DI PAPA FRANCESCO
- di Andreas Gonçalves Lind
Sembra,
quindi, che la «fenomenologia ermeneutica» di Paul Ricœur, se così possiamo
chiamarla, non faccia parte dell’elenco delle correnti teologiche e filosofiche
del percorso intellettuale di Bergoglio. Tuttavia, la presenza nel suo
magistero del pensiero di questo filosofo protestante è indiscutibile.
In
questo senso, ci proponiamo di approfondire qui le tre esplicite citazioni di
Paul Ricœur che compaiono nei documenti del magistero di papa Francesco. Quindi
cercheremo di mostrare due aspetti, inscindibilmente connessi tra loro, del
magistero della Chiesa contemporanea. Da un lato, osserviamo che i riferimenti
all’opera di Ricœur appaiono in un momento in cui il Papa sembra voler
valorizzare il ruolo delle mediazioni istituzionali in relazione alla pratica
concreta, stabile e duratura della carità. Dall’altro lato, la filosofia di
Ricœur viene utilizzata nel contesto dell’affermazione di un’identità non
sclerotizzata, tanto della persona umana quanto della Chiesa stessa. Nella
forma di «identità narrativa», la Chiesa assume un’identità che è al tempo stesso
ereditata dal passato e ancora da creare nel tempo a venire.
Vicinanza
personale e istituzioni giuste: due dimensioni della carità
Nell’ultima
enciclica di papa Francesco, Fratelli tutti (FT), il riferimento a Ricœur
compare per la prima volta nel n. 102. Affermando esplicitamente in una nota di
essere stato «ispirato» da un testo di questo filosofo, il Papa discerne nella
parabola del buon samaritano (cfr Lc 10,25-37) la critica a un mondo in cui non
c’è spazio per lo sviluppo della vicinanza personale, senza la quale non ci può
essere la vera carità cristiana.
Chiusi
nel loro status sociale, il levita e il sacerdote non si avvicinano a colui che
giace «mezzo morto» sulla strada. In questo modo preservano i diritti che la
società ha loro concesso, a scapito della vicinanza personale all’individuo
concreto che, pur essendo di diversa condizione sociale, vive lo stesso mondo e
percorre la stessa strada. All’interno della narrazione parabolica di Gesù si
rivela soprattutto una contrapposizione tra «il mondo del socius», cioè la
«sociologia dei rapporti umani», da un lato, e la «teologia della carità»,
dall’altro.
Nel
caso specifico, la parabola del Vangelo sembra escludere qualsiasi «sociologia
del prossimo», perché si riferisce «al modo personale in cui incontro l’altro,
al di là di ogni mediazione sociale; nel senso, infine, che il significato di
questo incontro non deriva da nessun criterio immanente alla storia» [4]. Del
resto, Ricœur sottolinea che il criterio escatologico della salvezza,
esplicitamente richiesto dal Vangelo, consiste nella pratica concreta della
carità. Riferendosi alle opere di misericordia presentate nel capitolo 25 del
Vangelo di Matteo, egli mostra il significato e gli eventi «nascosti» di coloro
che sono i «piccoli» personaggi della storia umana. Nonostante la loro
pochezza, vulnerabilità o fragilità, secondo Gesù sono questi piccoli che
saranno in grado di dare una risposta soddisfacente alla domanda: «Signore,
quando ti abbiamo visto avere fame e sete?» [5].
Grazie
alla riflessione di Ricœur, questo brano entra in risonanza con la
dichiarazione fatta dal Papa in occasione della proclamazione del Giubileo
Straordinario della Misericordia: «Non possiamo sfuggire alle parole del
Signore, e in base ad esse saremo giudicati: se avremo dato da mangiare a chi
ha fame e da bere a chi ha sete. Se avremo accolto il forestiero e vestito chi
è nudo. Se avremo avuto tempo per stare con chi è malato e prigioniero»[6].
