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martedì 10 ottobre 2023

VIANDANTE o VIAGGIATORE ?



 “Non lo Stato, 

ma la fratellanza 

e la cura della nostra Terra 

sono l’unica etica possibile”


Può essere considerata – e alcuni critici lo hanno fatto – come la summa del suo pensiero, il “lavoro di una vita”. L’etica del viandante (Feltrinelli) è l’ultima opera del filosofo, psicoanalista e docente Umberto Galimberti.

 Torna al centro della sua argomentazione l’età della tecnica secondo cui la storia non è più iscritta in un fine – e di cui aveva parlato in Psiche e tecne. L’uomo nell’età della tecnica (1998) e La morte dell’agire e il primato del fare nell’età della tecnica (2009). E lo fa per compiere letteralmente un passo ulteriore.

 Quello di proporre una nuova etica, l’unica possibile in un mondo che ha perso l’incanto degli antichi – del tempo ciclico dei greci e di quello escatologico della tradizione giudaico-cristiana – e dei moderni, con la loro fede nell’Umanesimo della scienza e del progresso.

 Ecco che la figura del viandante, colui che non ha una destinazione, a differenza del viaggiatore, che attraversa la terra senza possederla, si fa portavoce di un’etica planetaria e cosmopolita che risponde all’imperativo ecologico. Al centro non ci sono più né l’uomo, né lo Stato con i suoi confini. C’è la vita e una comunione fraterna con l’altro da sé: uomo, animale o pianta che sia. Il nomadismo del viandante non va tuttavia inteso come anarchica erranza. È un abitare il mondo nella casualità della sua innocenza, non pregiudicata da alcuna anticipazione di senso.

 Un senso che il nazismo, da un lato, e l’atomica dall’altro, avevano spazzato via secondo quanto sostenuto dal filosofo argentino Miguel Benasayag: “‘Chi pensa bene pensa il bene,’ diceva la Modernità. Dopo la Seconda guerra mondiale, questa frase perde tutto il senso che aveva. Con il fenomeno del nazismo e la programmazione della Shoah si è assistito, infatti, alla possibilità di pensare – anche in modo eccellente – il male. La speranza nella ragione che doveva, se ben utilizzata, condurre al ‘bene’ è stata confutata dai fatti e non ha più senso di esistere”.

 Il dibattito scaturito dal biopic di Christopher Nolan sul padre dell’atomica, Oppenheimer, così come gli interrogativi sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale o l’irrisolta questione migratoria trovano spazio in questo saggio, che è un invito ad esporci all’insolito. E a non averne paura. Come testimonia Umberto Galimberti in questa intervista per il Libraio.

 Professor Galimberti, l’etica del viandante parte da Nietzsche, dalla distinzione tra viandante e viaggiatore.

“L’etica del viandante è un’etica nuova, necessaria, perché nell’età della tecnica tutte le etiche dell’Occidente sono implose. Come fa l’etica a dire alla tecnica di non fare ciò che può? Tutte le etiche che abbiamo formulato, che sono etiche antropologiche in quanto mettono l’uomo al centro dell’universo, non funzionano più”.

Se l’uomo non è più al centro, cosa lo è?

“Occorre proporre un’etica biocentrica, dal greco bios che significa vita. La vita c’era prima dell’uomo e ci sarà dopo la sua scomparsa. E se la specie è ciò che unifica etnie, tribù, popolazioni, la specie deve salvare la terra che è l’unica nostra patria, molto prima della patria nativa”.

Al punto da abbandonare il concetto stesso di Stato.

“Assolutamente sì, perché per fare un’etica planetaria è necessaria la soppressione degli Stati perché lo Stato stabilisce la pace all’interno dei suoi confini, mentre aldilà dei suoi confini tollera la guerra. D’altronde tecnica e mercato, con il loro carattere transnazionale, hanno già abbandonato l’idea di Stato, che ormai sembra esistere unicamente per difenderci dai disperati della terra”.

E lei a questa logica contrappone quella della fratellanza.

“Per fare un’etica collettiva va ripreso il concetto di fraternità. La Rivoluzione francese aveva professato liberté, égalité, fraternité. Con la liberté abbiamo dato vita alla cultura liberaldemocratica, con l’égalité a quella socialdemocratica, la fraternité si è persa per strada”.

