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giovedì 24 dicembre 2020

LE VIRTU' NEL TEMPO DELLA PANDEMIA

 Per vivere bene il distanziamento riscoprite le virtù cardinali

 

di ILARIO BERTOLETTI

 Sono domande che ci accompagnano da mesi: accettare il disciplinamento dall’alto, ribellarsi, o cercare una morale condivisa per far pronte all’andamento sconcertante della pandemia? Tre possibilità per affrontare i dilemmi del distanziamento sociale. È forse sulla terza che vale la pena soffermarsi, partendo da ciò che accumuna morale laica e morale di ispirazione religiosa: l’attenzione alle virtù cardinali. Modelli di comportamento che, di origine platonica e aristotelica, sono state fatte proprie da Tommaso e dalla tradizione cristiana. Modelli che nei secoli sono stati forme di educazione alla libertà interiore. Cardinali perché orientano a cooperare con gli altri. Cooperazione che porta con sé, per rendersi stabile, il mutuo riconoscimento che si è, al contempo, soggetti “agenti” e “pazienti” (sofferenti).

Un riconoscimento sotto la costellazione delle quattro virtù cardinali – temperanza, fortezza, giustizia, prudenza – che, a ben vedere, sono figure del disciplinamento della “tendenza”, presente in ciascuno, al male morale.

I vizi – gli opposti delle virtù: intemperanza, timore in quanto fuggire dal proprio dovere, ingiustizia e imprudenza – sono gradi della falsificazione della relazione intersoggettiva. E innanzitutto manifestazione del male è quella forma di autoinganno che è la presunzione d’innocenza da parte del soggetto. Una deriva perfettista – da “fanatismo morale” – da evitare ricordando che «l’unico stato morale in cui l’uomo possa venirsi a trovare è quello della virtù, ossia dell’intenzione morale in lotta, e giammai quello della santità, sul presupposto del possesso di una purezza perfetta» (Kant). Un lavoro su di sé, mai finito, per contenere “la macchia impura” (l’egoismo) che inerisce alla volontà, a maggior ragione nel contesto del rischio pandemico. 

Un lavoro attraverso le singole virtù. La temperanza, come contenimento del desiderio cieco di affermazione. La fortezza, quale determinazione di fronte alle difficoltà delle decisioni da prendere. La giustizia, come volontà ferma di rispetto dei doveri e dei diritti, che possono tra loro collidere. Il che implica la prudenza, lo sguardo freddo sulle circostanze e le conseguenze, che calcola gli effetti anche involontari delle scelte.

Virtù cardinali che portano ordine interiore, in specie nelle situazioni di tragica incertezza, quale la nostra. Un ordine che preserva la libertà di ciascuno, senza bisogno dello Stato paternalista, che è l’altro volto dell’anarchia del risentimento.

www.avvenire.it

 

 

 

 

sabato 5 settembre 2020

LA SCUOLA NELL'ERA DEL COVID .......

Non solo banchi, mascherine
 e distanziamento

A pochi giorni dalla ripresa, resta irrisolta la grande questione dell’innovazione della didattica e di una nuova alleanza con le famiglie

