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lunedì 19 settembre 2022

LA GRAMMATICA DEL (PER) DONO


-di Luigino Bruni

Ci sono alcuni libri, e sono pochissimi, che sono capaci di dire da soli tutto ciò che si deve dire sulla giustizia, sul dolore morale, sulla vita. Sono figli, come tutti, del loro tempo e del loro luogo, eppure possiedono il privilegio quasi divino dell’eternità. I loro personaggi sono più contemporanei dei nostri colleghi, sono amici e parenti: siamo noi, sono la parte più vera del nostro cuore. Mentre scorrono le pagine di questi libri e di queste poesie, noi rileggiamo la nostra vita, si illuminano angoli invisibili o nascosti, quelle parole riescono a dire il dolore indicibile. Leggiamo le storie dei personaggi e quelle storie ci leggono e ci svelano l’anima dell’anima.

I Miserabili di Victor Hugo è uno di questi libri. Il suo protagonista principale è Jean Valjean. Il romanzo si apre però con un vescovo, monsignor Myriel, cui sono dedicate pagine tra le più belle e intense della storia della letteratura. Pagine che toccano, commuovono, convertono.

Siamo nel 1815 - lo stesso anno dell’inizio della storia dell’altro capolavoro francese: Il conte di Montecristo. Incontriamo un vescovo, ormai anziano, che in gioventù era stato figlio di un aristocratico. La Rivoluzione segnò la sua rovina economica e sociale. Dovette emigrare in Italia con la sua giovane moglie, che morirà durante quell’esilio. Questo fallimento dei progetti della giovinezza produsse una svolta: il sacerdozio. Il vescovo ci viene presentato come l’icona del Vangelo vissuto. Appena nominato dona la sua grande residenza episcopale all’ospedale di Digne, poi ci viene descritto il suo bilancio personale tutto speso per i poveri. Quindi lo vediamo spostarsi a dorso d’asino, mai in carrozza.

Alla casa di questo vescovo, una sera d’inverno venne a bussare il vagabondo Jean Valjean, appena uscito dal carcere. Era stato rilasciato dopo diciannove anni di galera. Vi era finito perché rimasto senza lavoro (era potatore): disperato per la fame dei sette bambini di sua sorella vedova finì per rubare una pagnotta da un fornaio: «Vi era entrato cupo, ne uscì disperato». Hugo ci spiega le ragioni di questa disperazione. Nella prigione, «la luce naturale era accesa in lui», e «la sventura, che ha la sua luce», l’aveva accresciuta. In quella luce sventurata Jean Valjean divenne «tribunale a sé stesso», e «riconobbe di non essere un innocente ingiustamente punito». Quel pane l’aveva rubato davvero, non aveva saputo sopportare la fame, non aveva saputo aspettare – pensava mentre era in catene. Ma poi pensò anche: «Solo lui aveva avuto torto nella sua fatale storia?». E rispose di no. Capì che anche la società aveva la sua colpa, nel fargli perdere prima il lavoro, poi nel ridurre alla fame lui e i suoi nipotini, e infine nel tenerlo in carcere diciannove anni per aver rubato una pagnotta di pane. E così «giudicò la società e la condannò: la condannò al suo odio». Dichiarò a sé stesso «che non c’era equilibrio tra il danno da lui causato e il danno causato a lui». Quindi «Jean Valjean si sentiva indignato».

I miserabili è anche una grande riflessione sull’innocenza degli esseri umani. Anche se Jean Valjean riconosce le sue colpe, noi sentiamo che è innocente. Perché l’innocenza che conta non è l’assenza di colpe né l’innocuità (lo vedremo tra poco): se fosse questo nessuna persona sarebbe innocente. L’innocenza di questo romanzo, profondamente biblica ed evangelica, ha invece a che fare con la purezza del cuore, con la sincerità, con l’onestà verso sé stessi e verso gli altri. Jean Valjean «non era d’indole cattiva. Era ancora buono quando giunse in galera». E lo scrittore si chiede: «L’uomo creato buono da Dio può diventare cattivo per opera dell’uomo?»; può la cattiveria degli altri e propria «cancellare la parola che il dito di Dio scrive sulla fronte di ogni uomo: Speranza»? La risposta di Hugo è un chiaro: "no". Questa innocenza profonda la giustizia non la vede, neanche noi riusciamo a vederla negli altri e in noi stessi. È l’innocenza del figliol prodigo, quella di Giobbe: è l’innocenza che vede Dio, quella che deve vedere almeno Dio. L’immagine di Dio, la vocazione all’amore e alla relazione, resta viva e operante nelle nostre midolla nonostante il gesto di Caino. Lo sguardo dello scrittore, mentre raggiunge le vittime della sua storia, le tocca con la penna dell’anima e toccandole le innocentizza. L’arte è la strada invisibile che conduce le vittime dal Golgota al sepolcro vuoto. La Bibbia ci dice che Dio, guardandoci e toccandoci nella nostra miseria, ci fa innocenti con il suo sguardo, dal primo respiro all’ultimo, quando tra le braccia dell’angelo della morte sentiremo la stessa innocenza con la quale venimmo al mondo.

Con questo odio e con questa indignazione Jean Valjean era giunto a Digne. In città viene riconosciuto come ex-galeotto e quindi cacciato dalle locande. Finché, rassegnato a dormire affamato all'addiaccio, giunge alla porta di Myriel. Il vescovo lo accoglie, apparecchia la tavola con le posate d’argento. E quando si rivolge a Jean Valjean con la parola "signore", Hugo ci dona una delle sue frasi più belle: «L’ignominia ha sete di considerazione».

