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venerdì 17 novembre 2023

I GESTI DELL'INCONTRO


In cammino

 verso 

la speranza: 

i gesti dell'incontro 

 


 Giovanni Cesare Pagazzi*


 Il tema che il Santo Padre Francesco ha affidato al Giubileo ormai alle porte è “Pellegrini della speranza”. Vorrei svolgere con voi il senso – anche educativo – di un gesto compiuto da tutti, alla portata di tutti; un gesto quotidiano che, anche se compiuto senza piena avvertenza, è carico di speranza. Si tratta di un gesto che accomuna tutta l’umanità, capace di fornire la grammatica e il vocabolario elementari per annunciare il Vangelo. Del resto questa è una delle strategie a cui spesso ricorre il magistero del Santo Padre Francesco e ritengo uno dei semi teologici più promettenti del suo pontificato. È un gesto così gravido di senso che necessita quell’approccio transdisciplinare richiesto dalla Veritatis Gaudium. Mi riferisco al gesto di salutare che si insegna e si apprende in famiglia, fin dall’origine della vita.

Si ricevono saluti fin dai primi giorni di vita, quando i genitori – con indubbio protagonismo della madre – compiono nei riguardi del bambino il gesto iniziale di ogni saluto: guardare un volto, ospitarlo nel proprio campo visivo, riconoscendolo degno di attenzione. Anche quel saluto li rende genitori. A ben vedere, l’azione dei due adulti è assai coraggiosa, poiché guardano chi al momento non può ricambiare lo sguardo e quindi nemmeno il saluto. Salutano chi certamente non saluterà. Il saluto arriva al bimbo da fuori (dalla mamma e dal papà), prima che egli possa desiderarlo e immaginarlo. Come Dio che giunge dall’esterno, dall’alto, fuori portata. I primi saluti dei genitori sono anche le esperienze iniziali della trascendenza. Il benvenuto della mamma e del papà, generoso e apparentemente privo di senso, dura per tutto il primo mese di vita del piccolo, al termine del quale il bimbo finalmente sarà in grado di ricambiare lo sguardo. Lo stesso accade con un altro elemento costitutivo di ogni saluto compiuto: il sorriso. Infatti, papà e mamma sorridono continuamente al bambino, nonostante egli non possa contraccambiare; e ciò almeno per due mesi. Grazie al coraggioso saluto iniziale dei genitori, il fuoco passa da una candela accesa ad un’altra ancora spenta, avviando la combustione di un’anima al momento inerte, ma già pronta ad infiammarsi. Infatti, restituendo sguardo e sorriso, salutando a sua volta, il bimbo pronuncia in modo tutto gestuale il suo primo “Io sono” e il suo primo “Tu sei”. Se i genitori non avessero salutato per primi, e continuato a salutare a vuoto, cosa sarebbe successo? O meglio: cosa non sarebbe accaduto? Il primo “Io sono” e “Tu sei” ha luogo, come ogni sorriso, attorno alla bocca, vale a dire la porta del corpo, da dove fin dall’inizio entra l’aria e, subito dopo, il latte; in breve: la vita. Vita e sorriso abitano da sempre la stessa casa. L’uomo non separi ciò che Dio ha unito.

