a Sharm el-Sheik
- di Mauro BOSSI
What
goes on in Pakistan won’t stay in Pakistan (quanto accade in Pakistan non
resterà in Pakistan): questa scritta campeggiava a Sharm el-Sheik sul
padiglione della delegazione pakistana, che ha portato alla COP27 il suo
bilancio di 1700 morti, quasi 8 milioni di profughi, danni economici oltre i 30
miliardi di dollari, causati dalle inondazioni dello scorso giugno. Un monito
chiaro: ciò che è accaduto in Pakistan è destinato a ripetersi anche altrove,
perché i cambiamenti climatici non sono un’eventualità futura ma una crisi
presente. Ma significa anche: quello che subiscono le comunità più vulnerabili,
non può restare confinato alla periferia del mondo; la comunità internazionale
deve assumere la responsabilità di una situazione che è stata provocata dai
Paesi industrializzati e dalle loro élite economiche e che ora viene pagata
soprattutto dalle fasce più povere dei Paesi in via di sviluppo.
Mia
Mottley, premier delle Barbados, uno degli Stati insulari che rischiano di essere
inghiottiti dall’innalzamento del livello dei mari, ha aperto la Conferenza
portando il punto di vista del Sud globale e mettendo al centro della
discussione la questione del Loss and damage, cioè il risarcimento dei danni e
delle perdite ai Paesi vittime dei cambiamenti climatici, basato sul principio
“chi inquina paga”. È il tema che ha dominato fino alla fine questa COP,
conclusa domenica mattina con 36 ore di ritardo sull’agenda e con un documento
finale che segna un punto di svolta nella storia dei negoziati climatici, pur
lasciando aperti molti interrogativi.
Sud
contro Nord?
I
Paesi del G77, che rappresentano il Sud globale e ormai assommano a 134 membri,
pari a due terzi dei partecipanti alla Conferenza, nel corso degli ultimi anni
hanno rafforzato l’azione coordinata per portare avanti la richiesta di
risarcimenti. A Sharm el-Sheik si sono presentati con una istanza precisa:
creare un fondo per i risarcimenti che sia operativo per il 2024. Tra di essi,
troviamo la Cina, nella posizione ambigua di uno Stato che è il primo
emettitore di gas serra al mondo, aspira ad essere una potenza economica e
militare e, al tempo stesso, rivendica un ruolo di guida dei Paesi più poveri.
Ma anche il Brasile, il cui neopresidente Lula ha ricevuto un’accoglienza
trionfale alla COP e ha promesso un cambiamento di rotta dopo l’epoca
Bolsonaro; il Governo brasiliano ha chiesto di ospitare la COP30 nel 2025 e non
maschera l’ambizione di assumere un ruolo di leadership tra i Paesi del Sud
globale.
Alle
richieste di risarcimento, il G7 ha dapprima risposto proponendo uno “scudo
globale” assicurativo contro i rischi climatici e mettendo sul piatto un fondo
di 210 milioni di dollari a questo scopo. Si tratta di un fondo destinato a
stanziare le polizze assicurative, non direttamente il risarcimento dei danni,
che verrebbe compensato dalle compagnie assicurative qualora si verificassero.
Il progetto, a guida tedesca, è coordinato con il gruppo dei V20 (i 20 Paesi
più vulnerabili ai cambiamenti climatici) e ha sollevato, insieme ad alcuni
riscontri positivi, anche dubbi e sospetti da parte dei Paesi in via di
sviluppo e delle organizzazioni, che temevano che questo fosse un diversivo per
affondare di nuovo, come già accaduto a Glasgow, la questione Loss and damage e
ritenevano che lo strumento fosse comunque inadeguato a fronte dell’entità dei
danni, anche perché non coprirebbe quelli di lungo periodo, come la
desertificazione e l’innalzamento del livello del mare. Il paradosso sta nel
fatto che, come ha affermato Alok Sharma, presidente della COP26, ci sono ormai
settori economici impossibili da assicurare, perché i rischi sono diventati
quasi delle certezze.
A
questo riguardo la posizione degli Stati Uniti è netta: nel suo discorso alla
COP, Joe Biden ha confermato l’impegno della sua amministrazione a dimezzare le
emissioni entro il 2030 e ha illustrato le misure ambientali contenute
nell’Inflation Reduction Act; ha annunciato gli accordi con Egitto e Angola per
la transizione energetica e l’aumento dei contributi per l’adattamento; ma ha
anche dichiarato che gli Stati Uniti non accettano il principio “chi inquina
paga” e non sosterranno la creazione di strumenti finanziari per risarcire i
danni e le perdite.