Come recuperarla?

“Le ferite della terra ci collocano come membri della specie e non come membri dello Stato. E allora alla ragion di Stato si deve sostituire la ragione dell’umanità. Una ragione che non può essere raggiunta sulla base dei valori, perché i valori dividono le popolazioni”.

E su che base?

“Dovremmo farlo sulla base dell’interesse, perché sul piano dell’interesse è possibile la mediazione. Per questo è essenziale fare un passaggio, un’evoluzione: come l’uomo ha fatto un’evoluzione biologica, a differenza dell’animale, così può fare anche un’evoluzione culturale”.

In che modo?

“Come la logica del nemico è riuscita a passare dalla clava alla bomba atomica, così un’evoluzione in direzione della fratellanza può creare un’etica nuova che deve comprendere, però, anche i diritti della natura. Il modello è quello di San Francesco che diceva ‘Fratello sole, sorella luna’. Perché i diritti dell’uomo separati da quelli della natura diventano a loro volta un elemento distruttivo”.

Ha parlato dell’atomica, al centro del film di Nolan Oppenheimer, tratto da un libro che ha come titolo originale Prometeo americano. Un Prometeo scatenato direbbe lei.

“Abbiamo perso il senso del limite che avevano i greci. Loro Prometeo l’avevano incatenato, noi l’abbiamo scatenato. Ma come diceva la sapienza greca, ‘chi non conosce il proprio limite, tema il destino’. Il nostro destino è che stiamo distruggendo la terra”.

Quale può essere il ruolo della letteratura e dell’arte in questo scenario?

“L’arte e la letteratura sono tutte volontà di potenza deboli rispetto alla tecnica, che rappresenta la volontà di potenza forte. Sembra non abbiano rilevanza. La letteratura serve a educare i nostri sentimenti, che è già una cosa buona. Noi riempiamo le scuole di computer, quando è la letteratura che ci insegna cosa sono il dolore e l’amore, la gioia e la speranza. Se queste cose non si hanno in testa quando si affronta l’angoscia, non ci si può salvare”.

Anche la libertà è sempre legata alla tecnica, ne è vincolata.

“Non credo nella libertà. Sono un determinista duro, come i greci. Esiste però l’illusione, l’idea di libertà. E le idee spesso creano più incognite di quanto non facciano le cose. Ma la libertà non esiste per una semplice ragione: confligge con la nostra identità”.

Come?

“Le faccio un esempio. Jean Paul Sartre un giorno andò in montagna, si ruppe una gamba e finì in ospedale. Andò a trovarlo un altro filosofo, Maurice Merleau-Ponty che gli domandò perché non avesse chiesto ad una guida di accompagnarlo. Sartre gli rispose: ‘Io? Non ho bisogno di andare in montagna con una guida’. Ecco l’identità. (Ride, ndr)”.

E la necessità di dare un senso all’esistenza, che risposte può avere?

“Il bisogno di senso non si salva. Non si salva la sua ricerca affannosa, la sua domanda incessante a cui cercano di dare risposta le religioni con le loro promozioni di fede. E nemmeno le pratiche terapeutiche con le loro promozioni di salute. Nell’età della tecnica questa ricerca rivela solo che la figura del ‘senso’ non si è salvata dall’universo dei mezzi. Per cui non è tanto il laicismo quanto la cultura della tecnica a corrodere il trono di Dio”.

Nessuno scopo, dunque, nessuna meta.

“La tecnica non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica funziona. È un concetto, questo, che a più riprese Heidegger ribadisce in tutta la sua radicalità: ‘Tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare, e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla Terra’”.

Heidegger temeva questa deriva.

“Sempre in quella intervista per lo Spiegel, Heidegger sostiene di essersi spaventato alla vista delle fotografie della Terra scattate dalla Luna. ‘Non c’è bisogno della bomba atomica: lo sradicamento dell’uomo è già fatto’, disse. Era il 1966″.

Come ci si pone allora di fronte alla verità?

“La verità non è più la conformità all’ordine del cosmo o di Dio, ma pura e semplice efficacia. Se infatti l’ordine del mondo non dimora più nel suo essere, ma dipende dal ‘fare tecnico’, vero sarà l’efficace, ossia ciò che ha le condizioni per realizzarsi, e falso l’inefficace”.