Non per nulla una delle più commoventi liriche del ’900 italiano comincia con «Ripenso il tuo sorriso». Il primo stico della poesia non recita “Ripenso al tuo sorriso”, alludendo a un’operazione mnemonica, bensì «Ripenso il tuo sorriso», come se quell’espressione facciale fosse oggetto di riflessione, tema di meditazione raccolta, ragionamento e valutazione. Insomma, il sorriso dà a pensare. Tra molte altre cose, con logica poetica, il testo di Eugenio Montale argomenta che il sorriso è una cosa seria. Effettivamente è una delle sorgenti dell’umanità dell’uomo e l’abc del saluto. Con buona pace di Cartesio, posso affermare «Io sono» non è perché «Io penso», ma perché fin dall’inizio sono stato salutato e ho ricambiato il saluto. Perciò il regista Robert Zemeckis, nel film Cast Away (2000), racconta come il sorriso sia il gesto necessario e sufficiente a indicare l’umanità dell’uomo. A motivo di un incidente aereo, Chack Nolan, funzionario di una famosa ditta di spedizioni, si ritrova su un atollo disabitato, sperduto in mezzo all’oceano. Sopravvive grazie a qualche provvista e utensile, relitti dell’aereo, rigurgitati dall’oceano sulla spiaggia dell’isolotto. Tra queste cose, trova un pallone da pallavolo. Con il proprio sangue disegna sulla palla i tratti di un volto, dove spicca un sorriso. Da quel momento il pallone diventa Wilson e sarà l’unico interlocutore di Chack durante i quattro anni di solitudine. Con lui si confida, litiga, si riconcilia, scherza; per lui piange, straziato di dolore, quando, abbandonando l’atollo su una zattera, Wilson finisce in mare e la deriva rende vano il pericoloso tentativo di recuperarlo. Il sorriso transustanzia una cosa in una persona. Cosa significherà la sua perenne assenza da un volto?

Il sorriso ricevuto fin dagli inizi della vita e scambiato salutando da adulti manifesta interesse e desiderio della pace. Isolato, l’interesse per qualcuno può scatenare violenza e ingiustizia. Con il sorriso, se non è artificiale né falso, il corpo invita l’altro a disarmarsi, poiché per primo ha deposto le armi. Infatti, col sorriso si mostrano le armi più potenti e letali dei mammiferi: i denti, la morsa micidiale che cattura, ferisce, sbrana prede e nemici. I muscoli più robusti del corpo umano sono i masseteri, protagonisti dell’apertura e occlusione della mandibola. Artefici della triturazione, esercitano una forza di circa 100 chilogrammi. Alcuni dipinti di Francis Bacon rendono in maniera inquietante la violenza bramosa e angosciata di bocca e denti. Nella distensione del sorriso, si disinnesca quindi un’energia potenzialmente mortale, intavolando una trattativa di pace. Non è possibile addentare e al contempo sorridere. Certo, esistono tanti tipi di sorriso quanti aggettivi nei dizionari. In ogni caso, quando il sorriso riverbera l’affetto sorgivo provato all’inizio della vita non esprime altro che il candido piacere di esistere, il piacere che l’altro esista e perciò è l’intrepido avversario del nulla.

Se si eccettua il solenne saluto rivolto dagli antichi poeti a Virgilio, di passaggio per il Limbo, nell’Inferno dantesco né si saluta né si sorride. Giunto in Purgatorio, il fiorentino non torna solo «a riveder le stelle», ma anche i saluti e i sorrisi. Con la luce, il sorriso è la caratteristica principale del Paradiso secondo Dante. Lì tutto e tutti sorridono. In Paradiso sorridono i santi e le sante, i pianeti e cieli, l’universo intero. Il Dio di Dante assomiglia a una mamma che accende il primo sorriso nella sua creatura e riesce a far sorridere di nuovo, perfino dopo il tristissimo pianto della morte. Che potere!

Al dire di alcuni studiosi, anche altre componenti del saluto – il bacio e la stretta di mano – farebbero parte della gestualità infantile. Il bacio, infatti, avrebbe un’origine alimentare. Anticamente, durante lo svezzamento, le madri premasticavano il cibo, facilitandone l’assunzione e la digestione da parte del piccolo. Attraverso la lingua e le labbra la donna passava direttamente nella bocca del bambino l’alimento da lei prima triturato. Così pure il bacio sulle guance, accompagnato dal movimento laterale del capo, richiama il gesto eseguito dal lattante alla ricerca del seno materno. Infine, la stretta di mano rievoca la mano tesa del papà e della mamma che sostengono il bimbo nei suoi primi passi incerti e gli dimostrano vicinanza e affetto quando, più grande, lo accompagnano mano nella mano. Se così stanno le cose, molti degli elementi comuni ad ogni saluto riporterebbero l’incontro di chi si scambia il benvenuto o si congeda alle promesse di affetto fedele che i genitori, la casa e le cose fecero ad ogni bambino e bambina all’origine della loro vita. La gestualità dei saluti (compresa quella dei Maori che contemporaneamente si toccano fronte e naso) sarebbe un’immersione quotidiana, ripetuta più volte al giorno, nelle promesse ricevute durante l’infanzia, un reciproco incoraggiamento e impegno affinché tali promesse siano mantenute.

