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di Nicola
Campagnoli
Mi
colpisce la paura di dire io, sempre più evidente, nella scuola.
Quando
si studiano i poeti, Leopardi, Ungaretti… è incredibile – e innaturale – la
cesura che si opera tra l’autore dei versi e la sua esistenza, tra l’opera e la
vita, come se la scrittura avesse un proprio essere (in parte certamente è
così) rispetto alla quotidianità della persona che scrive.
A
scuola si insegna la struttura della poesia bloccandola dentro una gabbia di
note a piè di pagina e di analisi retoriche, si strappa la poesia dal tessuto
vitale rendendola quasi un mostro, costruzione cerebral-intellettuale di
accademici dediti alla compilazione di antologie in cui i testi sono divisi per
genere, contesto, figure retoriche, tematiche, parole chiave, argomenti….
La
conseguenza è lo staccarsi della passione dello studente dai testi stessi (su
questo rimando a Davide Rondoni, Contro la letteratura. Poeti e scrittori. Una
strage quotidiana a scuola).
A
scuola si studiano L’infinito, La ginestra, Soldati, Veglia, come se queste
liriche sorgessero dal nulla, da un imprecisato humus fatto di metro, misure,
rime, figure, insomma come se in realtà non le avesse scritte nessuno.
Tutti
conosciamo i versi dell’ermo colle o dell’illuminarsi d’immenso.
Ma
nessuno conosce – o racconta – del Giacomo che fa di tutto per diventare famoso
e celebre, che – una volta “scappato” finalmente a Roma dalla dipinta gabbia di
Recanati – scrive al fratello Carlo che anche lì, nella città eterna proprio
come nel natio borgo selvaggio, le ragazze non te la danno. Nessuno dice di
Ungaretti che a ottant’anni perse la testa per una poco più che ventenne
poetessa brasiliana, Bruna Bianco.
In tutte le antologie leggiamo il Pasolini dei Ragazzi di vita. Ma dei suoi amori contrastati e della sua diversità nelle aule non si parla. Perché?
Si
ha paura dell’umano, dell’io. L’io è contraddizione, terreno infuocato, sabbie
mobili. Per parlarne ai ragazzi, occorre vivere il proprio fino in fondo. Una
familiarità, una non reticenza a guardare come si è veramente. A considerare le
proprie domande e le proprie esigenze fondamentali, il percorso della propria
ricerca, delle evidenze raggiunte. La possibilità di un’apertura continua ad
imparare.
La
poesia nasce proprio da questa lava infuocata, sempre in movimento. Da questo
terreno di contraddizione. Non è un algoritmo derivante da studi esatti,
coerenti e analitici della versificazione e dei suoni.
Gli
studenti devono scegliere le domande da tre buste (come nel famoso quiz di Mike
Bongiorno, la 1, la 2 o la 3?). Si fa così per essere neutrali, imparziali,
nell’interrogazione. Si evitano altre domande da parte del prof esaminatore.
Praticamente
viene fatto fuori il dialogo, l’interazione, la possibilità di approfondire.
Di
dire, in tal modo, chi si è. Cosa si pensa. Cosa si vive.
Si
fa fuori l’io.
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