Da qui l’urgenza di un’etica planetaria,  incarnata dalla figura del viandante.

“Il viandante non ha una meta da realizzare, non ha neanche un sentiero da percorrere. A tracciare il pensiero del viandante sono le sue orme. Cammina per fare esperienza. Il prossimo che incontra è sempre meno specchio di sé e sempre più altro. È costretto a fare i conti con la differenza”.

Il suo viandante può essere paragonato a un moderno Ulisse?

“È più l’Ulisse di Dante che quello di Omero”.

In che senso?

“Quella di cui parlo non è tanto l’Odissea in cui Itaca fa di ogni luogo una semplice tappa sulla via del ritorno. È un’Odissea intesa come ripresa del viaggio, secondo la profezia di Tiresia, per cui è il letto scavato nell’ulivo intorno a cui è stata edificata la reggia a divenire una tappa del successivo andare”.

Da qui il riferimento dantesco.

“Questo andare è quello che Dante riprende, lui stesso viandante, spingendo il suo Ulisse ‘di retro al sol, del mondo sanza gente’, per cui né alba né tramonto possono più indicare non solo la meta, ma neppure la direzione”.

Il viandante, dunque, nell’accezione di Nietzsche, è il navigante verso terre sconosciute.

“Esattamente. Affrancarsi dalla meta significa abbandonarsi alla corrente della vita, non più spettatori, ma naviganti e, in qualche caso, come l’Ulisse dantesco, naufraghi. Nietzsche, che del nomadismo è forse il miglior interprete, così scrive: ‘Se in me è quella voglia di cercare che spinge le vele verso terre non ancora scoperte, se nel mio piacere è un piacere di navigante: se mai gridai giubilante: la costa scomparve – ecco anche la mia ultima catena è caduta –, il senza-fine mugghia intorno a me, laggiù lontano splende per me lo spazio e il tempo: orsù! coraggio! vecchio cuore!'”.

Il coraggio di chi intraprende un viaggio di cui non conosce l’esito. Come i migranti.

“Nel nostro tempo abbiamo fatto i conti con la proprietà, il territorio, la legge. Oggi i processi migratori confondono i confini che per il viandante sono più nella testa degli uomini che nel disegno della Terra. Ecco che dalla sua esperienza il viandante trae la conclusione che siamo tutti uomini di frontiera. E la storia futura sarà nel segno della de-territorializzazione. E le nozioni di proprietà, territorio, confine e legge finiranno con l’essere dei rami secchi in un albero inaridito”.

ALZOGLIOCCHIVERSOILCIELO



venerdì 8 settembre 2023

IL CORAGGIO E LA GIOIA DI INSEGNARE

 


"Preghiamo oggi per gli studenti, i ragazzi che studiano, e gli insegnanti che devono trovare nuove modalità per andare avanti nell’insegnamento: che il Signore li aiuti in questo cammino, dia loro coraggio, gioia e anche un bel successo".


                                            - di Giovanni Perrone

“Lasciate le reti, lo seguirono”.  Gli apostoli, nel rispondere  all’invito di Gesù hanno avuto coraggio, speranza e lungimiranza. Essi hanno prontamente lasciato il quotidiano al quale erano assuefatti e che dava loro certezza, per andare verso un domani incerto. Gesù, infatti, non aprì una scuola di formazione, con un programma dettagliato e bene impostato, ma invitò persone non formate, a mettersi in cammino con lui. 

Egli, però, aveva le idee chiare! 

Papa Francesco, più volte ha sollecitato gli educatori ad aver coraggio, a saper rischiare, a guardare in alto e lontano, ad “andare oltre”[1] per intraprendere l’avventura dell’educare, di camminare verso il futuro. 

Anche ad Abramo fu detto: “Esci dalla tua terra e va!” Lo stesso avvenne a Maria. 

