PER VIVERE
LA FRATERNITA’ UNIVERSALE
Intervento di Mons. Pagazzi all'Assemblea Generale dell'Unione Mondiale degli Insegnanti Cattolici
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Mons.
Giovanni Cesare Pagazzi *
A nome del Cardinale
Prefetto José Tolentino de Mendonça e mio personale rivolgo un caloroso saluto
ai presenti e all’intera Unione Mondiale degli Insegnanti Cattolici. La nuova
identità del Dicastero, che ora assomma la precedente Congregazione
dell’Educazione Cattolica e il Pontificio Consiglio per la Cultura, rende
ancora più significativo e urgente il vostro contributo, e più sentita la
nostra gratitudine. Infatti, la vostra presenza nelle scuole e università è
quella del lievito evangelico che fermenta l’intera pasta sociale, cucinando
“il pane del senso” che ogni uomo e donna deve gustare per vivere. La cultura è
il pane quotidiano del senso; scuola e università ne sono la farina. Certo, non
l’unico ingrediente, ma necessario.
Il Dicastero esprime la
propria gratitudine soprattutto ai membri del Comitato Esecutivo dell’UMEC, che
ora terminano il loro mandato: il professor Guy Bourdeaud’hui, il professor
John Lydon, il professor Giovanni Perrone. Un cordiale saluto e ringraziamento
anche all’assistente ecclesiastico Sua Eccellenza Reverendissima Mons. Vincent
Dollman. Al contempo, il Dicastero incoraggia coloro che nei prossimi giorni
saranno eletti membri del Comitato Esecutivo e riceveranno dai loro
predecessori un’eredità generosa. La vostra missione è di accompagnare docenti
e dirigenti scolastici e universitari del mondo intero, affinché, ispirati dal
Vangelo, promuovano lo sviluppo integrale della persona umana. Il Dicastero è
pronto a sostenervi, così come è ben lieto di imparare dalla vostra
associazione che vanta ormai più di settant’anni di vita.
Proprio a motivo del
vostro impegno a favore dello sviluppo integrale della persona, vorrei proporre
uno spunto, scorgendo la portata educativa di uno dei quattro principi,
indicati da Papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium. Si tratta del terzo principio: «la realtà è più
importante dell’idea» (EG 231-233). Nel documento pontificio, i quattro
principi sono una specie di costellazione che dovrebbe orientare lo stile del
cristiano, del pastore e la loro indole fondamentalmente missionaria. Ritengo
che tali principi contribuiscano a formare una mens giusta, un portamento e un comportamento desiderosi di
giustizia, unico terreno dove germina la pace, nel mondo e tra le misteriose
dimensioni dell’intera singola persona. Considero tali criteri decisivi dal
punto di vista educativo, sia dal versante contenutistico sia da quello
strategico.
«La realtà è più
importante dell’idea». Il termine “realtà” deriva dal latino res, cioè “cosa”, a sua volta
proveniente da una radice indoeuropea che significa “bene”. È interessante
notare che il primo modo di nominare le cose le riconosce come buone.
