-di Luigino Bruni
Ci sono alcuni libri, e
sono pochissimi, che sono capaci di dire da soli tutto ciò che si deve dire
sulla giustizia, sul dolore morale, sulla vita. Sono figli, come tutti, del
loro tempo e del loro luogo, eppure possiedono il privilegio quasi divino
dell’eternità. I loro personaggi sono più contemporanei dei nostri colleghi,
sono amici e parenti: siamo noi, sono la parte più vera del nostro cuore.
Mentre scorrono le pagine di questi libri e di queste poesie, noi rileggiamo la
nostra vita, si illuminano angoli invisibili o nascosti, quelle parole riescono
a dire il dolore indicibile. Leggiamo le storie dei personaggi e quelle storie
ci leggono e ci svelano l’anima dell’anima.
I Miserabili di Victor
Hugo è uno di questi libri. Il suo protagonista principale è Jean Valjean. Il
romanzo si apre però con un vescovo, monsignor Myriel, cui sono dedicate pagine
tra le più belle e intense della storia della letteratura. Pagine che toccano,
commuovono, convertono.
Siamo nel 1815 - lo
stesso anno dell’inizio della storia dell’altro capolavoro francese: Il conte
di Montecristo. Incontriamo un vescovo, ormai anziano, che in gioventù era
stato figlio di un aristocratico. La Rivoluzione segnò la sua rovina economica
e sociale. Dovette emigrare in Italia con la sua giovane moglie, che morirà
durante quell’esilio. Questo fallimento dei progetti della giovinezza produsse
una svolta: il sacerdozio. Il vescovo ci viene presentato come l’icona del
Vangelo vissuto. Appena nominato dona la sua grande residenza episcopale
all’ospedale di Digne, poi ci viene descritto il suo bilancio personale tutto
speso per i poveri. Quindi lo vediamo spostarsi a dorso d’asino, mai in
carrozza.
Alla casa di questo
vescovo, una sera d’inverno venne a bussare il vagabondo Jean Valjean, appena
uscito dal carcere. Era stato rilasciato dopo diciannove anni di galera. Vi era
finito perché rimasto senza lavoro (era potatore): disperato per la fame dei
sette bambini di sua sorella vedova finì per rubare una pagnotta da un fornaio:
«Vi era entrato cupo, ne uscì disperato». Hugo ci spiega le ragioni di questa
disperazione. Nella prigione, «la luce naturale era accesa in lui», e «la
sventura, che ha la sua luce», l’aveva accresciuta. In quella luce sventurata
Jean Valjean divenne «tribunale a sé stesso», e «riconobbe di non essere un
innocente ingiustamente punito». Quel pane l’aveva rubato davvero, non aveva
saputo sopportare la fame, non aveva saputo aspettare – pensava mentre era in
catene. Ma poi pensò anche: «Solo lui aveva avuto torto nella sua fatale
storia?». E rispose di no. Capì che anche la società aveva la sua colpa, nel
fargli perdere prima il lavoro, poi nel ridurre alla fame lui e i suoi
nipotini, e infine nel tenerlo in carcere diciannove anni per aver rubato una
pagnotta di pane. E così «giudicò la società e la condannò: la condannò al suo
odio». Dichiarò a sé stesso «che non c’era equilibrio tra il danno da lui
causato e il danno causato a lui». Quindi «Jean Valjean si sentiva indignato».