Il coraggio è la forza d'animo che permette di affrontare situazioni nuove, incerte e spesso difficili. È un saper guardare oltre l’orizzonte e mettersi in cammino. Il coraggio è quindi una caratteristica positiva, poiché ci aiuta a prendere nuove decisioni e nuove strade, spingendoci fuori dalla nostra zona comfort. “La zona confort è un disastro per l’umanità”[2]

Di fronte alle numerose e inattese turbolenze e inquietudini che opprimono l’oggi, di fronte al vuoto valoriale che disorienta in particolare le giovani generazioni, di fronte alle droghe e alla violenza che umiliano il quotidiano, di fronte alle tempeste di informazioni (sovente contraddittorie) che obnubilano la capacità di veder bene e lontano,  che cosa può fare un insegnante (e l’istituzione scolastica) se non ha il coraggio e la capacità di uscire dalla statica  e sicura quotidianità  e  di rischiare per trovare vie nuove e più adeguate alla piena formazione di ogni persona, al superamento delle situazioni di fragilità e difficoltà, di fronte al mutar di emotività e alle mille “certezze” incerte che anche l’intelligenza artificiale ci può propinare?

E' opportuno, allora, ripensare al nostro modo “normale” e quotidiano di essere docenti o dirigenti di istituzioni educative. 

La stessa formazione iniziale e continua degli insegnanti non può limitarsi a dare contenuti, ma sarebbe bene far maturare stili nuovi di insegnamento, per promuovere coraggio, lucidità, lungimiranza, arte del discernere e dell’accompagnare su sentieri non sempre facili. 

Lo stile di Gesù e i valori del Vangelo ci sono di guida ed esempio.

Il grande sfondo sul quale si proietta oggi il compito educativo è il cambiamento antropologico; l’inquietudine è motore educativo. Non una inquietudine fatta da passività e senso di impotenza, ma l’inquietudine di chi sa di essere in cammino, con altri e per gli altri, con un bagaglio leggero e utile, per orientarsi, orientare e riorientare. Perciò, occorre sapere accogliere anche le proprie fragilità e i propri abbandoni, il peso talora di una solitudine straziante, l’angoscia e l’amarezza dei momenti di disorientamento e di sfinimento. Non però per fermarsi, ma per ripartire verso la salvezza, il sorriso, la speranza incontrata e agita, la Pasqua.

Il servizio educativo, infatti, non serve solamente ad aiutare le persone a costruire un futuro insieme. Esso è una storia condivisa che aiuta gli alunni, ma anche gli insegnanti, non solo a fare, ma principalmente ad essere: “Si educa con quello che si dice, ancor più con quello che si fa, ma molto di più con quello che si è”[3].

Dunque, dall’etica della sicurezza, del programma, dei contenuti, delle strategie, del “così si è fatto sempre” è opportuno far passare all’etica del viandante, del peregrinare, del continuo sfidarsi, cercare  ed esplorare, dell’interrogarsi e dell’agire. 

Bisogna avere il coraggio di uscir fuori, di rischiare, ci dice Papa Francesco. Uscire fuori, concretamente e metaforicamente, dalle nostre accoglienti e sicure aule per confrontarsi con il mondo, per rigenerare sempre, con coraggio e sapienza, il nostro modo di essere e di far essere.

“L’etica del viandante avvia a questi pensieri. Sono pensieri ancora tutti da pensare, ma il paesaggio da essi dispiegato è già la nostra instabile, provvisoria e incompiuta dimora”. L’etica del viandante si oppone all’etica antropologica del dominio della Terra. Denuncia il nostro modello di civiltà e mette in evidenza che la sua diffusione in tutto il pianeta equivale alla fine della biosfera. L’umanesimo del dominio è un umanesimo senza futuro. Il viandante percorre invece la terra senza possederla, perché sa che la vita appartiene al Creatore.[4]

Il cammino interroga, sfida e insegna; favorisce la continua rigenerazione e il superamento dell’ostacolo; provoca l’incontro ad ogni passo con se stessi e con il mondo; gratifica e “permette di ritrovare il puro sentimento di essere, di riscoprire la semplice gioia di esistere.” [5] e, allo stesso tempo stimola a far sempre meglio. Il cammino comune arricchisce e ringiovanisce l’intera comunità.