Il saluto è l’offerta preliminare di se stessi, l’ingresso nella vita di un altro. Ci si accredita presso l’interlocutore attraverso gesti primordiali (lo sguardo, il sorriso, la mano tesa…), sollecitando il ricordo di un’infanzia comune. In tal modo si ravviva una familiarità sopita e immemorabile, precedente ogni consapevole iniziativa. Come a dire: pur non conoscendoci, parliamo lo stesso linguaggio, o meglio, direbbe Marcel Jousse, lo stesso «corporaggio», appreso agli esordi della nostra vita. Il saluto ci precede entrambi e in tal modo ci accomuna. Quando ci salutiamo, quindi, ci troviamo già nel saluto, perciò siamo capaci di salutare. La cosa è ancor più evidente quando si incontrano persone di lingua e cultura diverse, caratterizzate anche da chiare differenze gestuali nel salutare: non comprendono le parole l’uno dell’altro e magari si meravigliano della estraneità dei gesti, tuttavia ciascuno intuisce che l’altro sta salutando.

Si saluta perché ci si sente accumunati da qualcosa e in vista del potenziale sviluppo di quanto sta già alle nostre spalle. Infatti, chi saluta sonda la possibilità dell’inizio di una relazione, sia essa istantanea o duratura. Se questo interesse e intenzione mancassero del tutto, perfino il semplice “Buon giorno” sarebbe una gaffe. Chi saluta per primo, specie in un incontro inedito o nel tentativo di ricucire un rapporto, si espone alla varietà di reazioni di chi è salutato, accettando il rischio di essere respinto, magari molto gentilmente. Salutare per primi è espressione primigenia e quotidiana di coraggio il quale è «l’inizio di tutto». Il coraggio è una spinta primaria e fondatrice, su cui si aggancia la fedeltà, cioè la virtù della continuazione. Senza coraggio, nessuna azione, nessuna relazione, nessuna fedeltà.

Tra le sfide più complesse ed esaltanti di un bambino sta la prima pedalata in bicicletta, senza il supporto rassicurante delle rotelle posteriori. Insieme alle due ruote maggiori, garantiscono quattro punti d’appoggio e stabilità completa, ma rendono il veicolo più simile all’infantile, impacciato triciclo che alla bicicletta elegante e svelta. Prima della pedalata sulle sole due ruote, a volte è opportuno un passaggio intermedio: mantenere almeno una rotella posteriore. Così il piccolo può assaggiare l’equilibrio instabile della bici e, all’occorrenza, contare su un terzo comodo sostegno. Tuttavia, prima o poi, arriva il momento di lasciare anche quest’ultima sicurezza. Certo, gli stadi precedenti hanno preparato il bambino a questo appuntamento, eppure andare su due ruote è un’esperienza d’ordine diverso; tutt’altra cosa. Molte sono le azioni richieste: pedalare, governare manubrio e freni, guardare avanti, studiare il fondo stradale, evitare ostacoli d’ogni genere e, naturalmente, mantenersi in equilibrio. Tutte faccende da sbrigare contemporaneamente. Oltre a questo, il piccolo che inforca la bici per la prima volta, deve sorbirsi le sacrosante raccomandazioni dei genitori: “Sta’ attento!”, “Non andare veloce!”, “Pedala!”, “Guarda dove vai!”, “Alza la testa!”, “Non guardare la ruota!”, “Accelera”, “Frena!”, “Non Frenare!”. Roba da far passar la voglia d’andare in bici. A ciò si aggiunge la comprensibile paura di cadere. La paura induce a un’eccessiva prudenza, magari sostenuta da pensieri troppo puntigliosi. Se il bimbo organizzasse mentalmente la sequenza delle azioni da compiere, enumerandole e classificandole in un ordine preciso, si spaventerebbe ancor più. Se volesse prevedere ogni mossa e l’insieme delle variabili di un atto così complesso, rimanderebbe il primo colpo di pedale all’infinito, al giorno impossibile in cui avrà tutto sotto controllo. Pretendendo di avere la certezza della riuscita prima di agire, non agirà mai. In questo caso, a nulla serve l’insistenza dei genitori circa la facilità dell’esecuzione. Inutile anche un’argomentata dimostrazione fisica dell’effetto giroscopico, garante dell’equilibrio della bici. Il bambino rimane comunque bloccato; non lo persuadono né propri né altrui sillogismi. Eppure, nessuno può prendere il suo posto; il piccolo si trova di fronte alla propria insostituibile unicità: tocca a lui, a nessun altro.

