venerdì 25 novembre 2022

ALLA RICERCA DELL'UMANO


INTERVISTA 

SERGIO MASSIRONI

 - di Rocco Gumina*

Le società complessa nella quale viviamo è contraddistinta da un fluire infinito di informazioni, eventi e crisi. In questo contesto, tutto è fluido perciò si stenta a individuare il senso profondo degli avvenimenti e della storia in generale. La Chiesa cattolica, attualmente impegnata in un processo di riflessione e riforma tramite il percorso sinodale, avverte profondamente la crisi dell’epoca dei cambiamenti e, pertanto, abbisogna di un cammino di ripensamento radicale. Di questo tema discutiamo con don Sergio Massironi. Direttore di ricerca presso il Dicastero vaticano per lo Sviluppo Umano Integrale, si occupa del rinnovamento della teologia a partire dai margini e dalle periferie. Di recente, per le edizioni Castelvecchi, ha pubblicato il suo ultimo volume intitolato "Cattolico cioè incompleto". Un’identità estroversa. Un’appartenenza antitotalitaria.

 – Don Massironi, nel suo ultimo libro, lei sostiene che la vera cifra del cattolicesimo sia il perenne riconoscimento della propria incompletezza. Da ciò, ne consegue un’identità dialettica diretta alla continua ricerca di tutto ciò che è umano. Quali sono i motivi che la spingono a ritenere che questo sia una possibile declinazione del cattolicesimo nel XXI secolo?

 Grazie per questa domanda. Per rispondere devo anzitutto riconoscere un grande debito: nessuno è se stesso e arriva a cogliere le parole che deve dire, senza avere ascoltato e ricevuto molto. Il titolo di questo libro rinvia direttamente, come scrivo nell’introduzione, a delle espressioni provocatorie di papa Francesco: «Il teologo che si compiace del suo pensiero completo e concluso è un mediocre. Il buon teologo e filosofo ha un pensiero aperto, cioè incompleto».

 Ascoltandole, si è stabilita in me la connessione con quanto ci insegnava, da arcivescovo di Milano, un uomo per molti aspetti diverso da Bergoglio: il cardinale Scola, infatti, insisteva sul fatto che “cattolico” non significhi tanto “universale”, quanto “ciò che rinvia all’intero”. Se a definire la mia identità è il rimando ad altro, significa che decisiva è la sua apertura: il suo avere un sapore non è quindi alternativo al rimanere estroversa. Scriveva Simone Weil in un libro che ho studiato con Roberta De Monticelli: «Quando un pittore di autentico valore va in un museo, la sua originalità si sente rafforzata».

 Il volume si intitola La prima radice ed è uno dei migliori scritti del Novecento sul tema controverso dell’identità. In Cattolico, cioè incompleto tento di raccogliere questa eredità e di inserirmi – lo faccio a più riprese ed esplicitamente – nel solco del maggiore riferimento della mia giovinezza, il cardinale Carlo Maria Martini. A dieci anni dalla morte è sempre più chiaro come il suo rapporto con la Parola di Dio e con la Chiesa-istituzione sia stato nutrito dall’incontro con gli altri e insieme lo abbia reso possibile a livelli sempre più radicali. Il suo ministero rappresenta una delle più efficaci declinazioni del Vaticano II, realizzatasi in anni in cui venti freddi rischiavano di congelare i germogli della primavera conciliare.

 Oggi tutto – non solo il papa, ma la frantumazione delle vicende individuali e sociali e la complessità del panorama internazionale – chiede alla Chiesa di dare seguito al Concilio, alla «continua ricerca – come diceva nella sua domanda – di tutto ciò che è umano». Per il mistero stesso dell’incarnazione, infatti, solo questa è la via che consente di entrare in tutto ciò che è divino.

 – La sua proposta pare avanzare la necessità di un esercizio di costante interpretazione evangelica della realtà. Quali conseguenze può generare questo stile di approccio al mondo e alla storia per i cristiani e per la Chiesa di oggi?