A cura di AGeSC

Da sempre esiste un periodo preciso che segue i momenti più gravi di una crisi. È il momento in cui non tutti i problemi sono risolti, ma essendo il peggio alle spalle sono in atto quelle iniziative che sono il germe della ripresa. Questo è il momento di attuare le decisioni prese quando le attività erano concentrate al superamento della crisi. Quel momento per la crisi da Covid-19 in Italia è adesso. Quello per la scuola italiana è oggi. In alcuni casi si tratta di rimettere le cose a posto come erano prima della crisi. In altri casi invece non solo non sarebbe giusto rimettere al loro posto le cose prima, ma sarebbe anzi un grave errore le cui conseguenze sarebbero pagate dalle generazioni future. Il mondo della scuola appartiene a questo secondo caso e ne è forse l’espressione più evidente. Come Agesc affermiamo che non è più tempo di riportare la scuola al ruolo della “Cenerentola” della politica italiana soffocata in uno statalismo di stampo ideologico tipico delle contrapposizioni del secolo scorso. Ma nemmeno tornare ad essere il luogo dove privilegiare le questioni occupazionali come merce di scambio elettorale, quantunque in regime post-ideologico.
Correva l’anno scolastico 2017/2018 quando l’allora ministro della Pubblica Istruzione, Valeria Fedeli, lanciava la sperimentazione del percorso di scuola secondaria di secondo grado su 4 anni anziché di 5. L’obiettivo era quello di equiparare il percorso formativo dei nostri studenti su 12 anni di scuola anziché 13, così da renderlo uniforme a quanto avviene in molti Paesi europei e anche negli Stati Uniti. Cosa ne è stato di questo importante progetto di sperimentazione di cui non si sente più parlare? Stiamo parlando dell’anno scolastico 2017/18 quindi di un periodo ancora molto vicino a noi. Ma anche molto lontano purtroppo visto che nel breve periodo di 3 anni scolastici si sono avvicendati ben 4 ministri della Pubblica Istruzione ( Valeria Fedeli, Marco Bussetti, Lorenzo Fioramonti ed ora Lucia Azzolina).
È più che evidente che con un turnover di questo tipo, per cui ogni ministro resta in carica una media di 10 mesi, è impossibile ipotizzare o programmare qualunque progetto innovativo. Anzi crediamo che sia fin troppo difficile fare fronte anche agli impegni correnti della ordinaria amministrazione.
Oggi si sente solo parlare di banchi nuovi sempre più piccoli con o senza rotelle. Piccoli banchi dove uno studente ha spazio solo per mettere un foglio di carta e una matita. Nessuno parla per esempio di flipped classroom (insegnamento capovolto) solo per fare un esempio di carattere innovativo di cui crediamo ci sia urgente bisogno.
Tutto è stato relegato ad una questione di distanza tra una bocca e l’altra. Il sistema scuola in Italia fatto di scuola statale e di scuola paritaria è quindi carente nella sua componente fondamentale quella di gran lunga maggioritaria, di un respiro adeguato ai bisogni che un paese come il nostro sarà chiamato ad affrontare da qui al 2050. Globalizzazione dei mercati, digitalizzazione, economia circolare e cambiamenti climatici, solo per citare quelli più urgenti.
Come Agesc  (Associazione genitori scuole cattoliche ) crediamo che assolutizzare la vita della scuola ad una questione di arredi e di norme sanitarie, quantunque importanti, sia un approccio non propriamente adeguato. Si possono pensare e attuare molteplici scelte in contemporanea. Soprattutto non deve essere mortificata la relazione scuola-famiglia che in questi mesi di pandemia ha sofferto di una subalternità rispetto ad altre pur importanti questioni.
Occorre davvero intraprendere una strada che tutti vorrebbero meno ripida e meno rischiosa. 
Su quale rischio siamo disposti a puntare? Aspettare che la pandemia si sia completamente risolta prima di ripartire con la scuola del futuro è fin troppo rischioso, per le più che evidenti conseguenze. 
Questo è un rischio che non ci possiamo permettere né oggi né mai in futuro al di la di un’altra eventuale crisi che ci potrebbe colpire, sia essa sanitaria sia essa di altro tipo.