Cosa trasforma il suo desiderio di andare in bici nella prima, effettiva pedalata? Cosa getta un ponte senza pilastri sul buio vuoto della paura, dell’indecisione e degli alibi codardi? Il coraggio che è l’abc della speranza. Si afferma e si impone, non si sa come, non si sa da dove, quel “non so che”, il fiat lux del coraggio. Nel caos dell’anima, immobile anche se agitato da tentennamenti e scuse, irrompe tranciante, drastica e ineluttabile una decisione inaugurale che, protestando contro l’inerzia di una coscienza troppo avvertita, troppo lucida, calcolatrice e preveggente, crea qualcosa di nuovo. Non amando i fronzoli (né mentali né emotivi), il coraggio arriva subito al punto; mira al necessario, evitando tutto quanto dissipa la forza d’urto della decisione inaugurale. Perciò il coraggio assomiglia alla povertà, alla virtù che vede nel superfluo un’indecente perdita di tempo e di energie. «Beati i poveri in spirito»… perché in genere hanno coraggio da vendere. Vuoi vedere che, gratta gratta, sotto chi accumula sta una persona senza coraggio?

Spinto dal presagio di riuscire e dalla disponibilità a cadere, rompendosi le ossa, il bambino innesca il fuoco sacro, ben più misterioso della chimica che l’ha prodotto. Il coraggio non lo trasforma nell’avventuriero imprudente che gioca con la paura e la morte per darsi una statura truccata, o procurarsi una scossa antidepressiva. Semmai lo rende avventuroso: uno che rischia la vita in nome della vita. Ed ecco l’inizio, l’inaugurazione di una nuova era nella vita del piccolo. C’è un prima e un dopo quel colpo di pedale. Come il prima e il dopo la creazione della luce.

La biciletta è una cosa curiosa: paradossalmente, la sua stabilità è ottenuta tramite la dinamica. Più pedali e ti muovi, più sei stabile, in equilibrio; se stai fermo, cadi. Ecco allora che dopo la prima pedalata deve arrivare la seconda, la terza, la quarta e così via…. Il movimento è regolare, un cerchio perfetto tracciato da ciascun piede, eppure andare in bici esige un continuo adattamento alle anomalie dell’asfalto, a pedoni e auto che attraversano all’improvviso, all’alternarsi di curve, rettilinei, controcurve (il modo migliore per andare fuori strada è andare sempre dritto!). Ciò significa che per essere fedeli al primo colpo di pedale, è necessaria una lunga serie di nuovi piccoli ricominciamenti di coraggio. Vladimir Jankélévitch direbbe: «il coraggio non è solo lo spasimo della prima decisione, ma uno stato», la paziente, fedele continuazione dell’inizio, del primo colpo di pedale. Se un atto di coraggio non generasse un coraggioso sarebbe solo un caso fortuito, un episodio accidentale. Il coraggio è così miracoloso da reclamare fedeltà. Del resto, è risaputo: per rimanere fedeli ci vuol coraggio.