Successivamente, il latino ha preferito la parola “causa”, da cui deriva,
appunto, l’italiano “cosa”, il francese “chose”, lo spagnolo “cosa”. Il termine
“causa” indica la causa giudiziaria, cioè il processo che si conclude con un
giudizio, riconoscendo le ragioni delle parti in causa. Chiamare gli oggetti
“causa”, significa ammettere che ogni cosa ci chiama come testimoni, affinché,
appunto, testimoniamo la bontà delle cose. Qual è il loro bene che domanda di
essere testimoniato? Innanzitutto, esse si presentano “alla mano”, disponibili,
utili, fedeli; tant’è che ci stupiamo quando una cosa non funziona, poiché
normalmente funziona. Il senso della fedeltà è sorto in noi grazie alla fedeltà
delle cose. Le cose incoraggiano l’azione, sollecitano l’iniziativa,
l’operosità della decisione: una penna e un foglio invitano a scrivere; una
sedia a sedersi; una montagna ad ammirarla o salirla. Le cose contrastano la
forza di gravità depressiva e scoraggiante del non senso che depotenzia
l’iniziativa della libertà, impedendole di prendere posizione nel mondo. Grazie
alla loro disponibilità servizievole, le cose alimentano la speranza, senza la
quale si resta demotivati, cioè senza motivazione, incapaci di muoversi. Le
cose sono un grande “Sì!” che accende l’anima e il corpo, invertendo l’inerzia del
nichilismo del pensiero e dell’azione. Ma nello stesso istante in cui le cose
pronunciano il loro fiat a favore
dell’uomo e della donna, esse emettono anche un “No!” severo. Certo, le cose
sono alla mano, ma sono anche urtanti, spigolose, troppo pesanti, o troppo
leggere, troppo piccole o troppo grandi, troppo dure, o troppo fragili, sfuggenti,
pericolose. Sono serve obbedienti delle mani, ma – a loro volta – esigono
obbedienza dalle mani. Il marmo obbediva alle mani di Michelangelo, ma le mani
dell’artista dovevano obbedire alla pietra, altrimenti questa si sarebbe rotta
sotto lo scalpello, divenendo inutilizzabile. Se applico alla penna la forza
che imprimerei per spostare un mobile, rompo la penna; se applico al tavolo la
forza utilizzata per scrivere, non lo sposterei di un millimetro. Le cose sono
resistenti e si oppongono alle pretese delle mani, esigendo di essere
“maneggiate con cura”. Insomma, le cose si manifestano, nello stesso istante,
disponibilità e indisponibilità. Non sono a disposizione come le mani
pretenderebbero. Ciò causa un senso di distanziamento, di mancanza, di lutto.
Il lutto è il sentimento causato dall’indisponibilità di quanto riteniamo
vitale per noi; è la disintegrazione dell’illusione (ecco l’idea che è
inferiore alla realtà!) di completezza narcisistica che, in un modo o in un
altro, freme in ciascuno. A motivo di questa dolorosa opera di smantellamento
dell’illusione, il lutto è spesso considerato come una situazione patologica da
superare al più presto. Due sono le strategie a cui generalmente si ricorre:
riempire immediatamente, con altre cose, il vuoto provocato
dall’indisponibilità; oppure – al contrario – delusi dalla mancata
disponibilità delle cose, rifugiarsi nel disgusto verso tutto e tutti, evitare
qualsiasi altro contatto, per proteggersi da un ulteriore fallimento. Ecco, la
semplice, feriale esperienza con le cose, espressione quotidiana della nostra
relazione con la realtà, ci insegna (esiste un originario magistero delle
cose!) la grammatica elementare e il vocabolario originale di ogni relazione
umana. Le cose contengono una densità umana grandiosa e contribuiscono
all’umanità dell’uomo. Non per nulla nelle lingue sassoni s’instaura
l’interessante parentela lessicale tra “cosa”, “pensare” e “ringraziare”. Per
esempio, in tedesco: “Ding”, “Denken”, “Danken” e nell’inglese “Thing”, “to
think”, “to thank”. Nulla più del legame tra persone promuove, dona speranza,
invita alla decisione. Non esiste “Sì!” più incoraggiante. Ed è il medesimo
legame interpersonale a imporre il “No!” più severo e l’esperienza più dolorosa
del lutto. Eppure, è proprio il primigenio contatto con le cose, avuto fin dai
primi mesi di vita, ad accendere in noi il senso del “Sì!” e il senso del “No!”,
necessari per vivere i legami umani. Senza la discreta compagnia delle cose,
delle res, della realtà, noi non
saremmo chi siamo e non ci troveremmo legati a nessuno. Dimmi come tratti le
cose e ti dico la qualità dei tuoi legami con le persone.