sabato 6 giugno 2020

LA GIUSTA DISTANZA OLTRE LA PANDEMIA


- Più che distanti, stiamo imparando a vivere lontani, da tutto e da tutti, rifugiati negli angoli delle nostre case per stare connessi con il mondo, ma isolati gli uni dagli altri Noi esseri umani abbiamo soprattutto bisogno di sperare di tornare a ridere con i nostri amici e amiche in una notte stellata, sotto lo sguardo compiaciuto della luna


di DONATELLA PAGLIACCI

Siamo rimasti tutti – chi più chi meno – recintati entro le nostre case, confinati negli spazi delle nostre vite, margini a volte troppo stretti, per ospitare famiglie disabituate alla condivisione, altre volte troppo larghi per la traversata della vita, che desideriamo o siamo costretti a compiere anche in solitaria. Un virus di per sé dalle misure decisamente piccole è divenuto d’un colpo un mostro che ha rastrellato via i nostri affetti, senza lasciarci il tempo di un saluto, di un bacio e a volte nemmeno di preparare un abito per comporre, decorosamente, gli umani resti dentro una bara. Abbiamo trascorso giorni e, prima che ce ne potessimo accorgere, sono diventati mesi, vissuti da tutti nell'attesa di conoscere l’inizio della fine, cercandolo nelle parole rassicuranti della scienza o in quelle confortanti degli uomini e donne di fede che si sono prodigati per sostenere, incoraggiare, dare fiducia e rilanciare la parola più calda e più sensata di cui avevamo e abbiamo ancora bisogno: speranza.
Sì, perché a dispetto di tutti i pronostici e le valutazioni sul nostro tempo, noi esseri umani abbiamo soprattutto bisogno di questo, di sperare. Sperare di tornare a ridere con i propri amici e amiche in una notte stellata, sotto lo sguardo compiaciuto della luna, sperare di riprendere il proprio lavoro, sperare che l’attività che abbiamo fatto nascere e nella quale ci impegniamo ogni giorno possa continuare ad essere una delle nostre soddisfazioni, anche quando non mancano le delusioni, sperare che il più noto, che ci accompagna ricordandoci chi siamo, il nostro passato non ceda il posto al meno conosciuto e che abbiamo imparato a temere, il futuro. Qualcuno si è affrettato a ricordarci che il virus ha tagliato in due la nostra vita, tra un prima e un dopo scandendo, a chiare lettere, che: “niente sarà più come prima”, un monito che pare una minaccia, un oscuro presagio per il domani, che ormai ha già, per tutti, il sapore della nostalgia. Ci mancano gli sforzi eroici per rincorrere il tempo, che non riuscivamo mai veramente a vivere e le piccole cose che temiamo, assaliti da un acre sapore di amarezza, di avere definitivamente perduto, quegli attimi, a tratti insignificanti, che occupavano, a volte affollandola di inutile, la nostra vita.
Tutto, durante il lockdown, è stato reinventato, ci si è soffermati a pensare a cosa fare, a come riempire le nostre giornate, svuotate del tutto pieno, che le caratterizzava prima, per evitare di sprofondare, improvvisamente, nel loro tutto vuoto. Solo qualcuno, spostando la lente del suo interesse da fuori a dentro, da sé all’altro si è accorto che il volto di chi gli è sempre vissuto accanto era contornato di qualche ruga in più, quella che non aveva avuto il tempo di scorgere prima, tra un ritorno a casa la sera tardi e la partenza di fretta la mattina dopo. Qualcun altro si è reso anche conto che non c’è nulla di scontato, nemmeno il male che può, da oggi a domani, divenire pure peggio. Ma l’assenza della solita vita e delle solite cose, avrebbe anche dovuto ricordarci che siamo figli, amanti, compagni, fratelli, sorelle, padri e madri, cioè che l’amore è a tempo pieno e che, anche durante una pandemia – e forse proprio in una fase emergenziale – l’amore non si sospende, il desiderio e il bisogno d’amore non va in quarantena e l’altro chiede, oggi come ieri, di essere amato riconosciuto, rispettato, accolto. Ci è stato detto che il nostro modo di manifestare l’affettività, fatta di abbracci, del calore che proviene da una carezza, dal modo con cui sfioriamo qualcuno che amiamo veramente, dovevano essere sospesi, interrotti, ci è stato chiesto di stare distanti da tutti, si potrebbe dire tranne che da se stessi, come se la vicinanza custodisse il pericolo del contagio e la distanza fosse la misura per proteggerci e tenerci al sicuro.
