- di Massimo
Recalcati
Un
padre di famiglia mite e profondamente legato al proprio figlio, marito devoto
e responsabile, animato da interessi intellettuali ampi, compresa una attività
come volontario in una associazione umanitaria, chiede di essere ascoltato per
alcuni suoi comportanti nei confronti del figlio adolescente che gli risultano
inspiegabili. A fare traboccare il vaso un episodio recente: mentre la famiglia
era riunita a tavola, il figlio rovescia involontariamente dell’acqua sul padre
che reagisce d’impulso colpendolo con violenza. Si tratta di una reazione che
sorprende per primo il padre stesso che non ha mai fatto ricorso alla violenza
fisica nell’educare il proprio figlio. Quando mi racconta il fatto appare
visibilmente angosciato nel descrivere la rabbia che lo ha spinto contro la
propria volontà a infierire sul ragazzo. A quel punto, ancora più angosciato,
si chiede se forse quello che lui ha sempre creduto di essere – un padre
amorevole e un marito irreprensibile – sia soltanto una maschera, una facciata,
una semplice impostura. È un dubbio che lo scuote lasciandolo quasi senza
fiato.
«Ma
chi sono io veramente?» si chiede alla fine della seduta.
Questa scena mostra inequivocabilmente come quello che noi crediamo di essere
non necessariamente coincide con quello che siamo veramente. Si tratta del
capovolgimento del celebre cogito ergo sum di Cartesio col quale si inaugura
l’età moderna. Diversamente da quello che pensava il grande filosofo francese,
per il mio paziente non esiste alcuna roccia stabile sotto la sabbia corrosiva
del dubbio. Conosciamo invece la roccia di Cartesio: se l’esistenza di ogni
cosa può essere sottoposta al rigore devastante del dubbio, l’atto del pensiero
non può invece che confermare la certezza che chi pensa esiste al di fuori di
ogni ragionevole dubbio: cogito ergo sum. Ma questa identità viene scossa alle
sue fondamenta dalla psicoanalisi. È l’obiezione che il mio paziente
rivolgerebbe a Cartesio: non è vero che io sono quello che penso di essere!
Tutto il contrario! Io non credo di essere quello che penso di essere.
Questo
è il problema!
Freud ricorda le tre
grandi umiliazioni inferte al narcisismo umano. La prima risalirebbe a
Copernico e sarebbe una “umiliazione cosmologica”: la Terra non può pretendere
di essere il centro dell’universo perché è solo un pianeta tra gli altri che
ruota attorno al Sole. La seconda a Darwin e sarebbe una “umiliazione
biologica”: l’essere umano non proviene da essenze sovrasensibili, ma dai
primati lungo la catena dell’evoluzione. Infine la terza umiliazione, quella
“psicologica”, sarebbe quella inferta dalla psicoanalisi. Mentre prima di Freud
si riteneva che il cogito fosse una proprietà della coscienza e che la sua
certezza fondasse indubitabilmente l’esistenza del soggetto, con Freud il
cogito viene scalzato dalla sua posizione di comando: «L’io non è padrone
nemmeno in casa propria». Quali sono le enormi implicazioni di questa terza
umiliazione narcisistica? La ragione filosofica tradizionale riteneva di aver
trovato con Cartesio la roccia sotto la sabbia del dubbio e del suo potere
corrosivo. Possiamo dubitare di tutto ma non del fatto che è il nostro pensiero
che sta dubitando. Freud mostra invece che non è affatto detto che siamo
davvero quello che pensiamo di essere. Egli apre uno squarcio tra l’essere e il
pensiero rompendo la loro coincidenza. La nostra esperienza, non solo clinica
ma anche quotidiana, conferma ampiamente l’esistenza di questa sfasatura. Nella
scena del padre che colpisce il proprio amato figlio l’essere e il pensiero si
dividono. Il dubbio non è ciò che chiude la divisione ma ciò che la apre: «Sono
davvero quello che penso di essere?». È questa l’umiliazione che Freud infligge
al narcisismo umano: l’io non è affatto la roccia che persiste sotto la sabbia
del dubbio, ma diventa, a sua volta, una realtà enigmatica. Chi sono io? Io
sono davvero quello che credo di essere?