Chi saluta per primo non si dà alibi, non cede ai calcoli, non si ingarbuglia nell’enumerazione interminabile dei pro e contro, ma si sbilancia verso il vuoto, risolvendo tutti gli eventuali problemi di quel saluto, salutando. Chi saluta per primo non dosa, ma rischia il tutto per tutto con larghezza d’animo. In questo senso il primo saluto ha anche una dimensione sacrificale oltre a quella creativa: per inaugurare qualcosa di nuovo non bada a spese. Con espressione ruvida e magnifica, Jankélévitch afferma che «il diavolo non può farci male, ma può farci paura. Il diavolo crepa per la nostra innocenza e il nostro coraggio»[i]. Ci mette paura per spegnere il nostro coraggio. Magari ci vuole avventati, imprudenti, ma non coraggiosi, perché nel coraggio scintilla l’immagine e la somiglianza di Dio; come nel gesto assurdo dei genitori che continuano a guardare chi non guarda, a sorridere a chi non sorride, o nell’iniziale pedalata del bambino, o nello sbilanciamento del primo saluto. Dio infatti è il Coraggioso, perché, da sempre, nella sua libertà, ha deciso di esistere, esponendosi sulle tenebre immani e inerti del nulla. Se davvero Dio è infinitamente libero – argomenta con tocco commosso e mistico il filosofo italiano Luigi Pareyson – paradossalmente, avrebbe potuto perfino decidere di non esistere, rimanendo nella confusione statica di un nulla, dove tutto è possibile, ma niente prende forma. Tuttavia, da sempre, con un lampo improvviso, pur potendo negarsi, la libertà di Dio afferma audacemente se stessa: “Io sono”, «un’operazione immane e terribile»[ii], il primo atto di coraggio che insorge contro la vigliaccheria informe e sterile del nulla. Da quella originaria, eterna decisione consegue che esistere è cosa buona. Perciò, da sempre, Dio volle essere Padre, dando esistenza a un altro, al Figlio, per mezzo del quale «tutte le cose sono state create» (Col 1,16). “In principio era il coraggio” e niente e nessuno sarebbe avvenuto senza di esso. Un sasso, una foglia, un lupo, un delfino, una stella, il vento, un uomo e una donna, un bambino sono segni del coraggio eterno di Dio.

Chi saluta per primo è coraggioso, perché non teme di passare alle dipendenze del suo interlocutore: risponderà? Rifiuterà? Inoltre, è coraggioso poiché non si vergogna di mostrarsi bisognoso. Infatti, non maschera il proprio bisogno di riconoscimento e di conferma, ma lo esprime senza paura. Nel saluto vibra sia la generosità di chi si offre sia la necessità di essere accettato. Del resto, il bisognoso esprime al contempo la propria mancanza e la bontà di quanto gli occorre; proprio come la fame che simultaneamente dice: “lo stomaco è vuoto e il pane è buono”.

Chi saluta per primo si espone all’altro e contemporaneamente gli si impone. Infatti, il primo saluto è un’intrusione che scuote lo stato affettivo, il flusso dei pensieri, il ritmo delle intenzioni o, più semplicemente, l’azione dall’altro. Anche chi risponde al saluto non manca di coraggio, poiché accetta di uscire dall’involucro omeostatico dell’istante vissuto, prendendo una nuova posizione. Chi reagisce al saluto si scomoda, nel senso letterale del termine: esce dalla comodità del proprio vissuto. Ciò avviene anche se decidesse di non rispondere al “Buongiorno” e tirar dritto per la sua strada; in ogni caso l’incanto del suo stato d’animo è rotto e deve raccoglierne i cocci. Se chi saluta per primo ha il coraggio di prendere l’iniziativa, chi risponde ha il coraggio di lasciarsi disturbare. Nessuno dei due sarà più come prima. Insomma, al fiat lux del primo saluto corrisponde il fiat voluntas tua di chi risponde. Difficile che non capiti qualcosa di miracoloso nell’incontro di questi due fiat.

Siamo in un tempo in cui si saluta meno; qualcuno dice anche a motivo del Covid. Pochi sono quelli che salutano lungo la strada, sul treno, in negozio… perfino entrando o uscendo da una Chiesa. È raro anche il solo cenno di un sorriso, o lo scambio di sguardi. È un tempo scoraggiato? Coraggio!

