ma la fratellanza
e la cura della nostra Terra
sono
l’unica etica possibile”
Può
essere considerata – e alcuni critici lo hanno fatto – come la summa del suo
pensiero, il “lavoro di una vita”. L’etica del viandante (Feltrinelli) è
l’ultima opera del filosofo, psicoanalista e docente Umberto Galimberti.
“L’etica
del viandante è un’etica nuova, necessaria, perché nell’età della tecnica tutte
le etiche dell’Occidente sono implose. Come fa l’etica a dire alla tecnica di
non fare ciò che può? Tutte le etiche che abbiamo formulato, che sono etiche
antropologiche in quanto mettono l’uomo al centro dell’universo, non funzionano
più”.
Se
l’uomo non è più al centro, cosa lo è?
“Occorre
proporre un’etica biocentrica, dal greco bios che significa vita. La vita c’era
prima dell’uomo e ci sarà dopo la sua scomparsa. E se la specie è ciò che
unifica etnie, tribù, popolazioni, la specie deve salvare la terra che è
l’unica nostra patria, molto prima della patria nativa”.
Al
punto da abbandonare il concetto stesso di Stato.
“Assolutamente
sì, perché per fare un’etica planetaria è necessaria la soppressione degli
Stati perché lo Stato stabilisce la pace all’interno dei suoi confini, mentre
aldilà dei suoi confini tollera la guerra. D’altronde tecnica e mercato, con il
loro carattere transnazionale, hanno già abbandonato l’idea di Stato, che ormai
sembra esistere unicamente per difenderci dai disperati della terra”.
E
lei a questa logica contrappone quella della fratellanza.
“Per
fare un’etica collettiva va ripreso il concetto di fraternità. La Rivoluzione
francese aveva professato liberté, égalité, fraternité. Con la liberté abbiamo
dato vita alla cultura liberaldemocratica, con l’égalité a quella
socialdemocratica, la fraternité si è persa per strada”.
Come
recuperarla?
“Le
ferite della terra ci collocano come membri della specie e non come membri
dello Stato. E allora alla ragion di Stato si deve sostituire la ragione
dell’umanità. Una ragione che non può essere raggiunta sulla base dei valori,
perché i valori dividono le popolazioni”.
E
su che base?
“Dovremmo
farlo sulla base dell’interesse, perché sul piano dell’interesse è possibile la
mediazione. Per questo è essenziale fare un passaggio, un’evoluzione: come
l’uomo ha fatto un’evoluzione biologica, a differenza dell’animale, così può
fare anche un’evoluzione culturale”.
In
che modo?
“Come
la logica del nemico è riuscita a passare dalla clava alla bomba atomica, così
un’evoluzione in direzione della fratellanza può creare un’etica nuova che deve
comprendere, però, anche i diritti della natura. Il modello è quello di San
Francesco che diceva ‘Fratello sole, sorella luna’. Perché i diritti dell’uomo
separati da quelli della natura diventano a loro volta un elemento distruttivo”.
Ha
parlato dell’atomica, al centro del film di Nolan Oppenheimer, tratto da un
libro che ha come titolo originale Prometeo americano. Un Prometeo scatenato
direbbe lei.
“Abbiamo
perso il senso del limite che avevano i greci. Loro Prometeo l’avevano
incatenato, noi l’abbiamo scatenato. Ma come diceva la sapienza greca, ‘chi non
conosce il proprio limite, tema il destino’. Il nostro destino è che stiamo
distruggendo la terra”.
Quale
può essere il ruolo della letteratura e dell’arte in questo scenario?
“L’arte
e la letteratura sono tutte volontà di potenza deboli rispetto alla tecnica,
che rappresenta la volontà di potenza forte. Sembra non abbiano rilevanza. La
letteratura serve a educare i nostri sentimenti, che è già una cosa buona. Noi
riempiamo le scuole di computer, quando è la letteratura che ci insegna cosa
sono il dolore e l’amore, la gioia e la speranza. Se queste cose non si hanno
in testa quando si affronta l’angoscia, non ci si può salvare”.
Anche
la libertà è sempre legata alla tecnica, ne è vincolata.
“Non
credo nella libertà. Sono un determinista duro, come i greci. Esiste però
l’illusione, l’idea di libertà. E le idee spesso creano più incognite di quanto
non facciano le cose. Ma la libertà non esiste per una semplice ragione:
confligge con la nostra identità”.
Come?
