OCCHI NUOVI
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di Antonella Reffieuna
È
uno dei testi in cui il confine tra letteratura e scientificità è molto labile,
per cui dovrebbe essere oggetto non solo di lettura ma di attento studio da
parte di insegnanti e psicologi. La ragione sta nel fatto che nel descrivere le
condizioni tragiche in cui vivevano i bambini nel Padiglione n. 8 dell’Ospedale
Psichiatrico Santa Maria della Pietà, Ammaniti precisa anche, in modo
estremamente efficace, quali dovrebbero essere le condizioni familiari e
ambientali affinché un bambino possa svilupparsi in modo adeguato.
Ancora
una volta (come già hanno fatto molti studiosi) egli sottolinea che la prima
condizione, quella di partenza, dovrebbe consistere nel credere nelle
possibilità di sviluppo, nel non ritenere che sia possibile parlare di
irrecuperabilità, nell’osservazione attenta e quotidiana, nella negatività
delle situazioni di caos e di assenza di regole, in comportamenti
apparentemente banali quali ad esempio l’appello.
“Il
nome di ogni alunno ripetuto tutte le mattine diventa un rituale che sancisce
la presenza o l’assenza all’interno di una comunità” (p. 104) e permette a
tutti di acquisire la consapevolezza del proprio nome, primo gradino per la
costruzione dell’identità. Allo stesso modo, è fondamentale il contatto
oculare, che “accelera la comunicazione con gli altri” (p. 106). Si tratta di
comportamenti e situazioni che non configurano un “metodo di insegnamento” ma
che dovrebbero essere espressione della competenza di base dell’insegnare.
Non
si può non rammentare come già Montessori avesse scoperto, all’inizio della sua
attività, i bambini del manicomio di Roma: erano i cosiddetti “frenastenici”,
cioè deboli di mente, o, più comunemente, “deficienti” o “idioti”, che, oltre
al ritardo mentale, comprendevano casi di cecità, mutismo, sordità, epilessia,
paralisi, autismo, rachitismo, disturbi caratteriali, demenza da malnutrizione.
Considerati incurabili e quindi rinchiusi a vita, vestiti con un grembiule di
tela grezza, sporchi, inselvatichiti, erano forse l’aspetto più terribile di
quel luogo spaventoso (p. 45 di Il bambino è il maestro, di Cristina De
Stefano). Anche Montessori aveva sottolineato l’importanza dell’appello: “i
bambini attendono che lei – dalla stanza accanto – li chiami. Pronuncia ogni
nome a voce bassa, allungando le vocali. Come se li chiamasse da lontano, e
ogni piccolo si alza senza fare rumore e la raggiunge, felice di essere stato
scelto: ‘Dopo tali esercizi sembrava ch’essi mi amassero di più: certo erano
diventati più ubbidienti, più dolcemente miti. Infatti, ci eravamo isolati dal
mondo e avevamo passato qualche minuto insieme uniti tra noi: io a desiderarli
e chiamarli, ed essi a ricevere, nel silenzio più profondo, la voce che si
rivolgeva personalmente a ciascuno di loro, giudicandolo in quel momento il
migliore di tutti’ (De Stefano, p. 109).
Non
a caso Ammaniti e Montessori presentano, in epoche diverse e a distanza di
sessant’anni, il comune riferimento agli studi di Edouard Seguin. È tragico
però dover constatare come all’inizio degli anni Settanta, quando Ammaniti
entra per la prima volta nel manicomio, non fosse cambiato quasi nulla: bambini
di pochi mesi venivano diagnosticati come “pericolosi a sé e agli altri” e
rinchiusi in manicomio solo perché con problemi di salute o con disabilità che
ne provocavano il rifiuto da parte della famiglia.
Allo
stesso modo erano rimasti inalterati i grandi saloni (dette “le sorveglianze”)
in cui i bambini venivano raggruppati. Montessori aveva osservato come i
bambini, appena finito di mangiare, si gettassero per terra, raccogliendo le
briciole di pane e mangiandole. Lo stanzone era completamente vuoto, un grande
spazio spoglio e freddo. Quello di quei bambini non era desiderio di cibo, ma
di poter interagire con qualcosa, perché quegli avanzi di pane erano le uniche
“cose” a loro disposizione.
Lo
stesso vuoto di oggetti e di attività è ancora rilevato da Ammaniti, il quale
constata come i bambini del manicomio non siano capaci di giocare e di
interagire con gli altri, per cui attiva una serie di iniziative volte a
restituire loro l’infanzia. Egli ricorda addirittura una analogia con i lager
nazisti, dove i bambini vivevano in uno stato di passività e degradazione (pp.
154-155), e constata soprattutto come trent’anni di democrazia non avessero
minimamente scalfito quella situazione indegna. Forse anche perché Montessori
era stata completamente ignorata dalla pedagogia italiana e, ancor più, dai
decisori politici.
Prima
della legge n. 517/1977 nell’intero Paese ben 300mila bambini venivano
allontananti dalle famiglie e “ricoverati in istituti di assistenza, di cui gli
ospedali psichiatrici erano l’ultimo anello della catena” (p. 64), ma quella
emarginazione era solo l’ultima fase di un percorso che iniziava dalle classi
differenziali e dalle scuole speciali, le quali avevano raggiunto una
numerosità assolutamente abnorme.
Le
conclusioni di Ammaniti sono molto amare: i bambini continuano a essere
l’anello debole della società e la riprova si è avuta nel periodo del lockdown
legato alla pandemia, durante il quale ai bambini era vietato addirittura
uscire sul marciapiedi davanti a casa.
Per
questo occorre leggere anche il libro dal titolo E poi, i bambini,
pubblicato nel 2020, perché la denuncia di Ammaniti è caduta nel silenzio più
assordante.
Purtroppo,
nel nostro Paese si continua a ritenere che i dati statistici siano “freddi
numeri” che non dicono nulla a chi voglia occuparsi di scuola. Non a caso il
rapporto annuale del Censis non è mai stato oggetto di analisi e riflessione da
parte non solo di insegnanti ma anche di dirigenti scolastici, e, forse, di
figure direttive di livello ministeriale. In realtà il problema sta nel “far
parlare” questi dati, ma anche nel disporre di un retroterra di studi
scientifici che permettano di attribuirvi significato.
Gli
studiosi citati da Ammaniti continuano a essere riferimenti validi, senza
dimenticare però le ricerche più recenti, in particolare nel settore delle
neuroscienze. Essere convinti che i bambini dispongono di un cervello che necessita
di essere sviluppato adeguatamente è infatti il primo passo per realizzare
un’inclusione davvero efficace, perché fondata sul riconoscimento di ciò che
accomuna tutti gli esseri umani.
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