Ma in realtà più, che distanti, stiamo imparando a vivere lontani, da tutto e da tutti, rifugiati negli angoli delle nostre case per stare connessi con il mondo, ma isolati gli uni dagli altri, collegati virtualmente, ma privati dell’intensità di uno sguardo, cedendo, ancora una volta, alla tentazione di pensare la distanza come la forma neutra dello stare nella relazione. Abbiamo il sospetto che, sulle note malinconiche o festose che hanno risuonato sui balconi che contornano le vie deserte delle nostre città durante questa pandemia, qualcuno abbia voluto e stia volendo, in realtà, esercitarci a vivere nel timore, pensando che il male proviene sempre da fuori e che, per preservare la nostra incolumità, dobbiamo di nuovo – se mai li avessimo abbattuti – erigere dei muri, tra noi e gli altri, barriere di protezione e di difesa, fatte di sospetto e di indifferenza, quando non anche, di disgusto e di disprezzo. Ci pare che vi sia una minaccia strisciante che si annida dentro e non fuori i recinti della nostra vita, è il rischio di un prepotente ritorno di quell’ego ipertrofico e dispotico che la riflessione dopo la Shoah aveva cercato di ridimensionare e contenere. Legittimati dalla minaccia del contagio, siamo dinanzi al pericolo di un io che torni, in altro modo e sostenuto dalle potenti prestazioni della tecnologia, a fagocitare tutto, che ponga tutto in funzione di sé; temiamo che le campagne sull’ambiente e l’appello alla sostenibilità, che tanta luce hanno portato anche in ambito economico e con forza ci avevano convinti a riposizionare lo sguardo anche sull’altro, oggi possano essere definitivamente abbandonate. Costretti a percepire le nostre abitazioni come porti sicuri contro i marosi del mondo, corriamo il pericolo di restituire lo scettro nelle mani di chi, in nome della legittima difesa dell’io, coltivi solo odio e indifferenza. I teorici dell’individualismo, oggi mascherati da samaritani inaffidabili, potrebbero riuscire a convincerci che la sola strada sia quella di tenere gli altri lontani dalle nostre vite, il fatto è che quando veniamo isolati e senza il senso del nostro essere comunità noi siamo solo più fragili, vulnerabili e facilmente manipolabili. Accanto a ciò, temiamo che la sola apparente riduzione della violenza, sia l’anticamera di un periodo pericolosamente dominato dall’eterofobia, legittimata questa volta dall’idea che dobbiamo avere paura degli altri, più che di noi stessi, dimenticando in tal modo la lezione del grande Dottore della Chiesa, Agostino d’Ippona, che ci ricorda che la genesi del male morale è sempre dentro il recinto del nostro essere e non fuori. Desideriamo, in tal senso, rilanciare l’idea della giusta distanza (che abbiamo espresso nel nostro recente volume
L’io nella distanza. Essere in relazione, oltre la prossimità, Mimesis 2019), come la forma calda dell’essere insieme, il modo di abitare lo spazio che separa me da te, evitando la riduzione dell’uno all’altro, lo sconfinamento e l’impossessamento. Consapevoli di andare controcorrente vorremmo riscoprire la ricchezza e la bellezza di un io che non teme l’altro e che anzi si misura con lo sguardo del prossimo che ha anche il volto di chi non conosciamo, un io che tiene l’altro a distanza ma solo per potergli manifestare più rispetto, più accoglienza, più condivisione, più amore, che lo tiene a distanza solo perché non intende ridurlo entro lo spazio finito della propria sfera di dominio, per controllarlo e addomesticarlo, per renderlo docile e mansueto, che attraverso l’essere a distanza diviene più capace di ascolto, di sentire e riconoscere i suoi bisogni, che lo percepisce nella verità del suo essere per ospitarlo entro lo spazio prezioso della propria vita.
Saper stare alla giusta distanza dall’altro, che oggi possiamo riscoprire – ma che non automaticamente dobbiamo illuderci di saper praticare solo perché siamo rimasti tutti a casa – significa saper accogliere senza fagocitare, amare senza invadere lo spazio vitale dell’altro, donargli un sorriso, sapersi accorgere di dove abitano i suoi sogni ed incoraggiarlo, senza sostituirsi a lui, a realizzare il suo bene nei modi e nelle forme del suo e non del nostro desiderio.



giovedì 23 aprile 2020

LA SCUOLA E LA PANDEMIA. QUALE MODELLO EDUCATIVO?