La
lunga strada delle mediazioni sociali
Nonostante
tutto, lo scopo del testo di Ricœur ripreso dal Papa è di mostrare quanto
«l’opposizione del prossimo al socius sia […] solo una delle possibilità, la
più spettacolare e la più drammatica, ma non la più significativa, della
dialettica storica della carità»[8]. In questo senso, è importante capire come
il filosofo francese cerchi una posizione intermedia tra due estremi. Da un
lato, egli rifiuta «l’atteggiamento radicalmente antimoderno» di un certo
cristianesimo profetico, le cui «piccole comunità non tecniche» si
collocherebbero «ai margini della storia», affermando una radicale opposizione
al «mondo del socius», perché in definitiva «occorre scegliere tra il prossimo
e il socius»[9]. Dall’altro lato, egli rifiuta anche l’estremo opposto della critica
di stampo più marxista, secondo la quale «la categoria del prossimo» non è né
funzionale né ragionevole. Classificata come «obsoleta», la categoria del
prossimo, così come quella della compassione, non aiuterebbe in alcun modo lo
sviluppo della storia verso un quadro istituzionale dove la carità non sarà più
necessaria, in quanto la miseria e la povertà saranno scomparse [10].
Secondo
Ricœur, questi due atteggiamenti concordano nell’opporre, in un dualismo
radicale, il «mondo del socius» e la «teologia della carità». Si tratta, in
altre parole, di contrapporre istituzioni sempre più complesse e astratte, con
regole proprie, formali e razionali, alla prossimità personale richiesta dalla
carità concreta.
In
quanto credente impegnato in un cristianesimo sociale[11], Ricœur ritiene che
il «rapporto di mediazione» delle istituzioni non si opponga alla pratica
concreta della carità. Piuttosto che contrastarla, queste mediazioni sociali o
istituzionali rafforzano la sostenibilità dell’azione caritatevole. Non c’è
quindi contrapposizione tra il socius e il prossimo, in quanto essi
corrispondono alle «due dimensioni della stessa carità»[12]. Affinché «la
teologia del prossimo» possa assumere tutta la sua vastità, è necessario
integrare «la diversità delle nostre relazioni con gli altri» in un quadro più
ampio di quello della sola relazione immediata [13]. Così facendo, «la lunga
via dell’istituzione» emerge all’orizzonte del pensiero, ed è la carità che le
dà «senso». Per quanto l’evento dell’incontro sia fugace e fragile, la carità
si concretizza in modo duraturo e coerente, facendo leva su istituzioni giuste
nei loro princìpi e nelle loro solide strutture.
Viceversa,
la compassione e la carità devono essere sempre tenute presenti da tutti coloro
che operano in queste istituzioni, in quanto i princìpi razionali e astratti
della giustizia, «a livello di riflessione», sono vuoti quando sono privati
dell’efficacia del concreto rapporto con gli altri [14]. Per questo Ricœur
ritiene che «in effetti, molto spesso, la via lunga dell’istituzione sia il
normale percorso dell’amicizia» [15].
Accade
lo stesso per papa Francesco, quando associa intrinsecamente la «fraternità
universale» all’«amicizia sociale» [16]. Senza dubbio egli fa propria la
posizione equilibrata di Ricœur. Nell’enciclica Fratelli tutti, afferma che «la
carità riunisce entrambe le dimensioni – quella mitica e quella istituzionale –
dal momento che implica un cammino efficace di trasformazione della storia che
esige di incorporare tutto: le istituzioni, il diritto, la tecnica,
l’esperienza, gli apporti professionali, l’analisi scientifica, i procedimenti
amministrativi, e così via. Perché [come afferma Ricœur] “non c’è di fatto vita
privata se non è protetta da un ordine pubblico; un caldo focolare domestico non
ha intimità se non sta sotto la tutela della legalità, di uno stato di
tranquillità fondato sulla legge e sulla forza e con la condizione di un minimo
di benessere assicurato dalla divisione del lavoro, dagli scambi commerciali,
dalla giustizia sociale e dalla cittadinanza politica”»[17].
