Con il Lego tra i ragazzi
iperconnessi
- di VIVIANA DALOISO
Ore 8.45, terza media di
un istituto dell’hinterland milanese. Il sacco pieno di Lego in una mano, le
cartelle del Bingo nell’altra. A ogni studente ne viene distribuita una: al
posto dei numeri ci sono frasi. «Ha un profilo social seguito da più di 300 follower»,
«Guarda video su YouTube», «Manda più di 50 messaggi al giorno su WhatsApp» e
così via, fino alle condivisioni, ai video su Tik Tok, a chi il telefono lo
tiene acceso anche di notte, a chi condivide foto e video.
Alessandro alza la mano
annoiato: «E adesso che ci facciamo?». L’educatore risponde: «Adesso giochiamo».
Ogni giorno in 150 scuole italiane – prima di vietarne l’uso, prima di chiedere
di rinchiuderlo in un cassetto e riprenderlo alla fine delle lezioni – c’è chi
prova a insegnare ai ragazzi a usare il cellulare come uno strumento.
Che è quello che dovrebbe
essere, o tornare ad essere. Che è quello che gli adulti – a cui pure al liceo
Malpighi di Bologna in queste ore i cellulari sono stati tolti – forse per
primi, come uno strumento soltanto, non usano più.
Non servono trattati di
psicologia o lunghe prediche su cosa sia giusto e cosa sia sbagliato a chi vive
già connesso h24: «Serve provare a connettere i ragazzi con loro stessi,
ridando anima e senso a quello che col cellulare fanno» spiega Ivano Zoppi,
pedagogista e segretario generale di Fondazione Carolina, in prima linea ormai
da anni sul fronte dell’educazione digitale (e su quello strettamente connesso
della prevenzione al cyberbullismo). Di qui il Bingo: ad Alessandro e i suoi compagni
viene chiesto di alzarsi e di parlare con gli altri, chiedendo loro se fanno o
hanno fatto una delle azioni riportate nelle caselle. Vince chi per primo le
completa – facendole firmare –, il che in effetti avviene piuttosto in fretta.
Perché chiunque ha un profilo social, già a 13 anni; perché chiunque pubblica
video su Tik Tok, passa il tempo su You-Tube, naviga senza il controllo degli
adulti, chatta con gli sconosciuti nei videogiochi, partecipa a una challenge.
«Che non lo faccia a scuola, può senz’altro avere conseguenze positive. Ma il
punto – prosegue Zoppi – è che, in qualsiasi altro momento della giornata e
ovunque lo faccia, abbia consapevolezza di quello che fa e di come lo fa». A
questo punto le azioni descritte nelle caselle vengono prese in esame, una ad
una: perché si ha un profilo social anche se la legge non lo consente ancora?
Come mai si chatta di notte? Con che rispetto verso l’altro si condivide una
sua foto mentre sta facendo qualcosa di stupido, o imbarazzante? Che cosa
proviamo se viene fatto lo stesso con noi? E via dicendo.
In classe si apre il
confronto, fioccano le domande. Che scatenano risate, piccole confessioni,
dibattito. «Il profilo me lo ha aperto mia madre – racconta Elena –, se ero
fuori dalla chat di classe e di pallavolo non ero nessuno». «Me che vuol dire?
– sbotta la sua vicina di banco, Cristina – Mica sei qualcuno perché hai le
chat». «E invece sì» interviene ancora Alessandro dall’ultima fila, che
annoiato non lo è più. L’occasione è buona, per l’educatore, per suggerire ai
ragazzi che la loro identità con lo smartphone non c’entra affatto. A questo
scopo viene proposto loro di costruire un avatar con il Lego, che viene poi
preso in esame da tutti, osservato, messo in relazione con gli altri. E poi,
ancora, di costruire una “scatola degli attrezzi”, con la “pinza delle
responsabilità”, il “nastro della privacy”, il “martello delle regole”: su ogni
oggetto si discute, si passa del tempo a guardarlo da lontano, il cellulare,
per capire cos’è e «perché non può diventare il contenitore della loro vita». A
compiere questo e altri percorsi, nell’ultimo anno scolastico, sono stati oltre
70mila studenti soltanto con Fondazione Carolina. Che della
responsabilizzazione dei ragazzi e della formazione degli adulti (genitori,
insegnanti, educatori, allenatori, catechisti) ha fatto i suoi pilastri:
«Spesso veniamo chiamati in scenari di emergenza – continua Zoppi – laddove
sono accaduti fatti gravi legati all’uso sbagliato degli smartphone e al
cyberbullismo ». Quando è troppo tardi, cioè, per educazione e prevenzione. Ma
la consapevolezza dei dirigenti sta crescendo, «complice il vissuto del Covid,
gli anni della Dad e il malessere crescente dei ragazzi». Che vivendo sugli
smartphone, sugli smartphone anche parlano, amano, odiano, litigano, soffrono,
a volte purtroppo muoiono. «La sensazione che abbiamo, dalle scuole nel centro
di Milano fino a quelle della periferia di Lecce, è che siano persi, travolti
da un’esposizione di cui ignorano regole e modalità. Soprattutto, drammaticamente
invisibili agli adulti». Adulti che ai percorsi di Carolina, sempre pensati per
un momento di raccordo anche con le famiglie, partecipano pochissimo (appena
10mila le mamme e i papà degli studenti incontrati sui 70mila ragazzi di cui si
diceva poco fa, contro i 140mila attesi) e che nel 75% dei casi problematici
legati all’uso dei cellulari (dalle molestie fino al cyberbullismo) dai figli
non vengono minimamente coinvolti «per sfiducia, per paura, più spesso perché
del tutto disinteressati ai loro problemi». Ed ecco perché, allora, chiudere lo
smartphone in una scatola sei ore al giorno rischia di assomigliare più a un
alibi: «A rimanere aperta, e sanguinante, è la ferita dell’educazione».
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