I miserabili è anche una
grande riflessione sull’innocenza degli esseri umani. Anche se Jean Valjean
riconosce le sue colpe, noi sentiamo che è innocente. Perché l’innocenza che
conta non è l’assenza di colpe né l’innocuità (lo vedremo tra poco): se fosse
questo nessuna persona sarebbe innocente. L’innocenza di questo romanzo,
profondamente biblica ed evangelica, ha invece a che fare con la purezza del
cuore, con la sincerità, con l’onestà verso sé stessi e verso gli altri. Jean
Valjean «non era d’indole cattiva. Era ancora buono quando giunse in galera». E
lo scrittore si chiede: «L’uomo creato buono da Dio può diventare cattivo per
opera dell’uomo?»; può la cattiveria degli altri e propria «cancellare la
parola che il dito di Dio scrive sulla fronte di ogni uomo: Speranza»? La
risposta di Hugo è un chiaro: "no". Questa innocenza profonda la
giustizia non la vede, neanche noi riusciamo a vederla negli altri e in noi
stessi. È l’innocenza del figliol prodigo, quella di Giobbe: è l’innocenza che
vede Dio, quella che deve vedere almeno Dio. L’immagine di Dio, la vocazione
all’amore e alla relazione, resta viva e operante nelle nostre midolla
nonostante il gesto di Caino. Lo sguardo dello scrittore, mentre raggiunge le
vittime della sua storia, le tocca con la penna dell’anima e toccandole le
innocentizza. L’arte è la strada invisibile che conduce le vittime dal Golgota
al sepolcro vuoto. La Bibbia ci dice che Dio, guardandoci e toccandoci nella
nostra miseria, ci fa innocenti con il suo sguardo, dal primo respiro
all’ultimo, quando tra le braccia dell’angelo della morte sentiremo la stessa
innocenza con la quale venimmo al mondo.
Con questo odio e con
questa indignazione Jean Valjean era giunto a Digne. In città viene
riconosciuto come ex-galeotto e quindi cacciato dalle locande. Finché,
rassegnato a dormire affamato all'addiaccio, giunge alla porta di Myriel. Il
vescovo lo accoglie, apparecchia la tavola con le posate d’argento. E quando si
rivolge a Jean Valjean con la parola "signore", Hugo ci dona una delle
sue frasi più belle: «L’ignominia ha sete di considerazione».
Dopo questa cena d’agape
fraterna, arriva la notte. Nella mente di Jean Valjean tornano i fantasmi
dell’odio, della rabbia e dell’indignazione: «Quelle sei posate d’argento
l’ossessionavano». Si alza, si dirige verso l’armadio, quindi «ficcò
l’argenteria nello zaino, attraversò il giardino, saltò il muro come una tigre,
e fuggì».
La mattina seguente, la
domestica scopre il furto e avverte il vescovo. E questi: «Era nostra quella
argenteria? Essa apparteneva ai poveri. Chi era quell’uomo? Evidentemente un
povero». Bussano alla porta: «Tre uomini ne reggevano un quarto per il bavero.
I tre erano gendarmi, l’altro era Jean Valjean». Ed ecco l’inatteso: «Ah
eccovi, sono contento di vedervi. Come sarebbe? Ti avevo dato anche i
candelieri d’argento: come mai non li avete presi insieme alle posate?». Il
fiato si ferma.
L’ospitalità è gesto
vulnerabile. L’ospite può essere un angelo (Eb 13,2), ma chi arriva può essere
Ismaele che uccise Godolia che lo accolse, assassinato mentre «mangiavano
insieme» in casa (Ger 41,1). Ci sono sempre stati, ci sono ancora e ci saranno,
ospiti "uccisi" da coloro che ospitano. Quando accogliamo qualcuno a
casa non possiamo sapere cosa accadrà durante la notte; soprattutto quando a
entrare è l’uomo ferito, umiliato, incattivito, indignato. Myriel fu
imprudente: non fu virtuoso, l’etica dell’agape non è l’etica delle virtù. Noi
disapproviamo l’azione di Jean Valjean; ma l’esercizio empatico che ci fa fare
Hugo non si conclude con la raccomandazione: "non accogliere futuri Jean
Valjean"; termina invece aumentando in noi il desiderio imprudente di
aprire una porta in più - almeno quella di casa nostra. Abbiamo smesso di
leggere la Bibbia e I miserabili, abbiamo chiuso le porte e i porti ai nostri
viandanti, e siamo diventati noi i nuovi miserabili.