Acquista
così un senso l’ermeneutica della parabola del buon samaritano che il Papa
sviluppa, avvalorando la posizione di Ricœur. Si tratta del rilievo che
Francesco attribuisce all’«albergatore» come figura indispensabile nella
pratica della carità. Il samaritano, infatti, non soltanto entra immediatamente
in relazione con l’uomo «mezzo morto», ma entra anche in relazione con
l’albergatore, utilizzando le sue risorse a beneficio di chi si trova in una
situazione di bisogno. «Anche il buon samaritano – afferma il Papa – ha avuto
bisogno che ci fosse una locanda che gli permettesse di risolvere quello che
lui da solo in quel momento non era in condizione di assicurare. L’amore al
prossimo è realista e non disperde niente che sia necessario per una
trasformazione della storia orientata a beneficio degli ultimi»[18].
Questa
affermazione richiama chiaramente un elemento essenziale del pensiero di
Ricœur, cioè che l’etica, intesa come «scopo della “vita buona”», precede la morale,
vale a dire il sistema di norme da osservare. In questo senso, il magistero di
papa Francesco concorda pienamente con l’affermazione del «fine etico», su cui
il filosofo francese insiste più volte nel corso della sua opera: «vivere una
“vita buona” con e per gli altri all’interno di istituzioni giuste» [19].
Inoltre,
mentre Ricœur afferma – a partire dal legame inscindibile tra il percorso breve
o immediato e quello lungo o mediato – la possibilità di «giustificare», di
«modificare» o di «criticare un’istituzione», papa Francesco considera
necessaria, in funzione dello stesso legame, «una riforma “sia
dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che dell’architettura economica e
finanziaria internazionale, affinché si possa dare reale concretezza al concetto
di famiglia di Nazioni”»[20].
L’identità
narrativa della Chiesa
Apparso
in Histoire et Vérité, il testo «Le “socius” et le prochain» esprime, seppur
implicitamente, uno dei concetti principali dell’opera di Ricœur: quello di
«identità narrativa». Infatti, nella misura in cui, nel Vangelo di Luca, Gesù
risponde alla domanda del dottore della Legge con la parabola del buon
samaritano, ci muoviamo «a livello della narrazione». La parabola ribalta la
domanda che era stata posta. Invece di una definizione oggettiva, statica e
sociologica del prossimo, questo viene presentato nella «struttura della
narrazione». Invece di sapere a priori chi è il mio prossimo, si tratta di
comportarsi come il prossimo degli altri, man mano che si svolge la narrazione
della nostra vita. Secondo l’espressione lapidaria di Ricœur: «Non esiste un
prossimo; io divento il prossimo di qualcuno» [21]. Inoltre, in relazione
all’invito che Gesù rivolge al dottore della Legge alla fine del racconto –
«Va’, e fa’ anche tu lo stesso» (Lc 10,37) –, il filosofo nota una tensione tra
l’evento raccontato nel presente e il futuro che è ancora da costruire.
Considerando
che Histoire et Verité ha ricevuto il premio Hegel nel 1985[22], non dobbiamo
perdere di vista il «senso della storia» che Ricœur ha presente nel suo testo.
In altre parole, nel quadro narrativo dei Vangeli, non sono i «grandi uomini»,
ma i «piccoli» – ignorati, come individui, dalle analisi sociologiche – che
sono in grado di dispiegare il «significato» e la «storia» [23]. Ora, se «il
senso di compassione nel presente è permeato da un senso escatologico che lo
supera», ci troviamo di fronte non soltanto a una «parabola», ma anche a una «profezia»
[24].
Un’identità
che non fa a meno dell’alterità
Questa
identità narrativa si collega poi con un altro concetto di Ricœur – quello
dell’«uomo capace» –, che viene utilizzato anche da papa Francesco nel suo
magistero. Come ha affermato il teologo Philippe Bordeyne, l’obiettivo della
progressiva formazione dell’«habitus del bene» in Amoris laetitia nasce dal legame
tra l’attuale pontificato e la filosofia di Ricœur[25]. Del resto, se nel
filosofo francese la persona umana «scopre la sua vocazione nel rapporto con l’altro»
[26], l’attuale Pontefice non si limita soltanto ad applicare questo principio
nei gesti e nelle parole. Inoltre, nell’enciclica Laudato si’, Francesco cita
direttamente Ricœur, quando afferma che «l’essere umano impara a riconoscere se
stesso in relazione alle altre creature: [come dice Ricœur] “Io mi esprimo
esprimendo il mondo; io esploro la mia sacralità decifrando quella del mondo”»
[27].
