l’uomo e la governance
Vittima
e, insieme, carnefice di se stesso, impaurito dai cambiamenti profondi e rapidi
del digitale e, allo stesso tempo, avido nel farne un uso e consumo per fini
propri, l’uomo, all’interno di tale rapporto, fa mostra di comportamenti, di
modi e di scopi, divenuti, in questi ultimi anni, oggetto di una riflessione
dal respiro ampio, il cui nocciolo è “che cosa” vogliamo farne di quello che
abbiamo creato e “come” intendiamo farlo.
In
questa fase – osserva Luciano Floridi, filosofo, professore di filosofia ed
etica dell’informazione all’Università di Oxford, nonché direttore del Digital
Ethics Lab presso l’Oxford Internet Institute dello stesso Ateneo – non è più l’innovazione
tecnologica in sé ciò che fa la differenza, ma è che cosa ne facciamo di questa
innovazione. Non è alla digital innovation, ma è alla governance, alla
“gestione” del digital, che ora dobbiamo guardare. E sottolinea:
“Arriva
il quantum computing. Bene. Ma che vogliamo farci con questa potenza di calcolo
dalle capacità straordinarie? È questa la domanda da porci nel XXI secolo di
fronte alle tecnologie emergenti e alla loro forza. Perché, se fino a ieri, ne
siamo rimasti affascinati, oggi ci sono tutta una serie di questioni aperte da
affrontare, che riguardano gli impatti della trasformazione digitale sulla
società, sulla politica, l’educazione, l’informazione, il lavoro, l’ambiente”
A
lui la parola.
Professore,
che tipo di rapporto esiste, in questo momento, tra le nuove tecnologie e
l’uomo? Ritiene che l’uomo, oggi, sia al centro di tali tecnologie?
Personalmente,
sono sempre stato piuttosto critico nei confronti di questa “centralità” da
parte dell’uomo. Mettendo “noi” al centro, abbiamo distrutto questo pianeta. E,
in epoche storiche differenti, a seconda di chi si poneva al centro, abbiamo
distrutto minoranze, culture diverse. Certo, la domanda fa riferimento a un
altro genere di centralità, ma è importante, a mio avviso, partire da una
distinzione. Esiste una centralità “buona”, che noi tutti abbiamo a cuore e
che, in un’ipotetica scelta assoluta tra tecnologia da un lato e umanità
dall’altro, predilige la seconda, togliendo il primato alla tecnologia. Ma se,
invece, la centralità rimanda a un utilizzo non equilibrato della tecnologia da
parte dell’uomo, a un suo uso e consumo del tutto arbitrario, allora dovremmo fermarci
a riflettere e cambiare indirizzo. Non lasceremo a nessuna generazione futura
alcun pianeta se continuiamo a metterci esageratamente al centro. Dunque, la
centralità “cattiva” dell’uomo deve essere rimossa, mentre la centralità buona
deve potersi moltiplicare attraverso una maggiore attenzione all’uomo da parte
della tecnologia.
Porre
la tecnologia al servizio dell’umanità. In questo modo, raggiungeremmo un
obiettivo duplice, ovvero avremo sradicato la centralità “cattiva” dell’uomo e
avremo dato a questo il compito di utilizzare la tecnologia mettendola al
servizio di tutti, di tutte le culture, di tutti i ceti sociali, al servizio
del pianeta, dell’ambiente, delle generazioni presenti e future.
Perché
abbiamo paura dei cambiamenti che le trasformazioni tecnologiche,
inevitabilmente, implicano?
Le
innovazioni, i cambiamenti importanti, spaventano da sempre. Fin dai tempi
della scoperta del fuoco e della ruota. Ma oggi la questione che si pone è
diversa. Il tempo di trasformazione tecnologica si è compresso di tanti di
quegli ordini di grandezza, che quella paura che, in passato, si estendeva su
un periodo di tempo molto dilatato, oggi è, anch’essa, compressa. Decuplicando
la velocità di trasformazione, abbiamo, proporzionalmente, decuplicato anche la
paura. E, aggiungo, che la paura che oggi proviamo è ragionevole. La
compressione temporale, unita alla straordinaria potenza di trasformazione
delle tecnologie attuali, hanno contribuito a rendere la rivoluzione digitale
qualcosa per la quale “si deve” avere ragionevole preoccupazione. Stiamo
trasformando quello che ci circonda così velocemente e in maniera talmente
radicale che, se non agiamo con equilibrio e non rimuoviamo quella centralità
cattiva alla quale ho accennato, corriamo il rischio di andare incontro a
problemi molto seri. Per semplificare molto, la rivoluzione agricola ha
impiegato millenni per far sentire tutti i suoi effetti, quella industriale
secoli, ma quella digitale solo decenni. Non sentirsi un po’ confusi, un po’
preoccupati, un po’ in apprensione sarebbe innaturale. Ma la paura deve
trasformarsi in uno sprone a capire meglio le attuali trasformazioni e a fare
meglio con le straordinarie tecnologie a nostra disposizione. Non deve essere
l’anticamera di qualche forma di luddismo o di rassegnazione deterministica.