Myriel ci insegna cosa è
l’agape. Arriva uno sconosciuto, forse un dannato. Diventa uno di casa, tiriamo
fuori per lui le posate più belle. Sappiamo bene, siamo esperti d’umanità, che
quella vista luccicante dopo tanto dolore e cattiveria può diventare una
tentazione invincibile per quel povero. Ma l’onore da donare all’ospite supera
la paura della tentazione - non dobbiamo maledire ogni nuvola carica d’acqua
per il ricordo della tempesta omicida.
Questa forma speciale
(meravigliosa ed essenziale) di dono inizia con una trasgressione: invece di
far dormire l’ospite inquietante in un ospizio, gli dona il letto buono di
casa; non lo manda alla mensa dei poveri, lo invita alla tavola intima. Per
onorare l’ospite gli offre le posate d’argento e lo chiama "signore".
La bellezza è la prima cura di ogni miseria. Poi si va a letto sapendo di
rischiare i beni e persino la vita (l’ingenuità dell’agape non è stupidità), ma
sapendo che quei beni, e persino la vita, non sono proprietà privata, sono già
dono e quindi possono-devono essere donati. Poi arriva l’esperienza del
tradimento, siamo delusi ma non ci sentiamo defraudati. Torna poi l’ospite: si
aspetta la condanna e l’insulto, e invece si trova il per-dono. Cioè al posto
del dono rubato trova un altro dono: l’anello al dito, il banchetto.
Perché però anche i
candelieri? Non bastava la "bugia" buona del dono delle posate? (Nota
bene: le regole astratte, "le bugie non si dicono mai", sono quasi
sempre sbagliate). Forse perché il tradimento di chi ha sbagliato si cura
guardando al futuro, generando speranza con un nuovo dono. È l’eccedenza
gratuita donataci dall’altro che, dopo l’errore, ci rende capaci del
necessario. Solo un nuovo dono può guarire il furto di un primo dono. L’eros
non basta per l’accoglienza vulnerabile. L’amicizia (philia) può donare la cena
e il letto e spingersi fino ai tre gendarmi, ma lì dice all’ospite:
"mascalzone ed ingrato". Solo l’agape arriva ai candelieri. Certo è
difficile, oggi impossibile, costruire un intero sistema sociale e penale
soltanto sull’agape. Ma quando lo costruiamo senza l’agape le nostre società e
le nostre carceri finiscono per somigliare troppo a quelle di Polifemo e dei
beniaminiti di Gabaa (Gd 19-21).
È però nella vita
ordinaria del vescovo dove si trova la dimensione decisiva della grammatica
dell’agape. Myriel ha reagito in quel modo al tradimento del dono - il dono
agapico include fin dall’inizio la possibilità concreta del tradimento -,
perché tutta la sua esistenza era alimentata dall’agape. Ciò che può apparire
come una risposta emotiva è invece il frutto di una vita di esercizio
quotidiano di agape. Come quando vedo qualcuno che sta annegando nel mare in
tempesta: se mi getto d’istinto nel turbinio delle onde è quasi certo che
annego con lui; se a tuffarsi è invece un nuotatore professionista, il
probabile salvataggio è il risultato dell’allenamento di una vita. L’agape non
è improvvisazione: è habitus conquistato, è dura disciplina: «Quando pensate
alla leggerezza della ballerina, guardatele i piedi» (Carla Fracci). Non tutti
possono vivere tutti i giorni l’ospitalità agapica: qualcuno però lo deve fare:
almeno uno, almeno io almeno una volta. Un solo gesto d’agape può riscattare
una vita, quindi può salvare il mondo - lo vedremo domenica prossima,
continuando a seguire Jean Valjean. Ma ora facciamo riposare il cuore sulla
bellezza dell’agape.
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