NON FA SCUOLA E NON FORMA
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di ERALDO AFFINATI
È
giusto mortificare un adolescente che sbaglia, come ha dichiarato Giuseppe
Valditara, ministro dell’Istruzione (e del Merito)? Direi proprio di no: in
tanti anni di insegnamento, prima negli istituti professionali per l’industria
e l’artigianato, poi agli immigrati, mi sono reso conto che umiliare i ragazzi
sarebbe un errore imperdonabile. Ogni bravo docente lascia sempre una
possibilità di recupero all’allievo, soprattutto quando esprime nei suoi
confronti un giudizio negativo. Mai e poi mai lo dovrebbe mettere con le spalle
al muro. Non tutti infatti hanno la capacità di reagire alla sorte avversa: se
la personalità del “reprobo” è fragile, vulnerabile, segna-ta da precedenti
esperienze negative, la condanna che egli subisce rischia di farlo sprofondare
nel gorgo in cui già annaspa. L’impostazione punitiva non giova a nessuno, per
questo è stata abbandonata da tutti i grandi educatori, i quali hanno superato
l’idea vendicativa fine a se stessa puntando al riscatto di chi non si comporta
in modo corretto.
Ciò
non significa, intendiamoci, assumere un atteggiamento lassista. Quando hai a
che fare con una personalità in formazione, sei chiamato a ripristinare lo
spazio dialettico: tesi, antitesi e sintesi. Se i ragazzi non trovano
l’incarnazione del limite da rispettare, non potranno crescere, resteranno nel
vuoto. Insegnare ai giovani è un lavoro meraviglioso che esige dedizione
assoluta: per diventare al tempo stesso maestri e amici non basta indicare il
rispetto del precetto, bisogna mostrare sulla propria pelle il costo della
scelta compiuta, vale a dire le rinunce che hai fatto per essere ciò che sei.
Solo così gli scolari problematici ti verranno dietro. Altrimenti, se li hai
feriti, appena potranno, se ne andranno via. E quando ne perdi uno, è come se
li avessi persi tutti. Ci starai male anche più di loro. Se invece li avrai
fatti rientrare nel gruppo, ti sentirai soddisfatto.
Don
Lorenzo Milani, di cui stiamo per celebrare il centenario della nascita, era
severo, spesso intransigente; molti suoi ex allievi rammentano i modi bruschi
che aveva, impegnato a far emergere in ogni alunno le risorse migliori,
tuttavia non mancava di far trapelare dietro a ogni rimbrotto un buffetto
affettuoso, ben sapendo che la gioventù è l’età degli errori, delle piste
false, delle tentate prove, dell’incertezza. Non si raggiunge la maggiore età
eseguendo il mansionario che ci viene proposto. È necessario superare un
percorso irto di ostacoli: se la scuola non aiuta a far questo, scoprendo il
futuro spesso ignoto agli stessi allievi che la frequentano, si trasforma in un
semplice ufficio culturale e amministrativo.
Ecco
perché sui temi educativi non si dovrebbe mai neppure ragionare solo per
slogan: ad esempio, chiedere di togliere i cellulari dalle aule, sulla carta,
potrebbe sembrare una cosa logica, di buon senso, accettabile dalla
maggioranza, per evitare che i ragazzi si distraggano. Salvo poi magari
scoprire che in molte aule del nostro Paese gli smartphone vengono utilizzati
didatticamente da docenti esperti per realizzare imprese conoscitive rilevanti
con l’ambizione di uscire dal sistema ottocentesco purtroppo ancora presente in
larga parte del sistema nazionale. Suggerire l’abolizione del reddito di
cittadinanza per chi non è riuscito a conseguire il titolo di studio
obbligatorio aggiunge legna al fuoco del dibattito in corso, così come
l’invocato incremento dei lavori socialmente utili per fronteggiare i casi di
bullismo. Più che le teorie, vengono in mente i volti delle persone: quelle
variamente imperfette, che per questa ragione hanno sinora fruito del sussidio,
una volta erano studenti sul crinale dell’abbandono, poi sono stati incapaci, per
una ragione o per l’altra, di occupare un posto stabile all’interno della
comunità d’appartenenza. C’è un rapporto che lega entrambe le schiere: gli
sconfitti, i reietti, i fuori squadra, i ripetenti, i casi difficili. Si ha
l’impressione che lo Stato, se imboccasse il sentiero appena intravisto,
farebbe un passo indietro, lasciando nella retrovia polverosa tutti loro con
l’implicita conseguenza logica e operativa di delegare alla Caritas o alle
associazioni di volontariato ogni assistenza umana e sociale.
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