Papa Francesco ci dice che “la vivace presenza di educatori cristiani nel mondo della scuola è di vitale importanza. È decisivo lo stile che egli o ella assume. L’educatore cristiano, infatti, è chiamato ad essere nello stesso tempo pienamente umano e pienamente cristiano. Non c’è umanesimo senza cristianesimo. E non c’è cristianesimo senza umanesimo. Non dev’essere spiritualista, in orbita, “fuori dal mondo”. Dev’essere radicato nel presente, nel suo tempo, nella sua cultura. È importante che la sua personalità sia ricca, aperta, capace di stabilire relazioni sincere con gli studenti, di capire le loro esigenze più profonde, le loro domande, le loro paure, i loro sogni. E che sia anche capace di testimoniare – anzitutto con la vita e anche con le parole – che la fede cristiana abbraccia tutto l’umano, tutto, che porta luce e verità in ogni ambito dell’esistenza, senza escludere niente, senza tagliare le ali ai sogni dei giovani, senza impoverire le loro aspirazioni. Nella tradizione della Chiesa, infatti, l’educazione dei giovani ha sempre avuto come obiettivo la formazione completa della persona umana, non solo l’istruzione dei concetti, la formazione in tutte le dimensioni umane (cfr. Conc. Vat. II, Cost. past. Gaudium et Spes, 48)….. [6].

 “Lo Spirito Santo ci guida nei percorsi migliori da prendere. Egli ci invita a non perdere mai la fiducia e a ricominciare sempre, facendoci mettere in gioco e portandoci a incontrare speranza e gioia”[7].

Buon cammino.



[1] Papa Francesco, Enciclica “Fratelli tutti”

[2] Paolo Crepet

[3] S. Ignazio di Antiochia

[4] Galimberti, L’etica del viandante, ed. Feltrinelli, 2023

[5] Frédéric Gros

[6] Papa Francesco, Discorso ai partecipanti al Congresso UMEC, Roma, 12 novembre 2022

[7] Papa Francesco, Omelia per la solennità della Pentecoste 2022.

martedì 5 settembre 2023

L'ETICA DEL VIANDANTE

 

L’umanesimo del dominio 

è un umanesimo senza futuro. 


L’Occidente ha due radici: il mondo greco e la tradizione giudaico-cristiana. Per quanto dischiudano orizzonti completamente diversi, entrambi descrivono un mondo dotato di ordine e stabilità. Ma noi viviamo nell’età della tecnica. 

È finito l’incanto del mondo tipico degli antichi. È finito anche il disincanto dei moderni, che ancora agivano secondo un orizzonte di senso e un fine. La tecnica non tende a uno scopo, non apre scenari di salvezza, non svela la verità: la tecnica funziona. 

L’etica, come forma dell’agire in vista di fini, celebra la sua impotenza. Il mondo è ora regolato dal fare come pura produzione di risultati. L’unica etica possibile, scrive Umberto Galimberti, è quella del viandante. A differenza del viaggiatore, il viandante non ha meta. Il suo percorso nomade, tutt’altro che un’anarchica erranza, si fa carico dell’assenza di uno scopo. 

Il viandante spinge avanti i suoi passi, ma non più con l’intenzione di trovare qualcosa, la casa, la patria, l’amore, la verità, la salvezza. Cammina per non perdere le figure del paesaggio. E così scopre il vuoto della legge e il sonno della politica, ancora incuranti dell’unica condizione comune all’umanità: come l’Ulisse dantesco, tutti gli uomini sono uomini di frontiera. 

Oggi l’uomo sa di non essere al centro. L’etica del viandante si oppone all’etica antropologica del dominio della Terra. Denuncia il nostro modello di civiltà e mette in evidenza che la sua diffusione in tutto il pianeta equivale alla fine della biosfera. L’umanesimo del dominio è un umanesimo senza futuro. 

Il viandante percorre invece la terra senza possederla, perché sa che la vita appartiene alla natura. Così ci guida Galimberti: “L’etica del viandante avvia a questi pensieri. Sono pensieri ancora tutti da pensare, ma il paesaggio da essi dispiegato è già la nostra instabile, provvisoria e incompiuta dimora”.

 

Commento di Davide D'Alessandro

 Ho letto in anteprima il bellissimo libro di Umberto Galimberti, forse il migliore dei suoi, L’etica del viandante, in uscita da Feltrinelli. Il viandante ricorda Georg Simmel, oggi viene e domani va, al contrario dello straniero, che oggi viene e domani resta. Al viandante, all’etica del viandante, Galimberti assegna l’ultima possibilità di vita all’interno di un universo tecnico, di un assoluto tecnico, che ha frantumato e dissolto ogni senso di stabilità, di normatività, di prevedibilità: “Consegnato al nomadismo, il viandante spinge avanti i suoi passi, ma non più con l’intenzione di trovare qualcosa: la casa, la patria, l’amore, la verità, la salvezza. Anche questi scenari si sono fatti instabili, non più mete dell’intenzione o dell’azione umana, ma doni del paesaggio che ha reso il viandante senza una meta, perché è il paesaggio stesso la meta, basta percepirlo, sentirlo, accoglierlo nell’assenza spaesante del suo senza-confine”.