“Le
faccio un esempio. Jean Paul Sartre un giorno andò in montagna, si ruppe una
gamba e finì in ospedale. Andò a trovarlo un altro filosofo, Maurice
Merleau-Ponty che gli domandò perché non avesse chiesto ad una guida di accompagnarlo.
Sartre gli rispose: ‘Io? Non ho bisogno di andare in montagna con una guida’.
Ecco l’identità. (Ride, ndr)”.
E
la necessità di dare un senso all’esistenza, che risposte può avere?
“Il
bisogno di senso non si salva. Non si salva la sua ricerca affannosa, la sua
domanda incessante a cui cercano di dare risposta le religioni con le loro
promozioni di fede. E nemmeno le pratiche terapeutiche con le loro promozioni
di salute. Nell’età della tecnica questa ricerca rivela solo che la figura del
‘senso’ non si è salvata dall’universo dei mezzi. Per cui non è tanto il
laicismo quanto la cultura della tecnica a corrodere il trono di Dio”.
Nessuno
scopo, dunque, nessuna meta.
“La
tecnica non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza,
non redime, non svela la verità: la tecnica funziona. È un concetto, questo,
che a più riprese Heidegger ribadisce in tutta la sua radicalità: ‘Tutto
funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare
spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare, e che la tecnica strappa e
sradica l’uomo sempre più dalla Terra’”.
Heidegger
temeva questa deriva.
“Sempre
in quella intervista per lo Spiegel, Heidegger sostiene di essersi spaventato
alla vista delle fotografie della Terra scattate dalla Luna. ‘Non c’è bisogno
della bomba atomica: lo sradicamento dell’uomo è già fatto’, disse. Era il
1966″.
Come
ci si pone allora di fronte alla verità?
“La
verità non è più la conformità all’ordine del cosmo o di Dio, ma pura e
semplice efficacia. Se infatti l’ordine del mondo non dimora più nel suo
essere, ma dipende dal ‘fare tecnico’, vero sarà l’efficace, ossia ciò che ha
le condizioni per realizzarsi, e falso l’inefficace”.
Da
qui l’urgenza di un’etica planetaria,
incarnata dalla figura del viandante.
“Il
viandante non ha una meta da realizzare, non ha neanche un sentiero da
percorrere. A tracciare il pensiero del viandante sono le sue orme. Cammina per
fare esperienza. Il prossimo che incontra è sempre meno specchio di sé e sempre
più altro. È costretto a fare i conti con la differenza”.
Il
suo viandante può essere paragonato a un moderno Ulisse?
“È
più l’Ulisse di Dante che quello di Omero”.
In
che senso?
“Quella
di cui parlo non è tanto l’Odissea in cui Itaca fa di ogni luogo una semplice
tappa sulla via del ritorno. È un’Odissea intesa come ripresa del viaggio,
secondo la profezia di Tiresia, per cui è il letto scavato nell’ulivo intorno a
cui è stata edificata la reggia a divenire una tappa del successivo andare”.
Da
qui il riferimento dantesco.
“Questo
andare è quello che Dante riprende, lui stesso viandante, spingendo il suo
Ulisse ‘di retro al sol, del mondo sanza gente’, per cui né alba né tramonto
possono più indicare non solo la meta, ma neppure la direzione”.
Il
viandante, dunque, nell’accezione di Nietzsche, è il navigante verso terre
sconosciute.
“Esattamente.
Affrancarsi dalla meta significa abbandonarsi alla corrente della vita, non più
spettatori, ma naviganti e, in qualche caso, come l’Ulisse dantesco, naufraghi.
Nietzsche, che del nomadismo è forse il miglior interprete, così scrive: ‘Se in
me è quella voglia di cercare che spinge le vele verso terre non ancora
scoperte, se nel mio piacere è un piacere di navigante: se mai gridai
giubilante: la costa scomparve – ecco anche la mia ultima catena è caduta –, il
senza-fine mugghia intorno a me, laggiù lontano splende per me lo spazio e il
tempo: orsù! coraggio! vecchio cuore!'”.
Il
coraggio di chi intraprende un viaggio di cui non conosce l’esito. Come i
migranti.
“Nel
nostro tempo abbiamo fatto i conti con la proprietà, il territorio, la legge.
Oggi i processi migratori confondono i confini che per il viandante sono più
nella testa degli uomini che nel disegno della Terra. Ecco che dalla sua
esperienza il viandante trae la conclusione che siamo tutti uomini di
frontiera. E la storia futura sarà nel segno della de-territorializzazione. E
le nozioni di proprietà, territorio, confine e legge finiranno con l’essere dei
rami secchi in un albero inaridito”.
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