Al primo incontro, i saluti inaugurano un nuovo legame. A relazione già stabilita, essi hanno soprattutto la funzione di confermarla, attraverso un reciproco «debito gestuale», commisurato al tempo di separazione di chi ora si ritrova. Tanto più prolungata la lontananza, tanto più caloroso è il saluto, quasi a recuperare il tempo perduto. Emblematico è il bisogno di salutare dei bambini: salutano molto più frequentemente degli adulti, magari col solo sorriso. Ciò a motivo della necessità di continue conferme dell’affetto dei genitori e di chi si prende cura di loro. Così pure, a tutte le età, la ripresa incerta dei saluti dopo un litigio assicura comunque la persistenza della relazione, nonostante lo scontro avvenuto. Al contrario, togliere il saluto equivale alla ferma, grave decisione di rompere definitivamente un rapporto, addirittura privandolo in anticipo della più semplice chance di ricomposizione.

Perché attraverso la ripetizione del saluto sentiamo il bisogno di confermare legami già stabili, e perfino intimi? Non credo si tratti solo di generica ricerca di sicurezza. Piuttosto è segno dell’inconsapevole riconoscimento di quella novità arrecata ogni giorno dalla vita. Certo, la donna a cui stasera dico “Ciao”, “Ben tornata” è la stessa a cui stamane dissi “Buona giornata”, quando uscì di casa; ed è la medesima che sposai quasi dieci anni fa. Eppure, le ore di vita trascorse dal saluto mattutino hanno prodotto in lei un tocco nuovo, una sfumatura inedita, dovuta alle esperienze di oggi. Ebbene, questa donna, conosciuta e sconosciuta, è ancora disposta a vivere con me? Ecco che il rinnovato saluto verifica la possibilità della prosecuzione dell’antico legame, ora dotato di gradazioni impreviste. Perciò anche i saluti tipici di una relazione duratura inaugurano sempre qualcosa di nuovo. Sono le sentinelle della novità e i suoi custodi.

I saluti confermano il legame soprattutto al momento del congedo, diventando particolarmente calorosi, quasi a voler sopperire alla lontananza, compensando il vuoto dell’assenza. Essi promettono la permanenza del vincolo nonostante la separazione. Indicativo è lo speciale, quotidiano congedo dei genitori dai bambini, poco prima della notte. Il buio, la perdita di controllo tipica del sonno rendono il distacco notturno spaventoso agli occhi dei piccoli. Temendo che la notte interrompa il loro legame con il papà e la mamma, esigono un saluto più duraturo ed efficace. Ecco allora l’interminabile “Buona notte”, fatta anche di ninnenanne e racconti di fiabe, già ascoltate chissà quante volte. Il “buongiorno” del nuovo mattino ricomporrà la frattura oscura della notte, mantenendo la promessa fatta prima di cadere nel sonno.

Prevedendo realisticamente che un incontro sarà l’ultimo, il congedo diventa pressoché definitivo. In questo caso, almeno nelle lingue neolatine, il saluto fa esplicito riferimento a Dio, come se egli fosse il Signore degli incontri e del loro destino; quasi che la permanenza di un legame nonostante la separazione definitiva risultasse garantita da Dio a cui spetterebbe allestire il luogo di un futuro, sperato, inimmaginabile ritrovo. Perciò: “Ad-Dio”, “A-Dieu”, “A-Diós”. Anche in congedi provvisori spesso è evocato e invocato Dio. Solo pochi esempi di un fenomeno linguisticamente molto diffuso in tutto il mondo: “Dio ti benedica”, “God bless you”; così pure nel probabilmente più diffuso congedo: “Goodbye” e le sue abbreviazioni “Bye bye”, “Bye”, derivanti dall’inglese antico e medio “God by ye”: “Dio sia con te”. Così pure nella lingua moore del popolo Mõose, in Burkina Faso: “Wẽnd na maneg f sore”: “Dio benedica la tua strada”. Dio è ricordato anche in alcuni saluti iniziali; solo un paio di esempi: il gaelico “Dia Dut”, “Dio sia con te” o il tedesco “Grüß Gott”, “Dio ti benedica, Dio ti saluti”. Insomma, sembra che quanto avviene durante i saluti sia così gravido di senso che è bene coinvolgere Dio. Ovvero è gravido di senso perché, sotto copertura, Dio ne è già coinvolto?