 “Interpretare” è un verbo decisivo. Non solo condensa, in ambito filosofico, la svolta ermeneutica del secolo scorso, ormai imprescindibile nell’elaborazione di un pensiero serio e pubblicamente sostenibile; la vera questione è molto più antica. Quello che nel libro chiamo “il corpo a corpo” con il testo biblico ha reso l’ebraismo, e di conseguenza il cristianesimo, vere e proprie culture dell’attenzione: la Parola di Dio va decifrata, non è sempre la stessa, ha sensi molteplici, ci raggiunge in ciò che è scritto, ma più spesso in ciò che resta fra le righe. Figuriamoci che la lingua delle Scritture di Israele è consonantica: già le diverse vocalizzazioni aprono i testi a più interpretazioni. C’è una logica in tutto questo, necessariamente. È il contrario del fondamentalismo. La Bibbia, nome plurale che rinvia a decine di libri diversissimi fra loro, è il più grande dispositivo antidolatrico che l’umanità abbia generato. È a questo livello che si coglie maggiormente il suo essere un testo ispirato: Dio si sottrae a ogni chiusura del discorso, a ogni irrigidimento. Nessuna parola è indifferente, sebbene nessuna basti. È chiaro che il contributo della filosofia greca abbia alimentato in modo formidabile questa propensione a interrogare, a vedere sempre l’altra faccia della realtà. A suo modo anche la capacità inclusiva del diritto romano e la scoperta in architettura e nella pittura della prospettiva lo hanno fatto: centralità del punto di vista. Per tornare – va detto – a quel pensiero ebraico senza il quale il Novecento avrebbe rappresentato la fine della parabola moderna. Ebbene, nel libro provo a dire che il Moderno è un orizzonte di grazia che non solo non è finito, ma in cui i cattolici sono fino a oggi troppo poco entrati. È prevalsa per quasi cinque secoli un’opposizione ecclesiastica alla cultura contemporanea che, se ha colto in anticipo i limiti strutturali di tendenze che hanno prodotto conseguenze tragiche, ha manifestato più la paura di perdere potere e controllo che la capacità di interpretare i segni dei tempi. “Interpretare”, appunto. Significa saper leggere, e saperlo fare criticamente, a più voci, integrando prospettive. Significa anche dare credito, provare sincera curiosità, incantarsi.

 – Il turbocapitalismo dell’odierna società spinge verso la moltiplicazione delle prestazioni finalizzate a produrre secondo modelli meritocratici sempre più stringenti. Per molti studiosi, è possibile uscire da questa implicita forma di totalitarismo attraverso la vulnerabilità e l’incompletezza tipiche della natura umana. Su questo tema, a parer suo, il cristianesimo quale contributo può offrire?

Il magistero cattolico rappresenta oggi, a livello planetario, la piattaforma più strutturata e almeno potenzialmente più influente per una critica radicale a quello che, come lei, molti chiamano ormai “turbocapitalismo”. È evidente che la drammatica perdita di credibilità del clero e la lentezza delle riforme indebolisca molto questa epocale chiamata a esercitare un ruolo profetico, anche fra le religioni e le prospettive laiche con cui sono reali le convergenze.

 Le encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti, insieme a molti viaggi e gesti di Papa Francesco, hanno un impatto pubblico che le Chiese locali e numerosi cattolici sembrano ancora stentare a riconoscere. Naturalmente ci sono anche grandi interessi e veri e propri centri di potere che non hanno alcun guadagno dalla credibilità della Chiesa e dai contenuti del suo messaggio.

 Al cui interno – nel libro provo a dirlo – certamente la vulnerabilità e persino il fallimento hanno un posto, ma in una visione che afferma la vita, non il dolore. Noi abbiamo letto Nietzsche e non possiamo in alcun modo cadere nelle defigurazioni del cristianesimo che il filosofo acutamente denuncia. La nostra non è una morale degli schiavi. Noi non contestiamo la crescita, il successo, la vita. Abbiamo ottime ragioni, però, per ritenere devastanti, ingiuste, insostenibili molte delle traiettorie che minacciano il Pianeta e allargano la forbice delle diseguaglianze rendendo il mondo infernale per un numero sempre maggiore dei suoi abitanti, umani e non. C’è chi pensa a colonizzare Marte e rifiuta di vedere le periferie della propria città.

 – La Chiesa cattolica, per ferma volontà di papa Francesco, è in pieno cammino sinodale. Un percorso di conoscenza delle proprie fragilità e di rilancio dell’annuncio evangelico in un mondo in perenne crisi. Per i credenti, l’unica certezza è la consapevolezza che è giunto il tempo di “rimboccarsi le maniche”. Su questo siamo tutti d’accordo, ma verso dove dovrebbe indirizzarsi l’esito di questa fatica quando molti scenari ecclesiastici appaiono immobili e privi di vitalità?

 Rimboccarsi le maniche non basta. Specialmente noi Italiani siamo fatti così. Generosi, pronti, specialmente nelle emergenze. No, ci occorrono visioni. Papa Francesco ama molto una espressione biblica: ci occorrono sogni. Sogni personali innestati su un sogno comune. Senza il secondo si restringono e poi svaniscono anche i primi. Non basta “fare”. Persino la carità potrebbe diventare retorica. Abbracciare il povero sconvolge il pensiero. Commuove. Muove cioè da dentro e muove tutto.