Creandoci, Dio ci ha
immaginato e voluto sempre in contatto con le cose. È impossibile che questo
dato sia insignificante. Conosceremmo davvero l’uomo e la donna a prescindere
dal loro indissolubile rapporto con le cose? Educheremmo davvero senza considerare
il magistero delle cose? Non per nulla nel “Credo” - rifacendoci al Vangelo di
Giovanni, ad alcune Lettere di san Paolo, alla Lettera agli Ebrei e
all’Apocalisse – noi professiamo riguardo al Padre che egli ha creato le “cose
visibili e invisibili”; e riguardo al Figlio confessiamo: “per mezzo di lui
tutte le cose sono state create”. Riconosceremmo davvero il Dio cristiano a
prescindere dalla sua relazione con le cose?
Le parti del corpo umano
effettivamente e simbolicamente più vicine alle cose sono le mani. Le mani sono
le parenti più strette delle cose e delle azioni che compiamo attraverso di
esse. In tedesco, “azione” è “Handlung”, “maneggiare”; in inglese, uno dei modi
per dire “dare”, “porgere” (una cosa) è “to hand”. Grazie al loro contatto con
le cose, le mani imparano i “Sì!” e i “No!” della realtà. Sulla scia di
Aristotele, San Tommaso d’Aquino afferma che «l’anima è come la mano», quasi
che le mani stesse – grazie al contatto con le cose – favoriscano l’accensione
e le attività dell’anima. Kant, addirittura, definisce le mani come «il
cervello esterno dell’uomo». Queste affermazioni lasciano intendere che la
qualità del rapporto tra mani e cose tocca l’intimità spirituale
dell’uomo. Il fatto è custodito dalle lingue neolatine. Per esempio, in
italiano il verbo tipico delle mani, “prendere”, è alla base delle azioni più
spirituali come “ap-prendere”, “com-prendere”, “intra-prendere”, lasciarsi
“sor-prendere”. Sicché a seconda di come si “prende”, si “apprende”,
“comprende”, “intraprende”. È significativo che i Vangeli, per rivelare il
mistero di Cristo, ricorrano spesso alla sua gestualità manuale e al modo con
cui egli ha preso le cose. Faccio riferimento solo a due episodi della vita del
Signore: la moltiplicazione dei pani (Mc 6.34-44) e l’istituzione
dell’Eucaristia durante l’Ultima Cena (Mc 14,22-25). In entrambi i testi
ricorre la stessa sequenza gestuale: Gesù «prese» il pane, «rese grazie», «lo
spezzò», e lo «diede». È facile essere attratti dalla drammaticità del terzo gesto
- «spezzare» - e dalla generosità del quarto - «dare» -, dimenticando che
poggiano sul primo: «prendere». Tutto comincia con il contatto delle mani di
Gesù col pane che diverrà il suo Corpo. Ebbene, il verbo greco indicato per
dire «prendere» è lambanō che
significa sia “prendere” sia “ricevere”, come il “to get” inglese. Insomma,
utilizzare quel verbo per esprimere il gesto delle mani di Gesù verso quella
cosa che è il pane (gesto di fatto sintetico di tutto il suo stile e la sua
identità) significa affermare che Gesù “prende” come se “ricevesse”. Le sue
mani sono tanto attive nella presa quanto passive nella ricezione di un regalo.
Ecco perché il secondo verbo della lista eucaristica è «rese grazie», poiché
considerava un dono quanto aveva preso il pane, il suo corpo, la sua stessa
vita di Figlio, poiché “figlio” è colui che, innanzitutto, riceve, e non
esisterebbe se non avesse ricevuto. Guardate dove siamo arrivati, partendo dal
gesto feriale e comune che lega le mani alle cose, l’uomo alla realtà. Dalle
cose si può arrivare al portamento e comportamento umano e intuire qualcosa del
mistero di Cristo, fino all’Eucaristia.
Riprendiamo il principio
di Evangelii Gaudium: «La realtà è
più importante dell’idea». Dicevo che ha una grande portata educativa sia dal
punto di vista contenutistico sia da quello strategico. Quello contenutistico
l’abbiamo appena indicato: perfino l’espressione apparentemente più banale
dell’attenzione alla realtà – come il rapporto mani e cose – contribuisce
all’umanità dell’uomo, decostruendo ogni idea irreale di sé, sia essa
depressiva o euforica. Forse sarebbe importante cogliere nell’educazione anche
il luogo e il tempo della riabilitazione (una specie di fisioterapia) al
contatto con le cose, al loro severo magistero che accende l’anima. Così
facendo, si favorirebbe una cultura della riparazione delle cose e non della
loro immediata sostituzione. Ciò potrebbe renderci più disponibili anche a riparare
le relazioni e non a sostituirle subito, quando non funzionano.
