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di Giuseppe Savagnone*
Una
difesa non richiesta e fuorviante
L’assurda
proposta, presentata alla Camera dalla Lega, di incentivare con un bonus chi si
fosse sposato in chiesa col rito cattolico, anche se poi ritirata (per
l’evidente vizio di costituzionalità), è solo l’ultimo sintomo di una
situazione in cui a difendere le pratiche religiose sono rimasti spesso dei
poco illuminati sostenitori della tradizione religiosa, che, con la loro
rozzezza – si pensi al vangelo e al rosario sventolati da Salvini nei suoi
comizi di qualche anno fa – ne evidenziano piuttosto il tramonto.
Perché
il problema è reale, anche se la soluzione non è promettere soldi. È vero,
infatti, che i matrimoni religiosi diminuiscono ogni anno. In un contesto in
cui le coppie ricorrono sempre più tardi e sempre meno al matrimonio per
legittimare la loro convivenza, l’ultimo rapporto Istat segnala che «sono in
particolare i primi matrimoni religiosi ad aver subito la contrazione più forte
dal 2011 al 2019 (-29,9 %), con un’incidenza sui primi matrimoni che è
diminuita dal 70,1 % al 58,4 %». Ormai solo poco più di metà dei giovani che si
sposano lo fanno in chiesa.
Chi
ancora accetta la logica del matrimonio, lo fa sempre più spesso in municipio:
«Nell’ultimo decennio si è assistito, all’opposto, a un incremento continuo del
ricorso al solo rito civile per la celebrazione delle prime nozze: dal 29,9 %
del totale dei primi matrimoni del 2011 al 43,4 % del 2021».
Ma
è abbastanza ovvio che non si risolve la questione “pagando” gli sposi perché
lo facciano secondo il rito tradizionale. Non è certo questo l’interesse della
Chiesa. Ci sono già fin troppi matrimoni la cui validità canonica è viziata da
fattori che ne inficiano il significato propriamente religioso. E in ogni caso
il problema è molto più radicale di quello economico. La crisi del matrimonio
cattolico ha origini molto più profonde. Siamo davanti una eclisse del
cristianesimo – non solo in Italia, ma in tutta l’Europa – che neppure
l’effervescente testimonianza di papa Bergoglio riesce a mascherare.
L’Europa
scristianizzata
Nell’immediato
dopoguerra, l’arcivescovo di Parigi, il card. Suhard, pubblicò una lettera
pastorale che, nell’edizione italiana, apparve col titolo, un po’ allarmistico,
Agonia della Chiesa. Oggi, a distanza di quasi un secolo, questa espressione
non appare più esagerata, almeno per quanto riguarda l’Europa. La
scristianizzazione del continente che storicamente è stato la culla della civiltà
cristiana è troppo evidente per avere bisogno di illustrazioni.
Basti
pensare che, mentre i “padri” del progetto di un’Europa unita – uomini come
Robert Schumann, Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer – erano anche dei ferventi
cattolici e vedevano nel cristianesimo l’anima spirituale della nuova realtà
politica che essi auspicavano, pochi mesi fa il parlamento europeo ha votato a
larga maggioranza una mozione che chiede l’inserimento del diritto di aborto
nella Carta dei diritti fondamentali. Stridente, emblematico contrasto fra un
sogno e la sua realizzazione concreta.
Ma è solo il sintomo di un clima culturale che ha ormai ridotto drasticamente l’influenza della visione cristiana sulla popolazione del Vecchio Continente. Siamo immersi in un clima che si potrebbe definire post-cristiano, perché, se pure risente in qualche modo dell’originaria prospettiva religiosa, la declina attraverso il filtro dell’illuminismo e del liberalismo. La concezione della persona che sembra dominare pressoché incontrastata si ispira a un individualismo che assolutizza i diritti dei singoli nella loro sfera privata – secondo il noto principio che “la libertà di ciascuno finisce dove comincia quella dell’altro” – e riduce ad una funzione puramente formale il ruolo delle comunità e dell’autorità, anche di quelle civili, ma innanzi tutto di quelle religiose.
La
crisi nell’ambito ecclesiale
La
crisi del cristianesimo è così anche crisi delle Chiese e di quella cattolica
in particolare. Sono eloquenti alcuni dati: in Olanda i cattolici oggi sono
circa 3,5 milioni su una popolazione di 17 milioni e soltanto 150.000 vanno a
messa la domenica. In Germania, le persone che frequentano la messa domenicale
sono il 6% e, solo nel 2019, 272.771 persone hanno deciso di abbandonare
deliberatamente la Chiesa cattolica. In Francia la partecipazione alle messe è
ormai sotto il 4% e i matrimoni in chiesa rappresentano il 40%. A confronto in
Italia, col 19% di partecipazione alla messa domenicale e il 58,4% di matrimoni
religiosi la crisi è ancora molto meno marcata.
Eppure,
c’è, ed è evidente. Anche là dove rimane una sensibilità religiosa, essa tende
sempre di più a esprimersi in credenze e comportamenti fortemente soggettivi. È
venuta meno l’adesione incondizionata ad un orizzonte organico di verità di
fede. Ormai la maggior parte degli stessi “credenti” ha una sua “lista”
personale delle cose in cui crede e di quelle in cui non crede.