Se la scuola è «viralizzata» riscopra i diritti pedagogici

Osservare l’allievo, motivarlo, valorizzare le sue potenzialità, aiutarlo nelle difficoltà, personalizzare l’offerta formativa: ecco cosa è importante riuscire a garantire

di Fulvio De Giorgi *

Nel corso dell’Ottocento, quando i Paesi occidentali si sono progressivamente dotati di sistemi scolastici pubblici (con modelli diversi di protagonismo statale o di decentramento), la Scuola ha assunto una sua religiosità civile, quasi come una Chiesa sui generis, con cadenze simili: banchi di scuola/banchi di chiesa; cattedra dell’insegnante/cattedra del vescovo; calendario scolastico/calendario liturgico; orario scolastico/liturgia delle ore; campanella/ campane. In contesti laicistici questa analogia fu giocata come alternativa ostile; nei contesti popolari di base, meno ideologizzati, come sussidiarietà reciproca di due grandi agenzie educative. E in effetti proprio la comune missione educativa (ancorché diversamente caratterizzata) dava sia alla Scuola sia alla Chiesa un presupposto comune di civiltà: l’umanesimo plenario, la dignitas humana, il servizio all’umanità e alla sua crescita. Insomma la centralità dell’essere umano in carne ed ossa: mente e corpo, natura e spirito. La pandemia ha determinato uno stato di eccezionalità che ha comportato, per la Chiesa, una pastorale d’emergenza. E così pure, per la Scuola, si è resa necessaria una didattica d’emergenza. Una pastorale virtuale e una didattica virtuale. Con una non banale differenza: la Chiesa si è prevalentemente affidata alla televisione (i riti officiati dal Papa; la preghiera promossa dalla Cei e dai media di ispirazione cristiana; altri momenti di preghiera diocesani, ma diffusi da Tv2000 o da altre emittenti); la scuola si è finora prevalentemente affidata al web (che ha possibilità interattive). Così la Chiesa ha raggiunto (quasi) tutti i suoi fedeli che avessero voluto partecipare; la scuola ha raggiunto un 80% dei suoi studenti. Sembra tanto l’80%. In realtà significa che un quinto, il 20%, presumibilmente il più emarginato socialmente e geograficamente, cioè quella 'periferia digitale' che non ha computer o non ha connessione, è rimasto escluso. E così la Repubblica, come ormai capita negli ultimi decenni di neoliberismo imperante (perfino in campo educativo e scolastico), non ha eliminato, ma rafforzato, gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando l’eguaglianza, impediscono un pieno e paritario sviluppo della persona umana. Il 16 aprile la ministra Azzolina ha annunciato un’alleanza potenziata Rai-Ministero e un palinsesto ad hoc. Si possono concedere le attenuanti della sorpresa e dell’urgenza: ma è strano che – pur citando molto Alberto Manzi – si sia fatto ricorso così in ritardo alla televisione, che arriva in pressoché tutte le case. È il caso di dire, comunque, ... non è mai troppo tardi!
In ogni caso, il 17 aprile, nella sua omelia nella Messa quotidiana a Santa Marta, papa Francesco ha ben chiarito che le modalità liturgiche a distanza, attraverso i mezzi di comunicazione sociale, sono un’emergenza legata «al momento difficile» e cioè una via «per uscire dal tunnel, non per rimanere così». E questo perché la Chiesa è «familiarità concreta». E, con uno dei suoi neologismi, Francesco ha concluso che non si può « viralizzare » la Chiesa. Una Chiesa tutta virtualizzata è una chiesa viralizzata: col- pita nel suo organismo. Ma – potremmo dire – lo stesso vale per la scuola: una scuola tutta virtualizzata è una scuola viralizzata: colpita nel suo organismo. Insomma, le modalità virtuali dell’emergenza hanno un carattere suppletivo e temporaneo, potranno anche rimanere poi in qualche forma particolare, subordinata e