 Noi abbiamo bisogno che la realtà sposti le nostre idee. Ci metta gli altri davanti, facendoci alzare lo sguardo e guardare negli occhi chi rappresenta veramente altro. L’intruso, come lo definiva il filosofo francese Jean-Luc Nancy in un saggio di straordinaria bellezza e di capitale importanza, in cui il primo straniero si rivela essere non quello che viene da fuori, ma quello che già abita in lui. Essere incompleti non è una forma di debolezza, ma una legge di apertura, che è insieme di morte e di vita: “morire a sé stessi” – si diceva una volta – è la chiave per vivere di più. Non abbiamo mostrato ancora questo “vivere di più”. Forse non l’abbiamo realmente sperimentato.

 In tal senso l’esito della fatica di cui lei parla dovrebbe essere gioia. Questo è il punto a mio giudizio vertiginoso. Siamo una Chiesa che dà credito alla gioia, che sostiene chi genera gioia? Molte energie sembrano spese per difendere strenuamente ciò che è morto e nel combattere ciò che nasce. Chiacchiericcio, sospetto e non di rado interventi disciplinari minacciano ciò che, siccome vive, sembra mettere in ombra chi vita non ha.

 In tutti i gruppi umani esistono dinamiche di questo genere, ma è paradossale che chi vuol fare affari oggi sia attento a coltivare buone idee e qualità relazionali che la Chiesa stenta a riconoscere generative. È precisamente in questo, così come nella critica al capitalismo, che il laicato appare silenziato, invisibile, trattato ancora come se non fosse Chiesa. La distinzione clero-popolo di Dio, oltre a trattare il clero come se stesse di fronte e non dentro il corpo, impedisce un “rimboccarsi le maniche” efficace. E spegne i sogni. La via sinodale riguarda questo punto.

– La grande lezione dell’insegnamento sociale ci dice che la Chiesa è “esperta di umanità”. Tuttavia, non solo nel nostro Paese, i cattolici appaiono sempre più afoni e incapaci di produrre utilità sociale a partire dal messaggio evangelico. È possibile invertire la rotta?

 In troppe occasioni i cattolici non si dimostrano affatto esperti in umanità. Per l’importanza storica che hanno avuto nel rappresentare la Chiesa, va aggiunto che i preti e le persone consacrate non appaiono ai nostri contemporanei e in particolare ai giovani esperti di umanità, o portatori di un di più di umanità. Che ci piaccia o meno e che sia giusto o meno – la realtà è infatti sempre più ricca delle impressioni generali – oggi si pensa il contrario e cioè che la Chiesa cattolica rappresenti un vero e proprio dispositivo di blocco rispetto ai diritti delle persone, alla piena fioritura delle loro differenze, specialmente culturali e di genere, così come alla loro autodeterminazione.

 Non credo si tratti solo – come spesso si dice – di un problema di comunicazione. Il punto non è diventare più accattivanti, perché non abbiamo un prodotto da vendere. La Chiesa è “esperta di umanità” non per ciò che possiede, ma per ciò che la possiede: è l’umanità di Cristo il mistero di Dio. L’umanità di Cristo è tutto meno che ecclesiastica e infatti continua a sprigionare fascino. La Chiesa è credibile nella misura in cui se ne lascia affascinare non spiritualisticamente, ma operativamente. È esperta in umanità se – come hanno fatto i grandi missionari del passato e teologi come Agostino, Tommaso, Ildegarda, Ignazio, Teresa – assume e allarga la cultura in cui è inserita.

 La contemporaneità va amata. I seminari non possono essere il rifugio di chi la fugge o vi si trova a disagio. Nel mio libro cito un’intervista al cardinale Ravasi in cui Gesù è descritto così: «La mia convinzione è che egli fosse una figura simile a spugna, uno di quelli che riescono a filtrare e a comprendere percorsi diversi, un uomo molto sensibile alle atmosfere e per questo capace di conoscere con precisione le tipologie fondamentali del suo mondo, entrando però anche in polemica con esse, il che dimostra che era non solo recettivo ma anche creativo. Anzi, io direi che proprio questa era la sua grandezza». Si dovrebbe poter descrivere così anche la Chiesa che si definisce suo Corpo.

www.tuttavia.eu

*Rocco Gumina insegna Religione nell'Arcidiocesi di Palermo. Dal 2014 è presidente dell'associazione culturale "A. De Gasperi". Pubblica, su riviste specialistiche, articoli che sviluppano temi legati alla relazione fra teologia, spiritualità e politica.

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