Dopo questa cena d’agape fraterna, arriva la notte. Nella mente di Jean Valjean tornano i fantasmi dell’odio, della rabbia e dell’indignazione: «Quelle sei posate d’argento l’ossessionavano». Si alza, si dirige verso l’armadio, quindi «ficcò l’argenteria nello zaino, attraversò il giardino, saltò il muro come una tigre, e fuggì».

La mattina seguente, la domestica scopre il furto e avverte il vescovo. E questi: «Era nostra quella argenteria? Essa apparteneva ai poveri. Chi era quell’uomo? Evidentemente un povero». Bussano alla porta: «Tre uomini ne reggevano un quarto per il bavero. I tre erano gendarmi, l’altro era Jean Valjean». Ed ecco l’inatteso: «Ah eccovi, sono contento di vedervi. Come sarebbe? Ti avevo dato anche i candelieri d’argento: come mai non li avete presi insieme alle posate?». Il fiato si ferma.

 

L’ospitalità è gesto vulnerabile. L’ospite può essere un angelo (Eb 13,2), ma chi arriva può essere Ismaele che uccise Godolia che lo accolse, assassinato mentre «mangiavano insieme» in casa (Ger 41,1). Ci sono sempre stati, ci sono ancora e ci saranno, ospiti "uccisi" da coloro che ospitano. Quando accogliamo qualcuno a casa non possiamo sapere cosa accadrà durante la notte; soprattutto quando a entrare è l’uomo ferito, umiliato, incattivito, indignato. Myriel fu imprudente: non fu virtuoso, l’etica dell’agape non è l’etica delle virtù. Noi disapproviamo l’azione di Jean Valjean; ma l’esercizio empatico che ci fa fare Hugo non si conclude con la raccomandazione: "non accogliere futuri Jean Valjean"; termina invece aumentando in noi il desiderio imprudente di aprire una porta in più - almeno quella di casa nostra. Abbiamo smesso di leggere la Bibbia e I miserabili, abbiamo chiuso le porte e i porti ai nostri viandanti, e siamo diventati noi i nuovi miserabili.

Myriel ci insegna cosa è l’agape. Arriva uno sconosciuto, forse un dannato. Diventa uno di casa, tiriamo fuori per lui le posate più belle. Sappiamo bene, siamo esperti d’umanità, che quella vista luccicante dopo tanto dolore e cattiveria può diventare una tentazione invincibile per quel povero. Ma l’onore da donare all’ospite supera la paura della tentazione - non dobbiamo maledire ogni nuvola carica d’acqua per il ricordo della tempesta omicida.

Questa forma speciale (meravigliosa ed essenziale) di dono inizia con una trasgressione: invece di far dormire l’ospite inquietante in un ospizio, gli dona il letto buono di casa; non lo manda alla mensa dei poveri, lo invita alla tavola intima. Per onorare l’ospite gli offre le posate d’argento e lo chiama "signore". La bellezza è la prima cura di ogni miseria. Poi si va a letto sapendo di rischiare i beni e persino la vita (l’ingenuità dell’agape non è stupidità), ma sapendo che quei beni, e persino la vita, non sono proprietà privata, sono già dono e quindi possono-devono essere donati. Poi arriva l’esperienza del tradimento, siamo delusi ma non ci sentiamo defraudati. Torna poi l’ospite: si aspetta la condanna e l’insulto, e invece si trova il per-dono. Cioè al posto del dono rubato trova un altro dono: l’anello al dito, il banchetto.

Perché però anche i candelieri? Non bastava la "bugia" buona del dono delle posate? (Nota bene: le regole astratte, "le bugie non si dicono mai", sono quasi sempre sbagliate). Forse perché il tradimento di chi ha sbagliato si cura guardando al futuro, generando speranza con un nuovo dono. È l’eccedenza gratuita donataci dall’altro che, dopo l’errore, ci rende capaci del necessario. Solo un nuovo dono può guarire il furto di un primo dono. L’eros non basta per l’accoglienza vulnerabile. L’amicizia (philia) può donare la cena e il letto e spingersi fino ai tre gendarmi, ma lì dice all’ospite: "mascalzone ed ingrato". Solo l’agape arriva ai candelieri. Certo è difficile, oggi impossibile, costruire un intero sistema sociale e penale soltanto sull’agape. Ma quando lo costruiamo senza l’agape le nostre società e le nostre carceri finiscono per somigliare troppo a quelle di Polifemo e dei beniaminiti di Gabaa (Gd 19-21).

È però nella vita ordinaria del vescovo dove si trova la dimensione decisiva della grammatica dell’agape. Myriel ha reagito in quel modo al tradimento del dono - il dono agapico include fin dall’inizio la possibilità concreta del tradimento -, perché tutta la sua esistenza era alimentata dall’agape. Ciò che può apparire come una risposta emotiva è invece il frutto di una vita di esercizio quotidiano di agape. Come quando vedo qualcuno che sta annegando nel mare in tempesta: se mi getto d’istinto nel turbinio delle onde è quasi certo che annego con lui; se a tuffarsi è invece un nuotatore professionista, il probabile salvataggio è il risultato dell’allenamento di una vita. L’agape non è improvvisazione: è habitus conquistato, è dura disciplina: «Quando pensate alla leggerezza della ballerina, guardatele i piedi» (Carla Fracci). Non tutti possono vivere tutti i giorni l’ospitalità agapica: qualcuno però lo deve fare: almeno uno, almeno io almeno una volta. Un solo gesto d’agape può riscattare una vita, quindi può salvare il mondo - lo vedremo domenica prossima, continuando a seguire Jean Valjean. Ma ora facciamo riposare il cuore sulla bellezza dell’agape.

l.bruni@lumsa.it

www.avvenire.it

 

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