Ma
è la stessa struttura ecclesiale che appare in seria difficoltà. Sintomatica la
forte diminuzione delle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. I
seminari sono spesso enormi edifici, costruiti in altri tempi per ospitare un
numero ingente di futuri presbiteri, e oggi dati parzialmente o totalmente in
affitto per ospitare scuole o altri enti pubblici. Ci sono diocesi dove una percentuale sempre
maggiore di presbiteri è costituita da stranieri. Per non parlare degli ordini
religiosi, in particolare di quelli femminili, i quali ormai hanno le loro
nuove vocazioni quasi esclusivamente in Africa e in Asia.
Ma
la crisi dei presbiteri e dei religiosi, prima ancora di essere quantitativa,
riguarda la loro percezione della propria identità, in un mondo che è
profondamente cambiato e dove già l’idea stessa di una scelta definitiva, com’è
quella del sacerdozio ordinato o della consacrazione, appare problematica.
A
questa difficoltà di fondo si sono aggiunte le sconvolgenti rivelazioni sulla
diffusione degli abusi sui minori commessi da sacerdoti e l’onda di discredito
e di sospetto che esse hanno gettato, per colpa di alcuni (troppi!),
sull’intera categoria.
Così accade che oggi, nella Chiesa, l’incertezza più profonda e più sottile circa la propria identità e le motivazioni della propria scelta serpeggia proprio tra i presbiteri. Ed è una fragilità che si riflette nel modo di interpretare la propria missione e di esercitare il proprio ministero.
Tra
vecchio e nuovo
A
confronto, il laicato appare più vivace e determinato, ma spesso manca ancora
della piena consapevolezza e della formazione necessarie per svolgere con
efficacia il proprio ruolo, che non è di semplice fiancheggiatore del clero
(come in passato veniva inteso), ma di protagonista a pieno titolo della vita e
della missione della Chiesa. Per non dire che una eredità ancora molto radicata
di clericalismo, presente nelle comunità ecclesiali, continua a pesare nelle
parrocchie e nelle diocesi, impedendo nella maggior parte dei casi una
coraggiosa valorizzazione delle competenze dei laici e dunque una reale
condivisione del carico pastorale. Stenta a svilupparsi, così, quella
necessaria sinergia tra pastori e fedeli, che oggi più e mai appare necessaria
ad entrambi per ridare slancio alla comunità ecclesiale.
Una
forte corrente tradizionalista, nata in polemica più o meno aperta con il
rinnovamento proposto dal Concilio, accusa proprio questo sforzo di
modernizzazione della Chiesa di avere indebolito lo spirito di fedeltà che la
rendeva salda di fronte alle difficoltà. È una polemica che già serpeggiava
durante il pontificato di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, che del
messaggio conciliare sono stati per la verità interpreti molto prudenti, e che
è esplosa sotto il pontificato di papa Francesco, molto più esplicitamente
impegnato ad attuare lo spirito del Concilio. Come se la tradizione si
riducesse alla conservazione del passato e non fosse, piuttosto, la rilettura
di quest’ultimo alla luce dei problemi e delle opportunità del presente e nella
proiezione verso le prospettive del futuro. E come se la fedeltà alla radici
escludesse il rischio della crescita.
La
lotta che ci attende
Non
è certo la prima volta che la barca di Pietro si trova ad affrontare flutti
tempestosi che la scuotono con violenza. Non si tratta di eludere la crisi, ma
di affrontarla senza nascondere i problemi, e al tempo stesso senza lasciarsene
scoraggiare. Il significato originario del termine greco agonia non è “morte”,
ma “lotta”, “combattimento”.
La Chiesa è messa alla prova, come del resto è accaduto in altre epoche di transizione, e – come allora – solo con scelte coraggiose di rinnovamento potrà riscoprire e riproporre efficacemente il senso della sua missione.
Nella
sua lettera pastorale il card. Suhard attribuiva grande importanza, per questo,
alla capacità dei cristiani di impegnarsi in un grande sforzo di creatività
culturale, essenziale per il mondo e, al tempo, stesso, per assolvere in esso
la loro missione.
Vorremmo
vedere maggiore consapevolezza di questa urgenza nelle nostre diocesi e nelle
nostre parrocchie, ancora spesso dominate da un ritualismo che lascia poco
spazio alla riflessione e al dibattito culturale. «Il più grave errore in cui
potrebbero cadere i cristiani del xx secolo», scriveva l’arcivescovo di Parigi,
«l’errore che i loro discendenti non perdonerebbero loro mai, sarebbe di
lasciare che il mondo si faccia e si unifichi senza di essi, senza Dio – o
contro di Lui; sarebbe di accontentarsi per il loro apostolato di ricette e di
espedienti. Questo errore noi non vorremmo commetterlo».
In
un mondo che ha smarrito in larghissima misura il senso della realtà e della
stessa vita umana – sostituita nella scala di valori dal profitto
capitalistico, dalla logica della violenza, dalla omologazione dei fenomeni di
massa – , bisogna ricominciare a esercitare il diritto/dovere di pensare i
problemi in termini nuovi.
Il
Vangelo è per questo la migliore risorsa. Ma bisogna saper attingere ad esso
gli stimoli per una svolta – della società e al tempo stesso della comunità
cristiana – e avere il coraggio di tradurli in pratica.
Il
cammino sinodale che sta impegnano la Chiesa universale e quella italiana in
particolare può essere per tutto questo una grande occasione. A patto di non
ridurlo a una prassi meramente formale. È il momento di cambiare passo. Dipende
da ciascuno dare un contributo perché questo avvenga.
*Pastorale della Cultura – Diocesi Palermo
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