diritti umani. Ricorrendo instancabilmente “al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato” – afferma il documento pontificio - l’Onu deve promuovere la forza del diritto sul diritto della forza, favorendo accordi multilaterali che tutelino al meglio anche gli Stati più deboli (173-175).

Il miracolo della gentilezza

Dal sesto capitolo, “Dialogo e amicizia sociale”, emerge inoltre il concetto di vita come “arte dell’incontro” con tutti, anche con le periferie del mondo e con i popoli originari, perché “da tutti si può imparare qualcosa e nessuno è inutile” (215). Il vero dialogo, infatti, è quello che permette di rispettare il punto di vista dell’altro, i suoi interessi legittimi e, soprattutto, la verità della dignità umana. Il relativismo non è una soluzione– si legge nell’Enciclica – perché senza principî universali e norme morali che proibiscono il male intrinseco, le leggi diventano solo imposizioni arbitrarie (206). In quest’ottica, un ruolo particolare spetta ai media che, senza sfruttare le debolezze umane o tirare fuori il peggio di noi, devono orientarsi all’incontro generoso e alla vicinanza agli ultimi, promuovendo la prossimità ed il senso di famiglia umana (205). Particolare, poi, il richiamo del Papa al “miracolo della gentilezza”, un’attitudine da recuperare perché è “una stella nell’oscurità” e una “liberazione dalla crudeltà, dall’ansietà e dall’urgenza distratta” che prevalgono in epoca contemporanea. Una persona gentile scrive Francesco, crea una sana convivenza ed apre le strade là dove l’esasperazione distrugge i ponti (222-224).

L’artigianato della pace e l’importanza del perdono  

Riflette sul valore e la promozione della pace, invece, il settimo capitolo, “Percorsi di un nuovo incontro”, in cui il Papa sottolinea che la pace è legata alla verità, alla giustizia ed alla misericordia. Lontana dal desiderio di vendetta, essa è “proattiva” e mira a formare una società basata sul servizio agli altri e sul perseguimento della riconciliazione e dello sviluppo reciproco (227-229). In una società, ognuno deve sentirsi “a casa” – scrive il Papa – Per questo, la pace è un “artigianato” che coinvolge e riguarda tutti e in cui ciascuno deve fare la sua parte. Il compito della pace non dà tregua e non ha mai fine, continua il Pontefice, ed occorre quindi porre al centro di ogni azione la persona umana, la sua dignità ed il bene comune (230-232). Legato alla pace c’è il perdono: bisogna amare tutti, senza eccezioni – si legge nell’Enciclica – ma amare un oppressore significa aiutarlo a cambiare e non permettergli di continuare ad opprimere il prossimo. Anzi: chi patisce un’ingiustizia deve difendere con forza i propri diritti per custodire la propria dignità, dono di Dio (241-242). Perdono non vuol dire impunità, bensì giustizia e memoria, perché perdonare non significa dimenticare, ma rinunciare alla forza distruttiva del male ed al desiderio di vendetta. Mai dimenticare “orrori” come la Shoah, i bombardamenti atomici a Hiroshima e Nagasaki, le persecuzioni ed i massacri etnici – esorta il Papa – Essi vanno ricordati sempre, nuovamente, per non anestetizzarci e mantenere viva la fiamma della coscienza collettiva. Altrettanto importante è fare memoria del bene, di chi ha scelto il perdono e la fraternità (246-252).

Mai più la guerra, fallimento dell’umanità!

Una parte del settimo capitolo si sofferma, poi, sulla guerra: essa non è “un fantasma del passato” – sottolinea Francesco – bensì “una minaccia costante” e rappresenta la “negazione di tutti i diritti”, “il fallimento della politica e dell’umanità”, “la resa vergognosa alle forze del male” ed al loro “abisso”. Inoltre, a causa delle armi nucleari, chimiche e biologiche che colpiscono molti civili innocenti, oggi non si può più pensare, come in passato, ad una possibile “guerra giusta”, ma bisogna riaffermare con forza “Mai più la guerra!” E considerando che viviamo “una terza guerra mondiale a pezzi”, perché tutti i conflitti sono connessi tra loro, l’eliminazione totale delle armi nucleari è “un imperativo morale ed umanitario”. Piuttosto – suggerisce il Papa – con il denaro che si investe negli armamenti, si costituisca un Fondo mondiale per eliminare la fame (255-262).

Pena di morte è inammissibile, abolirla in tutto il mondo

Una posizione altrettanto netta Francesco la esprime a proposito della pena di morte: è inammissibile e deve essere abolita in tutto il mondo. “L’omicida non perde la sua dignità personale – scrive il Papa – Dio ne è garante”. Di qui, due esortazioni: non vedere la pena come una vendetta, bensì come parte di un processo di guarigione e di reinserimento sociale, e migliorare le condizioni delle carceri, nel rispetto della dignità umana dei detenuti, pensando anche che l’ergastolo “è una pena di morte nascosta” (263-269). Viene ribadita la necessità di rispettare “la sacralità della vita” (283) laddove oggi “certe parti dell’umanità sembrano sacrificabili”, come i nascituri, i poveri, i disabili, gli anziani (18).

Garantire libertà religiosa, diritto umano fondamentale

Nell’ottavo e ultimo capitolo, il Pontefice si sofferma su “Le religioni al servizio della fraternità nel mondo” e ribadisce che la violenza non trova base alcuna nelle convinzioni religiose, bensì nelle loro deformazioni. Atti “esecrabili” come quelli terroristici, dunque, non sono dovuti alla religione, ma ad interpretazioni errate dei testi religiosi, nonché a politiche di fame, povertà, ingiustizia, oppressione. Il terrorismo non va sostenuto né con il denaro, né con le armi, né tantomeno con la copertura mediatica perché è un crimine internazionale contro la sicurezza e la pace mondiale e come tale va condannato (282-283). Al contempo, il Papa sottolinea che un cammino di pace tra le religioni è possibile e che è, dunque, necessario garantire la libertà religiosa, diritto umano fondamentale per tutti i credenti (279). Una riflessione, in particolare, l’Enciclica la fa sul ruolo della Chiesa: essa non relega la propria missione nel privato – afferma – non sta ai margini della società e, pur non facendo politica, tuttavia non rinuncia alla dimensione politica dell’esistenza. L’attenzione al bene comune e la preoccupazione allo sviluppo umano integrale, infatti, riguardano l’umanità e tutto ciò che è umano riguarda la Chiesa, secondo i principî evangelici (276-278). Infine, richiamando i leader religiosi al loro ruolo di “mediatori autentici” che si spendono per costruire la pace, Francesco cita il “Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza”, da lui stesso firmato il 4 febbraio 2019 ad Abu Dhabi, insieme al Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyib: da tale pietra miliare del dialogo interreligioso, il Pontefice riprende l’appello affinché, in nome della fratellanza umana, si adotti il dialogo come via, la collaborazione comune come condotta e la conoscenza reciproca come metodo e criterio (285).

Il Beato Charles de Foucauld, “il fratello universale”

L’Enciclica si conclude con il ricordo di Martin Luther King, Desmond Tutu, il Mahatma Gandhi e soprattutto il Beato Charles de Foucauld, un modello per tutti di cosa significhi identificarsi con gli ultimi per divenire “il fratello universale” (286-287). Le ultime righe del documento sono affidate a due preghiere: una “al Creatore” e l’altra “cristiana ecumenica”, affinché nel cuore degli uomini alberghi “uno spirito di fratelli”. 

 Vatican News

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