Anche
l’Unione Europea ha avviato le trattative glissando sui risarcimenti e puntando
sulla cooperazione, infatti a Bali aveva appena siglato un progetto di
partnership pubblico-privato per finanziare la transizione energetica
dell’Indonesia, quarto Paese al mondo per popolazione e ottavo per emissioni.
Ma tra gli europei le posizioni erano sfumate: Austria e Irlanda si
presentavano con una posizione favorevole ai risarcimenti, mentre la Germania
cavalcava lo “scudo assicurativo” e la Francia premeva sulla Banca mondiale e
sul Fondo monetario internazionale per la ricerca di nuove soluzioni
finanziarie. Il Governo italiano ha mantenuto un profilo discreto, affidandosi
al lavoro della delegazione coordinata da Alessandro Modiano, nominato dal
Governo Draghi. Sul ruolo italiano alla COP, giudicato modesto da diversi
commentatori, gravano diversi fattori: il recente insediamento del Governo,
espressione di una maggioranza politica che si è presentata alle elezioni senza
una vera agenda ambientale, e l’inesperienza, in materia di clima e di
negoziati internazionali, del nuovo ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto
Fratin.
Ad
alimentare il sospetto verso Europa e Stati Uniti da parte del Sud globale,
gravano almeno due fattori: l’inefficienza con la quale sono stati finora
erogati i fondi per l’adattamento dei Paesi in via di sviluppo e il fatto che
si tratti principalmente di prestiti che potrebbero aggravare il debito estero
di questi ultimi. Questo clima di sfiducia ha rallentato i negoziati, facendo
temere, in più di un momento, che la Conferenza potesse chiudersi senza
un’intesa.
Ricostruire
la fiducia spezzata
La
svolta è arrivata giovedì sera, quando l’Unione Europea ha accettato la
creazione di un fondo per i ristori ai Paesi vulnerabili, ponendo due
condizioni: un impegno più deciso per l’uscita dai combustibili fossili e
l’estensione del plateau dei donatori per i risarcimenti; l’obiettivo è che a contribuire
al fondo sia anche la Cina, che non può continuare a pretendere di venire
considerata come un Paese in via di sviluppo, secondo la classificazione
risalente agli accordi di Rio del 1992, ma anche Russia, Arabia Saudita, Corea
del Sud. Stabilire chi pagherà, quanto, e chi riceverà i risarcimenti, sarà il
compito di una commissione ad hoc, che lavorerà nei prossimi due anni.
Invece,
è mancato il consenso per la progressiva riduzione (phase-down) dalle fonti
fossili, una strategia inevitabile per sperare di mantenere vivo l’obiettivo di
contenere il riscaldamento globale a +1,5°, come stabilito dall’Accordo di
Parigi. È questo il punto che ha suscitato più delusione da parte di quanti, in
prima linea l’Unione Europea, scommettevano invece sull’incremento delle
ambizioni e del processo di uscita dalle fonti fossili.
Secondo
il Segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres, l’istituzione di un fondo
di risarcimento «è un segnale politico necessario per ricostruire la fiducia
spezzata». In queste parole, al netto degli obiettivi parzialmente raggiunti,
possiamo trovare una chiave di lettura di questa Conferenza e dei suoi esiti.
Le COP sono un luogo di diplomazia, nel quale si riverberano i conflitti, gli
interessi, le alleanze e le speranze di cambiamento del nostro mondo. Siamo in
un pianeta ferito da rapporti economici e geopolitici violenti, dei quali la
crisi climatica è un epifenomeno. Le COP fanno parte di un processo di
riconciliazione globale: per questo sono importanti, perché sono uno strumento
inclusivo, che ha dato voce ai piccoli Stati insulari e alle vittime delle
alluvioni, ai climatologi preoccupati per lo scioglimento dei ghiacciai e alle
organizzazioni della società civile che partecipano, monitorano i risultati,
fanno da cassa di risonanza perché i cambiamenti climatici restino
all’attenzione di tutti. Il Loss and damage, la cui attuazione resta ancora da
verificare, è una pietra posta nella ricostruzione di un dialogo tra le
nazioni. Pertanto, ci riguarda tutti, indipendentemente dal Paese in cui
viviamo e da quanto i cambiamenti climatici impattano sulla nostra vita.
Riguarda il tipo di mondo che vogliamo costruire e nel quale vivremo domani.
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