Citando
il secondo volume della Philosophie de la volonté: Finitude et culpabilité, il
Papa fa riferimento a un passo in cui Ricœur smantella la demitizzazione nelle
sue spiegazioni cosiddette «moderne e scientifiche» del mondo e della persona
umana. Secondo il filosofo francese, il «diventare se stessi» non si oppone
alla «funzione cosmica dei simboli. […] Cosmo e Psiche sono i due poli della
stessa “espressività”; io mi esprimo esprimendo il mondo; esploro la mia
sacralità decifrando quella del mondo» [28].
Così,
oltre all’identità temporale, quella della persona umana non si instaura
indipendentemente da ogni alterità. E Francesco sottolinea proprio tale
identità, che si stabilisce in funzione del rapporto con gli altri. Come per
Ricœur, il «diventare se stessi» si realizza in relazione alle altre persone e
considerando tutte le creature come intrinsecamente legate al proprio essere.
In
Fratelli tutti, l’obiettivo di una «fraternità universale» non si basa soltanto
sulla paternità divina. Oltre a questo fondamento, radicato nella relazione
verticale tra Dio e l’umanità, si deve anche riconoscere che, a livello
orizzontale, l’identità propria di ogni persona umana si connette in modo
inscindibile con l’alterità degli altri.
Se
Ricœur si rende conto «che l’alterità non si aggiunge dall’esterno
all’individualità […], ma appartiene alla struttura del significato e alla
costituzione ontologica dell’identità»[29], il Papa fa risuonare questa
filosofia del «sé come un altro», quando dichiara: «In realtà, una sana apertura
non si pone mai in contrasto con l’identità. Infatti, arricchendosi con
elementi di diversa provenienza, una cultura viva non ne realizza una copia o
una mera ripetizione, bensì integra le novità secondo modalità proprie»[30].
Un’identità
ospitale
Inoltre,
papa Francesco mette in gioco anche la nozione di «ospitalità linguistica» che,
Ricœur utilizza nella sua analisi del fenomeno della traduzione. In effetti, un
altro riferimento al filosofo protestante nel magistero di Francesco lo
troviamo nella Lettera apostolica Scripturae Sacrae Affectus, pubblicata il 30
settembre 2020, in occasione del XVI centenario della morte di san Girolamo.
Parlando di «traduzione come inculturazione», il Papa afferma: «È stato
ricordato, a ragione, che è possibile stabilire un’analogia fra la traduzione,
in quanto atto di ospitalità linguistica, e altre forme di accoglienza» [33].
Citando esplicitamente, nella nota 48, l’opera di Ricœur Sur la traduction,
pubblicata dall’editore Bayard nel 2004 – un anno prima della scomparsa del
filosofo –, Francesco interpreta l’atto del tradurre come un paradigma di
ospitalità che può essere vissuto e approfondito dalla Chiesa del futuro. L’atto
del tradurre un testo, trasponendolo in una lingua diversa da quella in cui è
stato concepito, implica una «ospitalità linguistica». In questo modo, così
come la traduzione fa parte di un processo in cui il discorso umano
ricostruisce un’unità plurale, il dialogo fraterno auspicato dal Papa nelle
relazioni ecumeniche e interreligiose apre la strada a un’etica
dell’accoglienza.
I
gesti e le parole profetiche di papa Francesco diventano più comprensibili alla
luce di questa prospettiva ricœuriana. In particolare, il Documento sulla
Fraternità umana per la pace mondiale e la convivenza comune – firmato insieme
al Grande imam Ahmad al-Tayyeb – va letto in base a questa identità narrativa e
dell’etica dell’ospitalità. Se «non si è trattato di un mero atto diplomatico,
bensì di una riflessione compiuta nel dialogo e di un impegno congiunto» [34],
l’appello al dialogo e alla collaborazione a favore del bene comune nasce
soprattutto e prima di tutto dal fatto biblico dell’incontro tra culture
diverse che raggiungono una comunione. E allora, se il Papa si ispira non
soltanto a san Francesco d’Assisi e a Charles de Foucauld, ma anche, seppure a
un altro livello, a personaggi come Martin Luther King, Desmond Tutu e il
Mahatma Gandhi, questo fatto rientra nel quadro di una narrazione che si
traduce in altre culture, integrandole nella propria narrazione.