 È stato Emanuele Severino, maestro anche di Galimberti, a insegnarci che l’etica non può impedire alla tecnica, che può, di fare ciò che può. Ditelo a coloro che ancora si scaldano nel pronunciare le parole individuo, identità, libertà, cultura di massa, verità, ragione, ideologia, politica, democrazia, etica, natura, religione, storia, nazione, stato, che sono parole di un tempo che fu, parole dilaniate da un meccanismo non avente altro scopo che il proprio potenziamento, che “ha risolto l’agire dell’uomo, che è sempre stato orientato a uno scopo, in puro e semplice fare azioni descritte e prescritte dall’apparato tecnico del quale si ignorano gli scopi finali perché non percepibili o perché, là dove possono essere percepiti, non comportano alcuna responsabilità diretta di quanti operano nei singoli settori dell’apparato”.

 Galimberti, che si definisce uomo greco, ripercorre le radici occidentali, il mondo greco e la tradizione giudaico-cristiana, mostrando come sianoi caratterizzati da ordine e stabilità, descrive i passaggi fondamentali dell’incantamento e del disincantamento, della modernità, della post-modernità o dell’iper-modernità, approda a Nietzsche, che da profeta, aveva capito tutto prima che tutti gli altri se ne rendessero conto: “Io sono un viandante che sale su pei monti, diceva Zarathustra al suo cuore, io non amo le pianure e, a quanto sembra, non mi riesce di fermarmi a lungo. E, quali siano i destini e le esperienze che io mi trovi a vivere, vi sarà sempre in essi un peregrinare e un salire sui monti: infine non si vive se non con sé stessi”.

 Un’altra creatura …creativa, Jiddu Krishnamurti, che amava definirsi “niente”, privo di ogni etichetta, ruolo, funzione e identificazione, libero dal conosciuto, per decenni è andato in giro per il mondo, ha tenuto discorsi raccolti in libri insuperabili, dov’è davvero possibile rintracciare il senso vero della libertà, dell’intelligenza, del vuoto e della pienezza senza pieno. Oggi anche Galimberti scrive che, per un’etica planetaria, cosmopolita, occorre rinunciare all’idea di Stato: “L’etica cosmopolita proibisce di uccidere, mentre l’etica dello Stato limita questa proibizione solo all’interno dei propri confini, sospendendola quando gli abitanti oltre confine sono percepiti come nemici. L’etica cosmopolita ritiene che i beni della terra sono a disposizione dell’intera umanità senza discriminazione, mentre l’etica dello Stato ne limita la disponibilità al rispetto della proprietà delimitata dai confini dello Stato”.

Quando Krishnamurti, morto nel 1986, sosteneva che la bandiera era soltanto uno straccetto di stoffa per farne il simbolo della divisione, del conflitto, della guerra, gli uomini di Stato, che sull’idea di Stato avevano costruito carriere e ricchezze, si voltavano dall’altra parte. Ora, nel 2023, anche Galimberti scrive che “se un tempo è stato deciso, se vuoi salvare la pace allora delega allo Stato una parte delle tue libertà, così ora, se vuoi salvare la vita dell’umanità, allora è necessario che le nazioni rinuncino a una parte dei loro interessi per salvare la Terra, accedendo a quella cultura ecologista che è alla base dell’etica planetaria”.

 Krishnamurti non è stato ascoltato e neppure Galimberti lo sarà. Le bandiere continueranno a sventolare e gli uomini, all’interno e all’esterno dei loro Stati, continueranno a fare le guerre. Soltanto pochi singoli continueranno a considerarsi viandanti, a vivere da viandanti, a osservare ciò che è e non ciò che dovrebbe essere, a vivere senza illusioni. Il futuro è adesso.

 Galimberti, L'etica del viandante, Feltrinelli editore, settembre 2023

Huffington Post