Questa
frattura tra l’essere e il pensiero rende l’animale umano
strutturalmente agitato dal dubbio. È la tragedia dell’Edipo di Sofocle che
crede di essere il re di Tebe, il marito di sua moglie, il padre dei suoi figli
e invece scopre di essere un regicida–parricida, il figlio di sua moglie e il
fratello dei suoi figli. Ma è anche la tragedia dell’Amleto di Shakespeare che
pur sapendo – diversamente da Edipo – la verità sulla morte di suo padre, non
riesce a liberarsi dalle catene del dubbio che paralizzano la sua azione. La
frattura che scinde l’essere e il pensiero e dalla quale scaturisce il dubbio
non è l’espressione di una patologia, ma costituisce l’essere umano come un
essere strutturalmente diviso, il quale, diversamente dalla vita animale, non è
mai ciò che crede di essere.
È
proprio per questa ragione l’amore dei cani ci appare unico: diversamente
dall’amore umano, un cane ci ama davvero per quello che siamo.
Nondimeno,
la psicoanalisi mostra che non è il dubbio ma la sua assenza ad essere
profondamente patologica. Lo sosteneva Lacan quando affermava che se un pazzo
con un colapasta in testa crede di essere un re è evidentemente un pazzo, ma è
assai più pazzo un re che crede di essere un re. Non è forse questa la malattia
mentale per eccellenza? Credersi, al di là di ogni dubbio, un io?
Una
delle intuizioni più profonde della psicoanalisi consiste nel ritenere che la
forma più grave di malattia mentale si generi non per difetto di identità, ma
per una sua ipertrofia. È un rovesciamento del senso comune: non è
l’indebolimento dell’io a generare malattia quanto il suo rafforzamento.
L’attaccamento
al nostro io impedisce infatti l’apertura
caratteristica del movimento dubbio. Irrigidendo la coincidenza tra l’essere e
il pensiero, questo attaccamento istituisce confini, distinzioni rigide,
manichee, promuove segregazioni. Non a caso i grandi paranoici (pensiamo a
Hitler come paradigma) si mostrano assolutamente privi di dubbi. La propria
identità diviene la sola misura della verità. È quello che vediamo emergere
anche nell’età della giovinezza. Per un verso il dubbio diviene protagonista
corrodendo le credenze ingenue dell’infanzia. È la profonda affinità che
sussiste tra l’adolescenza e il pensiero critico. Per un altro verso però
esiste una tendenza dei giovani ad identificarsi con un ideale eroico di
purezza che in nome del dubbio vorrebbe poter spegnare ogni dubbio. È questo il
punto dove l’adolescenza diviene patologica attribuendo fuori di ogni dubbio ai
propri genitori o alle vecchie generazioni la responsabilità del loro disagio.
È il manicheismo che può contraddistinguere la giovinezza, dal quale sorge ogni
forma di fanatismo. È quella certezza assoluta di essere nel giusto che può
armare la mano del giovane terrorista senza farla tremare: nessun dubbio,
nessuna indecisione, nessuna pietà. Non avere dubbi sull’essere nel giusto può
giustificare l’uso della violenza. In questo senso la psicoanalisi resta erede
della grande tradizione socratica.
Conoscere
se stessi significa disfare la credenza paranoica di essere
quello che pensiamo di essere. Per questa ragione la forma massima
dell’ignoranza non è tanto quella di ignorare il sapere – non sapere tutto il
sapere – ma quella di pretendere di sapere, fuori di ogni dubbio, la verità.
Se
la psicoanalisi è laica è proprio perché ignora le verità ultime che invece
ogni pensiero dogmatico pretenderebbe di conoscere e possedere. Il fanatismo
dogmatico esige, infatti, l’estirpazione sistematica del dubbio. Da qui
scaturisce il suo fascino inquietante: possedere la verità significa ricucire
quella frattura tra l’essere e il pensiero che invece ci segue come un’ombra.
È
avere una risposta su tutto senza però accorgersi che questa non è la forma
massima della sapienza, ma quella massima dell’ignoranza.
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