sussidiaria (come avviene nei corsi universitari): ma la scuola è comunità in presenza, è familiarità concreta, è didattica a km zero. I nsomma, se non vogliamo perdere il timbro umano e il fondamento umanistico di queste agenzie educative, non possiamo immaginare una permanente 'crisi della presenza' (che è sinonimo di lutto). Diverso, ovviamente, è il livello universitario, nel quale il web può servire per forme di humanitarian higher education, naturalmente con precise garanzie di qualità (e fatte salve le necessità laboratoriali o le specificità della formazione di educatori). Peraltro la pandemia ha rappresentato, in negativo, la rivincita brutale della corporeità naturale sul cyber-mondo artificiale e, in positivo, ci ha fatto apprezzare l’importanza e il dono del contatto umano diretto, del vissuto sociale concreto, a fronte della innaturale chiusura prolungata in residenzialità coatte che psicologicamente ci pesano come arresti domiciliari. Insomma è l’evidenza globale della necessità e superiorità dell’umanesimo plenario nella vita normale.
Per rimanere in ambito scolastico, bisogna rifuggire dagli opposti estremismi dei luddisti didattici e dei pasdaran fanatici della tecnologia: né digital-fobia né digital-mania. Ma non si possono confondere i mezzi con i fini, né la forma con i contenuti. Certo, sappiamo ormai tutti che – come ci ha insegnato, in anni lontani, il grande Marshall McLuhan – il medium è il messaggio. Ma appunto: la forma, il 'come' è sostanza. Io posso utilizzare la lavagna di ardesia o la LIM, ma quale sarà la 'forma' della mia azione didattica? I dispositivi che uso sono importanti e non sono tutti uguali (perché offrono possibilità diverse), ben vengano perciò dispositivi migliori. Ma, alla fine, resta il loro carattere strumentale. E la capacità del docente si misura soprattutto sulla sua preparazione e sulla qualità della sua didattica.
Vi è il diritto all’istruzione. Nessuno oggi lo nega. Ma vi sono – in una prospettiva umanistica universale – anche 'diritti pedagogici', che molti di fatto negano o perfino ignorano (analizzare il perché di questa ignoranza e dell’analfabetismo pedagogico, ancora tanto diffuso, ci porterebbe molto lontano). Non basta 'cosa' l’allievo impara, è importante 'come' lo impara. Se lo impara in una maniera mnemonica, astratta, passiva, come risultato di una fredda e apodittica trasmissione di nozioni, viene depauperato di un vissuto educativo importante che è un suo diritto: un diritto 'pedagogico'! E per rendere reale tale diritto, l’insegnante deve avere la possibilità di osservare direttamente l’allievo, di renderlo attivo nei processi di apprendimento, di motivarlo scoprendo e valorizzando le sue potenzialità o sostenendolo nelle sue difficoltà, di portarlo all’acquisizione di capacità cooperative e competenze sociali, di personalizzare l’offerta formativa, di suscitare e affinare il senso critico attraverso il dialogo. Se questi diritti pedagogici vengono riconosciuti, si usi pure tutta la strumentazione tecnologica utile a realizzarli. Certo la relazione umana, in presenza, non ne potrà mai uscire mortificata. I nfine, un ultimo punto importante. Si parla di riaprire le scuole cercando di garantire il 'distanziamento di sicurezza' tra gli alunni. Se si devono studiare accorgimenti (scaglionamenti, turnazioni, ecc.) è perché nei nostri edifici scolastici e nelle nostre aule viene spesso negato al singolo allievo il suo spazio didattico. È difficile, anzi impossibile, immaginare una didattica attiva in aule densamente o anche mediamente affollate. Questa è la frontiera qualitativa della scuola di domani: pochi alunni per classe. La necessità, in questo caso, potrà condurci a soluzioni migliori.