Esiste,
a suo avviso, una mala informazione riguardo alle nuove tecnologie?
Esiste
e di questo di grandi responsabilità ai giornalisti e a chi lavora, ad esempio,
nelle Università, nei centri di ricerca e nelle divisioni R&D delle grandi
aziende. Purtroppo, spesso, l’atteggiamento di studiosi, ricercatori e
sviluppatori tende a porre l’accento su alcuni aspetti, piuttosto che su altri,
delle scoperte realizzate, delle nuove tecnologie messe a punto. E le ragioni
sono diverse. Può trattarsi semplicemente in un esagerato entusiasmo, oppure
del desiderio di fare carriera o di ottenere finanziamenti. Sul versante della
comunicazione, c’è, invece, l’inseguire la notizia da prima pagina, il “l’ho
detto prima io”, spesso senza analizzare, verificare e chiedersi se quella
notizia è oggettiva oppure se è solo il risultato di un’enfatizzazione da parte
del ricercatore di turno. Queste sono le due forze principali che alimentano la
mala informazione. Poi c’è un altro fenomeno, che vede la cattiva informazione
autoalimentarsi e avvitarsi in un circolo vizioso, in base al quale tanta più
cattiva informazione c’è, tanto peggio è l’informazione successiva.
Cosa
si può fare per disinnescare questo circolo vizioso?
Bisogna
innescare il circolo “virtuoso” opposto, non basato sul “tanto male tanto
peggio”, ma sul “tanto bene, tanto meglio”. E questo lo si ottiene con tanto
lavoro e tanta buona volontà e inserendo buona informazione che scaccia quella
cattiva. Riguardo a quest’ultimo punto, trovo, però, che manchino quei
meccanismi in grado di facilitare tali processi. E mi riferisco, in
particolare, a quei Business Model che, oggi, sul Web sembrano attrarre cattiva
informazione, in un ingranaggio che premia chi fa mala informazione e punisce
chi, al contrario, è autore di una buona informazione. Ecco, bisognerebbe agire
su questo ingranaggio, il che significa anche intervenire sulla pubblicità
presente sui media, regolamentandone la quantità e creando equilibrio, armonia,
tra informazione con la “i” maiuscola – che deve prevalere – e contenuti a
pagamento.
Quali
sono i filoni più urgenti sui quali intervenire affinché le nuove tecnologie
abbiano un esito positivo? E qual è il ruolo della politica in merito?
Tutte
le questioni inerenti alla riservatezza e alla protezione dei dati personali,
allo sfruttamento di tali dati da parte di terzi e all’impatto che questo
fenomeno ha sulla libertà, l’autonomia e la dignità dell’individuo,
rappresentano tematiche importanti, che dobbiamo costantemente presidiare. A
queste aggiungo un altro argomento, a mio parere, altrettanto urgente, legato
alla mancanza di competizione tra le grandi aziende del mondo digitale. Non
esiste, ad oggi, un reale competitor di Google come motore di ricerca, né un
vero competitor di Facebook come social newtwork. Che cosa significa questo?
Che stiamo assistendo a un appiattimento dell’offerta, all’assenza di una
pluralità di contenuti validi. La sana competizione, la concorrenza leale tra
più offerte, ci permette di scegliere. E non esiste più libertà di scelta,
quando non esiste più un menu. C’è, poi, un altro tema sul quale mi piacerebbe
fare luce e che ha a che vedere col ritorno sociale di questi grandi colossi
del digital. Mi domando: come utilizzano le straordinarie tecnologie che
sviluppano e i loro importanti introiti per fare del bene? Fino a che punto
hanno un ruolo di buona cittadinanza? E, in tutto questo, la politica con la P
maiuscola può fare molto. Può trasformare queste straordinarie forze di mercato
in forze buone per la società, per le persone, per l’umanità tutta.
Capitalismo
di sorveglianza e perdita di libertà: corriamo realmente dei rischi? E quali?
Trovo
che il problema non sia il capitalismo che ci carpisce dati e informazioni
personali. Il rischio più grande che potremmo correre, stando a questo schema,
è che, per mezzo dei nostri dati, ci raggiungano per proporci più t-shirt, più
merendine oppure per venderci prodotti che non ci interessano affatto. Pensi
che trent’anni fa, la nostra preoccupazione, il nostro vero problema, non era
il capitalismo di sorveglianza, ma la sorveglianza da parte dello Stato. A quel
tempo, era ancora viva la percezione di essere oggetto di un controllo
politico. Ecco, quel tipo di preoccupazione era forte. Oggi, invece, il vero
pericolo potrebbe derivare da una saldatura tra questi due tipi di controllo,
ossia tra sorveglianza politica – come quella che esiste in Cina – e
sorveglianza da capitalismo statale. Finché la sorveglianza è fatta di un
capitalismo che mi deve vendere il nuovo modello di frigorifero, resto
tranquillo. È la “saldatura” che mi allarma. Cambridge Analytica – società di consulenza
britannica che ha utilizzato a scopi elettorali i dati social di milioni di
americani – ci ha inquietato perché è stata l’esempio concreto di saldatura tra
capitalismo di sorveglianza e controllo politico.
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