Se salutando si spera nel ricambio e nella conferma, la visita ai defunti per congedarsi da loro è uno dei più eloquenti paradossi umani. Perché si va a salutare chi certamente non risponderà? Perché si visita, bacia accarezza chi non potrà mai più ricambiare il saluto? Perché, nonostante si abbia l’assoluta certezza circa l’incapacità dei morti di corrispondere, si compiono tali gesti? Insensatezza? Follia? O coraggio? Magari il medesimo coraggio avuto dai nostri genitori quando ci salutarono appena nati, pur sapendo che non avrebbero ricevuto risposta. Lo stesso coraggio provato da noi stessi quando, adulti, salutiamo i neonati, ancora incapaci di guardarci e sorriderci. Da dove viene questa decisione che rompe gli indugi pedanti della logica e del buon senso? La vita di un uomo e di una donna è tesa tra due saluti impossibili: il saluto che riceviamo appena nati e il saluto che riceviamo appena morti. Questi due doni si trasformano per noi nel dovere di dare a nostra volta il benvenuto a chi nasce e nell’impegno di congedarci da chi muore. Il saluto all’inizio e quello al termine della vita sono troppo simili per non essere parenti: se nell’addio al defunto vibra il medesimo coraggio che animò gli sguardi e i sorrisi diretti al bambino, cosa ci si aspetta da questo morto? Cosa ci si aspetta per questo morto? Certamente Cristo si aspetta molto dai morti e per i morti, tant’è che a loro rivolse parole, come se potessero sentire, e comandi, come potessero obbedire. Così fece con la ragazzina defunta - «Fanciulla, io ti dico: alzati!» (Mc 5,41) -, con il figlio della vedova - «Ragazzo, dico a te: alzati!» (Lc 7,15) -, con il suo amico: «Lazzaro, vieni fuori!» (Gv 11,43). Noi umani non ci rendiamo conto del coraggio che abbiamo, salutando i morti; della speranza che nutriamo, congedandoci dai morti; siamo come genitori che danno la “Buonanotte” ai loro bambini. Salutando i morti, gettiamo il cuore al di là della notte, oltre la morte. Questo gesto è così importante che in tutte le culture e in ogni epoca si trovano riti di saluto ai morti; perfino in contesti non religiosi o addirittura antireligiosi.

Il rito delle esequie cristiano è esplicito. Al termine della celebrazione della Messa, si vive il momento chiamato «Ultima raccomandazione e commiato», dove s’incoraggia l’assemblea e si saluta il defunto.