*Pedagogista, Università di Modena e Reggio Emilia






mercoledì 8 aprile 2020

LA PASQUA DI QUEST'ANNO ...

OLTRE OGNI PARADOSSO

di Massimo Naro *

Se dovessimo chiedere un suggerimento alla storia dell’arte per raffigurare la Pasqua di quest’anno, cosa ci risponderebbe?
Se dovessimo chiedere un suggerimento alla storia dell’arte per raffigurare la Pasqua di quest’anno, dovremmo guardare in direzione di Giotto, del Beato Angelico, di Tiziano e di tanti altri maestri, più o meno noti, italiani ma non solo, lontani nel tempo o più vicini a noi, tutti autori di affreschi e quadri che riscrivono in punta di pennello l’apparizione del Risorto a Maria di Magdala presso il sepolcro ormai svuotato, narrata dall’evangelista Giovanni. “Noli me tangere” s’intitolano solitamente questi capolavori: “Non mi toccare”, secondo il senso scelto da san Girolamo nel tradurre in latino l’originale greco.
Un esito paradossale della vicenda del Cristo, se si pensa che per le strade dell’antica Palestina, dentro le case affollate o sulla barca strapazzata dai flutti, egli s’era fatto toccare, afferrare e finanche strattonare dalla gente desiderosa di vederlo e d’ascoltarlo, ancor più di farsi curare e guarire da lui, come nel caso della donna affetta da emorragia. E lui stesso non aveva avuto paura di lasciarsi contagiare dai lebbrosi, disposto persino a sostituirli come bersaglio del pregiudizio negativo di chi li considerava impuri e peccatori. Nondimeno, proprio quando si mostra vittorioso contro la morte, si ritrae ed evita il pur minimo contatto.
La Pasqua che le superiori disposizioni prospettano, anche in sede liturgica, si lascia appunto “immortalare” da questo classico tema iconografico. Esso, difatti, rappresenta efficacemente le istanze del cosiddetto distanziamento sociale – paradossale nuovo sinonimo di coesione sociale – e ammicca suggestivamente a una fitta serie d’altri odierni paradossi: per esempio quello delle chiese chiuse per ottemperare alle misure profilattiche decretate dal governo, in giorni drammatici in cui per un verso l’osservanza dei doveri diventa eroismo e per altro verso al lavoro nero è riconosciuta la dignità dell’ammortizzatore sociale, mentre una pur esigua assemblea orante diventa assembramento da impedire e l’anelito a un’azione volta alla santificazione di chi ci crede deve cedere il passo all’urgenza della sanificazione.
Così la preghiera si traduce in flash mob e l’omelia in performance (spesso molto eccentrica, ma poco performativa). E i preti si ritrovano a rappresentare, a porte sbarrate, tutti gli altri battezzati come amministratori unici del memoriale dell’evento pasquale, proprio loro che, nelle nostre regioni settentrionali, stanno offrendo la loro vita anche negli ospedali, morendo a decine accanto agli altri ammalati, benché non vengano notati e neppure menzionati da chi scrive intere pagine di giornale dedicandole a “chi rischia di più ed è senza voce”, dai poliziotti alle baby sitter, dagli operatori sanitari a quelli ecologici, dalle commesse del supermercato ai rider, dai detenuti agli agenti penitenziari, dai farmacisti agli autisti del bus, da chi non ha internet a casa a chi fa ginnastica in casa.
Certamente, alcune di queste varianti del paradosso non hanno granché a che fare con il profilo prettamente spirituale della Pasqua. Maggiormente attinenti al significato autentico della Pasqua sono i paradossi che sembrano depotenziarla fino a renderla evanescente, togliendole ogni spazio concreto nel vissuto dei cristiani, privandola del luogo in cui essa s’è sempre celebrata, ossia la mensa eucaristica davanti alla quale si dovrebbe radunare il popolo credente.
Eppure, tutto ciò non deve indurci a presumere che quest’anno la Pasqua non possa veramente esserci. Il Dio biblico interviene, proprio tramite la Pasqua di Cristo, a santificare un tempo più che uno spazio: il sabato genesiaco, al culmine della sua fatica creatrice, e l’”ora” di cui il Maestro di Nazaret parla insistentemente nel vangelo secondo Giovanni. Verrà l’ora, anzi viene già, dice Gesù alla samaritana presso il pozzo di Giacobbe, in cui Dio si lascia incontrare non più in un tempio, o presso un qualsiasi altro luogo sacro, bensì “in spirito e verità”. Per questo a Maria di Magdala ripete che non può più toccarlo o trattenerlo: non per intimarle un divieto, come quelli a cui ci stiamo abituando, ma per ricordarle il senso di ciò che aveva prima tante volte insegnato.
Conviene accogliere, lucidi e consapevoli, l’ora che sopraggiunge: nello stesso vangelo di Giovanni, qualche riga dopo l’episodio in cui si legge dell’incontro tra Maria e Gesù, si legge ancora che a sera il Risorto va a far visita ai suoi discepoli, rinchiusi dentro il cenacolo di Gerusalemme, terrorizzati da ciò che era accaduto e preoccupati di subire la stessa sorte del loro Maestro, messo in croce sul Golgota. Tra di loro non c’è Tommaso, che quindi non ha l’occasione di vederlo. Dopo una settimana dal giorno della risurrezione, il Cristo torna a visitare i suoi amici, tra cui c’è stavolta pure Tommaso, dal quale Gesù si lascia di nuovo toccare sulle piaghe ancora aperte nelle sue mani e nel suo petto.