In
fondo, si tratta del gesto del samaritano in cammino. Notiamo, a tale
proposito, quanto l’esistenzialismo e il personalismo cristiani ritornino più
esplicitamente nel pontificato di Francesco. Lo dimostra il riferimento a
Gabriel Marcel, una delle figure più importanti nello sviluppo del pensiero
ricœuriano, al n. 87 di Fratelli tutti: «Un essere umano è fatto in modo tale
che non si realizza, non si sviluppa e non può trovare la propria pienezza “se
non attraverso un dono sincero di sé”. E ugualmente non giunge a riconoscere a
fondo la propria verità se non nell’incontro con gli altri: [come dice Gabriel
Marcel] “Non comunico effettivamente con me stesso se non nella misura in cui
comunico con l’altro”. Questo spiega perché nessuno può sperimentare il valore
della vita senza volti concreti da amare»[35].
Queste
correnti umanistiche, esistenzialiste e personaliste, che hanno influenzato
profondamente la lettera e lo spirito del Concilio Vaticano II, partono
dall’inviolabile dignità della persona umana, immagine di Dio in ogni
circostanza. Ciò alimenta la ricerca del «raggio di verità che illumina tutti
gli uomini», compresi quelli che professano un altro credo religioso.
Conclusione
Che
si tratti della lavanda dei piedi di una donna musulmana il Giovedì Santo,
dell’accordo con l’imam al-Tayyeb per la fratellanza umana, o della
contestazione di populismi e nazionalismi esclusivisti, tutto questo lo si
comprende all’interno di un’identità narrativa che la Chiesa cerca di
costruire, facendo affidamento sulla grazia divina e nella fedeltà al racconto
evangelico.
A
tale proposito, notiamo come il Papa cerchi di trasmetterci il ricordo del
dramma delle guerre mondiali del passato, la cui importanza può essere
trascurata o addirittura dimenticata dalle giovani generazioni. In
un’intervista a La Stampa egli ha affermato: «Il sovranismo è un atteggiamento
di isolamento. Sono preoccupato perché si sentono discorsi che assomigliano a
quelli di Hitler nel 1934. Prima noi. Noi… noi: sono pensieri che fanno paura»
[36].
Quanto
a Ricœur, che appartiene a «quella generazione» che stava per scomparire quando
egli ebbe una conversazione con François Azouvi e Marc de Launay, cioè a quella
generazione che è stata «l’ultima ad aver assistito agli orrori compiuti tra il
1933 e il 1945», notiamo l’importanza da lui attribuita alla «memoria
collettiva» di quegli eventi [37]. E mentre il filosofo francese condanna il
nazionalismo «pseudo-universale» del fascismo [38], Francesco fa appello alla
«fraternità universale», dove la narrazione cristiana può prendere forma e
diventare sempre più la nostra vita.
Dobbiamo
allora notare quanto la «cultura dell’incontro», di cui parla spesso papa
Francesco, sia vicina al pensiero di Ricœur. Essa, infatti, promuove un
«riconoscimento reciproco», capace di superare la logica secondo la quale
occorre trovare una parte perdente a vantaggio di un unico vincitore. Così,
nella misura in cui la missione della Chiesa si realizza man mano che si porta
avanti la narrazione della storia raccontata da Gesù, i riferimenti espliciti a
Ricœur nel corpus del magistero dell’attuale pontificato assumono il loro
significato all’interno di un’identità che non è indipendente dall’alterità.
L’identità della Chiesa non è quindi un dato piovuto dall’alto: piuttosto, è un
processo che funziona come una narrazione in cui Dio apre strade per noi che ci
troviamo in essa come personaggi passivi e attivi. Lo testimonia il principio
formulato da Francesco, secondo il quale «il tempo è più grande dello spazio» [39].
