Possediamo
le nuove tecnologie
e ne siamo posseduti.
Ci fidiamo di esse quasi fossero
umane, ma la loro intelligenza è sintattica e non sarà mai semantica
-
di ADRIANO PESSINA
Le
tecnologie dell’informazione e della comunicazione, le cosiddette Itc, hanno
cambiato i nostri stili di vita. La nozione di onlife, resa popolare dagli
studi di Luciano Floridi, mette in evidenza come ci troviamo in una condizione
umana in cui i confini della realtà sono dilatati dagli spazi informazionali
della rete. La rivoluzione digitale ha creato un nuovo ambiente culturale,
forse dovremmo dire, mentale, che interagisce con il mondo empirico nel quale
ci troviamo. In effetti, nella nostra vita quotidiana, il confine, il limes,
tra l’on-line e l’off-line, diventa sempre più sfumato: basta possedere un
cellulare per uscire dal contesto in cui siamo e immergerci in quello spazio
digitale che ci porta mentalmente e sensorialmente altrove. Di fatto, il
possesso delle nuove tecnologie, la possibilità di accedere alla rete
informatica, fa, oggi, la differenza della stessa condizione umana. Possedere,
però, a volte, si trasforma nell’essere posseduti. E ognuno sa, anche quando
finge di ignorarlo, che i proprietari delle tecnologie informatiche posseggono
un numero stratosferico di dati che ci riguardano, profilano i nostri gusti, le
nostre relazioni, i nostri convincimenti. Così, la nostra autonomia tecnologica
è l’altra faccia della nostra dipendenza. Se agli inizi del Novecento la
questione della tecnica era ampiamente dibattuta sotto la categoria della
sfida, noi oggi dovremmo, piuttosto, ripensarla sotto il profilo
dell’addomesticamento tecnologico. Del resto, non semplicemente “usiamo” gli
strumenti tecnologici, ma li “addomestichiamo”, gli attribuiamo un senso inserendoli
nel nostro spazio vitale. L’aspetto amicale della tecnologia si rivela
nell’allargamento delle nostre possibilità di interazione, di comprensione del
mondo, di soluzione di problemi e nelle stesse parole con cui le nominiamo,
definendole intelligenti.
L’addomesticamento
tecnologico è, allora, ambivalente: da una parte le macchine entrano nella
domus e diventano parte della vita, dall’altra, come avviene con ogni forma di
addomesticamento, noi ci dobbiamo adattare a esse, a un mondo disegnato dai nuovi
software. In questo contesto, la svolta fonetica dei nuovi software ha
aumentato la nostra dimensione fiduciaria nei confronti di ciò che ormai
chiamiamo, indistintamente, intelligenza artificiale. Noi parliamo con le
nostre macchine e le macchine ci parlano. Quando, nel 2011, la Apple ha immesso
sul mercato Siri, lo ha presentato come un «assistente intelligente che ti
aiuta a fare le cose semplicemente chiedendo»: ci abbiamo creduto, senza sapere
come funziona, semplicemente perché funziona e risponde al nostro comando «Ehi
Siri».
La
creazione delle chat-bot, che oltre a eseguire molteplici funzioni, sono in
grado di stabilire una sorta di conversazione personalizzata, con il singolo
utente, ha accelerato il convincimento che si sia di fronte realmente a una
qualche forma di intelligenza. Le nuo-ve tecnologie, infatti, sviluppano in
modo esponenziale le dimensioni simulative delle attività umane, dandoci l’idea
di ottenere un servizio personalizzato, sebbene siano macchine collettive che
“apprendono” ed elaborano miliardi di dati attraverso un’analisi statistica in
grado di generare, sotto la supervisione dei tecnici, mappe linguistiche sempre
più sofisticate.
Il
linguaggio antropomorfo con cui siamo abituati a descrivere questi processi
logico-formali, a struttura statistica, rischia di farci dimenticare che, in
realtà, domandare, ascoltare, capire, rispondere, obbedire, sono esperienze
molto complesse che poco hanno a che fare con le operazioni attuate dalle nuove
tecnologie. In realtà, le macchine non ci parlano, non ci ascoltano, non ci
rispondono, semplicemente perché non sanno nemmeno che esistiamo e non
capiscono che cosa ci stanno dicendo. A nessuno di noi verrebbe in mente di
affermare che il semaforo rosso ci dice di fermarci o che il suono della
sveglia ci dice che è ora di alzarci. Ma la simulazione della voce umana, la
rimodulazione di segnali sonori che noi comprendiamo alla stregua di un
dialogo, ha trasformato in modo radicale il nostro rapporto con i nuovi
artefatti tecnologici e ha dilatato l’aspetto fiduciario nei confronti dei dati
e dei risultati che ci forniscono. Le macchine, per semplificare al massimo,
mettono insieme una sequenza di segni alfabetici che per noi sono però “parole”
dense di significato e infatti siamo in grado di valutare se le risposte sono
vere o false: per i sistemi tecnologici, questi termini sono però insensati,
perché il loro risultato è semplicemente esatto rispetto alla coerenza formale
con cui sono stati elaborati i dati acquisiti. Per questo le macchine non
mentono e non sbagliano, perché non sanno e non scelgono: eseguono i diversi
percorsi resi possibili dai loro programmatori. Ma per esse vale sempre
l’antico adagio: se ai software si forniscono dati spazzatura, si ottengono
risultati spazzatura.
Pensare
di accedere alla verità attraverso processi logico-formali è, non
dimentichiamolo, il grande sogno di una parte della filosofia, che affonda le
radici nella costruzione dei modelli sillogistici. Ma tradurre il linguaggio in
segni univoci, formule, numeri da assemblare, per quanto utilissimo in molti
contesti del sapere, ci priva della comprensione delle sfumature della realtà e
della nostra esperienza, che sono il fondamento delle domande di senso
dell’esistere. Un’intelligenza sintattica, come quella delle macchine, non può
sostituire un’intelligenza semantica e non dovremmo mai dimenticare che i
programmatori di software sono in grado di fare una traduzione della semantica
in sintassi perché, in quanto uomini, possiedono entrambe le dimensioni dell’intelligere.
Noi ci fidiamo dei risultati dei nostri “calcolatori” e, per usare un gioco di
parole, contiamo su di essi. E abbiamo vari motivi per farlo.
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