Vien da chiedersi: cosa può un saluto? Quanto può un saluto? Il Vangelo di Luca è particolarmente interessato alla questione. Chissà cosa stava facendo Maria quando l’angelo Gabriele irruppe nella sua vita. In ogni caso, il saluto dell’angelo «turba» la ragazza che comincia a farsi domande. Ciò che la scuote e la interroga non è tanto l’apparizione di un angelo – la cosa non la scompone affatto – piuttosto il suo saluto (Lc 1,26-38). La maestà inimmaginabile del messaggio di Gabriele lascia senza fiato il lettore, col rischio di relegare sullo sfondo un dettaglio prezioso: il primo atto dell’angelo, e quindi di Dio stesso, è salutare. Dio si rivela anche come uno che saluta… e saluta per primo. In ogni caso, prima di trasmettere un messaggio, Gabriele porta i saluti. Ho detto che chi saluta per primo passa alle dipendenze di chi viene salutato: ricambierà o, indifferente e infastidito, respingerà l’offerta? In ogni caso, c’è un “prima” e un “dopo” quel gesto; chi saluta non sarà più quello di una volta. E questo vale anche per Dio. Rivolgendole il saluto, Dio considera la ragazza di Nazaret coprotagonista dell’evento, al punto che il seguito dell’incontro è nelle sue mani. Gabriele saluta usando l’imperativo del verbo greco chairein, che significa «Rallegrati». Si tratta di un modo molto comune e quotidiano di porgere i saluti; frequente nella letteratura greca e utilizzato anche nel Nuovo Testamento. Vi ricorre perfino Giuda, poco prima di baciare Gesù: «Salve, Rabbì», letteralmente: «Rallegrati, Rabbì» (Mt 26,49). Qualche studioso insiste nell’interpretare il «rallegrati» rivolto a Maria alla luce di alcune antiche profezie, dove l’invito a gioire era diretto a Gerusalemme a cui si annunciava l’imminente liberazione da parte di Dio (Sof 3,14, Zac 9,9 e Lam 4,21). Perciò l’angelo saluterebbe Maria come la Città Santa finalmente visitata dal Salvatore. Anche se altri commentatori invitano alla prudenza, l’assonanza con quelle profezie è sorprendente. Tuttavia, stupisce l’argomento principale addotto dai sostenitori dell’interpretazione profetica: se così non fosse, il saluto di Gabriele suonerebbe pressappoco come “Buongiorno”, o “Buonasera”, risultando oltremodo «banale» rispetto alla rilevanza dell’Annunciazione. Insomma, quanto avviene a Nazaret è troppo importante per un comune “Buongiorno”, sicché il saluto dell’angelo deve avere un significato più profondo. Ma perché quanto è comune dovrebbe essere banale? Certamente Gesù non è di questo avviso. Infatti, annunciando la presenza operante di Dio nella storia, il Regno dei Cieli, egli la scorge nelle realtà più comuni e feriali della vita. Non solo, per lui il saluto è il primo passo dell’evangelizzazione, dell’annuncio: «In qualunque casa entriate prima dite: “pace a questa casa”» (Lc 10,5); cioè: “dite shalom”, “salutate”. Cristo chiede di salutare, e di salutare per primi, come fece sua madre, entrando nella casa di Zaccaria (Lc 1,40). Luca si sofferma sul dettaglio, non considerandolo affatto banale. Tanto è vero che l’azione di Maria, in sé appunto ordinaria, provoca in realtà un’onda d’urto che il vangelista si compiace di narrare: «Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga a me?”» (Lc 1,41-43). Il saluto di Maria fa risuonare l’intero corpo di Elisabetta, fino a raggiungerne il grembo, abitato dal Battista. A sua volta il corpo del piccolo risuona, saltando di gioia. Non solo: il saluto produce l’irruzione dello Spirito Santo nell’anziana che immediatamente viene a conoscenza della gravidanza di Maria, definita «madre del mio Signore». Non male per essere un gesto di tutti i giorni!

Guardate dove siamo arrivati partendo dall’esperienza comune del saluto: al mistero dell’Incarnazione, allo stile dell’evangelizzazione.

Una decina d’anni fa, il mondo sorrise alle prime parole dell’appena eletto papa Francesco: «Fratelli e sorelle, buonasera». Un gesto semplice, pieno di senso e di speranza, capace di raccogliere tutta l’umanità (cristiani e non, credenti e non) in una piazza. Un esordio apparentemente insolito; in realtà non così nuovo. Infatti, una sera di circa duemila anni fa, un ebreo andò a trovare i suoi amici. Inatteso, arrivò in casa e salutò come tutti gli ebrei fanno: «Shalom!». Data l’ora, era come se avesse detto: “Una sera piena di pace!”, “Buona sera!” (Gv 20,19). Quell’ebreo era appena risorto dai morti. Eccome se era buona quella sera!

 

[i] V. Jankélévitch, Les vertus et l’amour. Traité des vertus, II, volume 1, Flammarion, Paris 1986, 138.

[ii] L. Pareyson, Filosofia della libertà, Il Melangolo, Genova 1990, 27.

* Segretario del Dicastero per la Cultura e l'Educazione


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