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di Andrea Marrone
Tra il 1922 e il ’23 un piccolo gruppo di studiosi guidati dal ministro Giovanni Gentile preparò la più importante e discussa legge scolastica del Novecento italiano, ancora oggetto di ricerche, dibattiti e sentimenti contrastanti. Pur approvata dal primo governo a maggioranza fascista, la Riforma del 1923 aveva poco a che spartire con la visione educativa di Mussolini. Rappresentò, infatti, la realizzazione di un progetto messo a punto dalla corrente neoidealista nei primi quindici anni del secolo, perlopiù ispirato ad una visione liberale, conservatrice e meritocratica della scuola. Non a caso, la legge si rivelò per il Regime una scomoda antagonista, che, dopo varie correzioni, il ministro Bottai provò a superare definitivamente alla fine degli anni Trenta.
A
cento anni dall’approvazione della legge, Giorgio Chiosso, autorevole studioso
di storia della scuola, già noto ai lettori del Sussidiario, ha arricchito la
sua produzione saggistica con la pubblicazione di un prezioso volume intitolato
Il fascismo e i maestri (Mondadori, 2023). Alla luce di un’ampia
documentazione, il volume si occupa del rapporto instauratosi tra il Regime e
il mondo magistrale, con l’obiettivo di ricostruire l’effettivo impatto del
fascismo sulla scuola elementare e sui suoi insegnanti.
Si
tratta di un argomento su cui la storiografia si è già soffermata, ma, come
ricordato da Roberto Sani nella prefazione, varie ricostruzioni sono state
“talora irrimediabilmente segnate da pregiudizi ideologici”. Sulla base di
numerose fonti inedite e una completa ricognizione degli studi sul tema, le
ricerche presentate da Chiosso hanno il merito di superare letture
semplicistiche o pregiudiziali, offrendo un quadro più completo e dettagliato.
Il volume sembra dunque destinato a diventare un punto di riferimento per
chiunque voglia approfondire la storia della scuola italiana negli anni della
dittatura fascista.
La
ricerca si dipana in quattro capitoli attraverso cui l’autore presenta una
nitida fotografia del mondo magistrale prima e durante il Ventennio. Il libro
prende avvio dalle trasformazioni culturali che segnarono il Paese nel primo
Novecento, mettendo in luce la diffusione di una nuova visione del maestro
elementare, non più solo alfabetizzatore, ma anche araldo del patriottismo tra
le giovani generazioni. Questa narrazione si diffuse ben prima del fascismo,
sostenuta da un nuovo clima culturale condizionato dalle imprese coloniali e
poi, più diffusamente, dalle manifeste fragilità ideali della società italiana
rivelatesi durante il Primo conflitto mondiale: per esempio la grande lezione
di Caporetto.
Il
secondo capitolo si sofferma sull’ascesa del gruppo neoidealista, che, specie
attraverso le opere e l’attivismo di Giuseppe Lombardo Radice, continuò a
condizionare la vita della scuola elementare nei decenni successivi. Com’è
noto, dopo l’omicidio Matteotti, il pedagogista siciliano, che aveva collaborato
alla Riforma per il grado elementare poi stendendone gli innovativi programmi,
interruppe i rapporti con il Governo, opponendosi “indirettamente” al Regime.
Negli anni successivi, la sua influenza sul mondo magistrale fu tuttavia
difficile da scardinare e il suo pensiero continuò a condizionarne lo spirito e
le pratiche dei maestri. Alla faziosa militarizzazione dell’educazione, molti
continuarono a preferire la “scuola serena” lombardiana, custode di un’infanzia
creativa e libera.
Se
i maestri che si opposero esplicitamente al Regime furono pochi (di alcuni di
questi l’autore dà conto alla fine del terzo capitolo), in tanti limitarono con
la loro didattica la penetrazione ideologica del fascismo. Non a caso, dagli
anni Trenta la dittatura si impegnò per trasformare radicalmente la scuola. Le
politiche del ministro Giuseppe Bottai furono l’esemplare espressione di questo
tentativo totalitario. Il quarto e ultimo capitolo si sofferma anche su questa
ultima stagione del fascismo, ben rappresentata dalla Carta della scuola e
dalle leggi razziali.
Per
concludere, si può senz’altro sostenere che il libro di Giorgio Chiosso ha il
merito di restituirci un quadro ampio e realistico del mondo magistrale sotto
la dittatura fascista, che si scopre più sfaccettato e disomogeneo di come il
Regime (e poi qualche storico) ha preferito far credere. Come sostenuto
dall’autore, oltre alle resistenze di vari insegnanti e circuiti culturali (tra
cui pedagogisti e uomini di scuola cattolica), la penetrazione ideologica del
fascismo fu ostruita – eterogenesi dei fini – dagli ancestrali difetti della
scuola italiana, tra cui il conservatorismo delle pratiche didattiche, l’idea
dell’“aula come sacrario inaccessibile ove celebrare i riti del sapere”, ma
anche la diffusa indifferenza politica dei maestri.
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