Caravaggio, in una straordinaria tela esposta nelle Gallerie d’arte di Potsdam, immagina la scena, facendo dell’intreccio tra la mano destra di Tommaso e la sinistra di Gesù un interrogativo per le nostre intelligenze e le nostre coscienze: dovremo essere noi a voler ancora toccare il Cristo, mentre lui vorrà proteggersi da questo nostro desiderio, oppure sarà lui stesso a guidare il nostro dito dentro il suo corpo dischiuso? E, ricordando il monito che papa Francesco insistentemente ribadisce, dobbiamo altresì chiederci se – dopo aver superato la paura della pandemia – saremo disposti a prendere una buona volta contatto con quelli che il pontefice addita come “la carne di Cristo”, i più piccoli e più deboli tra di noi, i più poveri e i più abbandonati. Dalla risposta che sapremo dare dipenderà la Pasqua della nostra intera esistenza, il passaggio a una nuova visione della vita.
Non sembri uno scivolone retorico. È semmai la sintesi della migliore tradizione cristiana: già in epoca patristica san Giovanni Crisostomo diceva che il povero è l’alter ego del Crocifisso. Nella seconda metà dell’Ottocento, a Palermo, il beato Giacomo Cusmano diceva ai suoi collaboratori che il povero è l’ottavo sacramento e come tale rende presente qui e ora il Cristo. Solo qualche anno fa Olivier Clément, in Francia, ripeteva che il povero è un sacramento del Risorto. Lì, in Francia, lo aveva preceduto, di qualche secolo, san Vincenzo de’ Paoli, che nella prima metà del Seicento aveva dichiarato che se un povero bussa alla porta della chiesa mentre dentro vi si sta pregando, ci si può alzare e dargli conto, sicuri che così si lascia Dio per Dio.

*don Massimo Naro, docente di Teologia sistematica nella Facoltà Teologica di Sicilia