Al
di là della rigidità delle ideologie che intendono fissarci e integrarci nel
presente, e al di là delle utopie che si contrappongono alla cristallizzazione
ideologica, la categoria – di carattere religioso – della «promessa» ci spinge
verso il futuro, impegnandoci nell’azione caritativa richiesta nel presente in
cui viviamo. Questo impegno di amore vissuto, che possiamo esprimere qui e ora
verso tutte le creature, figlie dello stesso Padre che è nei cieli, è
alimentato da questa promessa del futuro che ci attende, di piena comunione con
Dio e con tutta l’umanità, in armonia con il creato.
***
[2]. Cfr A. Spadaro, «Intervista a Papa
Francesco», in Civ. Catt. 2013 III
449-477.
[3]. Cfr P.
Ricœur, «Le “socius” et le prochain», in Id., Histoire et Vérité, Paris, Seuil,
1955, 214 (in it. «Il “socius” e il prossimo», in Storia e
verità, Milano, Mondadori, 1994).
[4]. Ivi, 217.
[5]. Cfr ivi.
[6]. Francesco,
Misericordiae Vultus. Bolla di indizione del Giubileo Straordinario della
Misericordia (Roma, 11 aprile 2015), n. 15.
[7]. FT 85.
[8] . P. Ricœur, «Le “socius” et le prochain»,
cit., 224.
[9] . Ivi, 219.
[10]. Cfr ivi,
219 s.
[11]. Cfr F.
Dosse, Paul Ricœur. Les sens d’une vie (1913-2005), Paris, La Découverte, 2001,
170-175; 289-299.
[12]. P. Ricœur,
«Le “socius” et le prochain», cit., 220.
[13]. Cfr ivi, 221.
[14]. Cfr ivi, 223 s.
[15]. Ivi, 223.
[16]. Cfr FT 142.
[17]. FT 164.
[18]. FT 165.
[19]. P. Ricœur,
Soi-même comme un autre, Paris, Seuil, 1990, 20 (in it. Sé come un altro,
Milano, Jaca Book, 2020).
[20]. FT 173.
[21]. P. Ricœur,
«Le “socius” et le prochain», cit., 214.
[22]. Cfr F.
Dosse, Paul Ricœur…, cit., 565.
[23]. Cfr P.
Ricœur, «Le “socius” et le prochain», cit., 216 s.
[24]. Cfr ivi,
217.
[25]. Ph.
Bordeyne, «Une philosophie de l’homme capable: le Pape François et Paul
Ricœur», in E. Falque – L. Solignac (edd.), François philosophe, Paris,
Salvator, 2017, 29.
[26]. Ivi, 17.
[27]. Francesco, Enciclica Laudato si’, n. 85.
[28]. P. Ricœur, Philosophie de la volonté: Finitude
et culpabilité. II. La symbolique du mal, Paris, Montaigne, 1960, 20 (in it.
Finitudine e colpa, Bologna, il Mulino, 1970).
[29]. P. Ricœur,
Soi-même comme un autre, cit., 367.
[30]. FT 148.
[31]. FT 158.
[32]. Cfr P.
Ricœur, «Qui est le sujet du droit?», in Id., Le juste, Paris, Éditions Esprit,
1995, 37 (in it. Il Giusto, Cantalupa [To], Effatà, 2005).
[33]. Francesco, Lettera apostolica Scripturae
Sacrae Affectus, nel XVI centenario della morte di San Girolamo, 30 settembre
2020.
[34]. FT 5.
[35]. FT 87.
[36]. D. Agasso Jr., «Papa Francesco: “Il
sovranismo mi spaventa, porta alle guerre”», in La Stampa, 9 agosto 2019.
[37]. Cfr P.
Ricœur, La critique et la conviction. Entretien avec François Azouvi et Marc de
Launay, Paris, Calmann – Lévy, 1995, 188.
[38]. Cfr Id.,
«Emmanuel Mounier: une philosophie personnaliste», in Id., Histoire et Vérité,
cit., 111
[39]. Cfr Francesco, Esortazione apostolica
Evangelii gaudium (24 novembre 2013), nn. 222-225.
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