Ma il principio di Evangelii Gaudium è importante anche
strategicamente, poiché parte da un’esperienza comune. Ritengo che l’attenzione
al comune - a quanto accomuna ogni
essere umano, cristiano e non, credente e non, di ogni cultura ed età, di ogni
status – sia uno dei semi più promettenti del magistero di Papa Francesco. Lo
si è visto esplicitato soprattutto nelle encicliche Laudato si’, riferita appunto alla casa comune, e Fratelli tutti, un formidabile richiamo
alla comune origine che affratella tutta l’umanità. Il contatto con le cose
accomuna tutti. Ciò significa che tutti hanno a disposizione il loro magistero,
i loro “Sì!” e i loro “No!”. Tutti hanno la possibilità di accedere alla loro
grammatica elementare e al loro vocabolario essenziale. Partire dalle
esperienze comuni è una straordinaria strategia educativa e un’altissima forma
di testimonianza cristiana. Tale modo di procedere non comporta una diluizione del
cristianesimo, un accomodamento del Vangelo, ma l’esatto contrario. Infatti,
tale atteggiamento nasce dalla fede nella effettiva dimensione rivelativa della
Creazione in Cristo: se Dio, in Cristo, creando l’uomo e la donna, li ha immaginati
capaci di muoversi, affamati e assetati, sessuati, generativi, desideranti,
sensibili, affettuosi, contrassegnati anche dal sonno e dal risveglio, liberi,
intelligenti, segnati dalla nascita, crescita, dal lavoro, dalla morte, avrà
pur voluto comunicarci qualcosa di lui! Esattamente come un’opera d’arte parla
dell’artista che l’ha immaginata e realizzata. Non per nulla, Cristo, rivelando
il mistero del Padre ha parlato di realtà comuni a tutti: il sole, la pioggia,
il lavoro, la casa, la fame, la sete, la malattia, il sonno, le cose, le mani,
il rapporto uomo tra uomo e donna e tra genitori e figli…
Un’ultima cosa, a proposito delle cose: ogni cosa
è come la testimone di una comunità di uomini e donne che hanno lavorato a
nostro favore. Ad esempio: dietro il vestito che portiamo sta chi ha estratto
dalla terra i metalli per realizzare gli attrezzi agricoli, chi ha progettato
le macchine agricole, chi le ha realizzate, chi le ha vendute, chi con quelle
macchine ha coltivato il cotone, chi lo ha filato, tinto tessuto, chi ha
disegnato la camicia che indossiamo, chi l’ha realizzata, chi l’ha trasportata
(chi ha costruito le strade per il trasporto) e chi l’ha venduta (… chi ha
progettato e costruito il negozio dove l’abbiamo comprata). Insomma, al nostro
vestito hanno lavorato migliaia di persone… a nostro vantaggio. Le cose ci
ricordano che non avremmo nemmeno il più piccolo dettaglio della nostra vita
senza una comunità, un’associazione di uomini che ci sostiene. L’Unione
Mondiale degli Insegnanti Cattolici è un’associazione, una comunità a servizio
della grande missione educativa della Chiesa. Non spaventatevi delle fatiche,
delle stanchezze, degli insuccessi come singoli e come associazione. Se il
minatore, il meccanico, il contadino, il sarto, il venditore avessero fatto
prevalere la stanchezza e la delusione, non avremmo la camicia che oggi
indossiamo.
Carissimi, ci sta davanti una sfida così
difficile, così entusiasmante; perciò, ricorrendo alle parole della Lettera
agli Ebrei, corriamo la corsa che ci sta davanti, coinvolgendo tutti gli uomini
e le donne di buona volontà.
* Segretario del
Dicastero per la Cultura e l’Educazione
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