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venerdì 11 agosto 2023

UNA CONOSCENZA APPROSSIMATIVA


IL VOLTO DI DIO



- di don Lorenzo Bacchetta

 


Quando cerchiamo di mettere le righe in ordine con Dio, i conti non tornano.

 Ci piacerebbe poter fare dei calcoli precisi, avere le parole esatte per dirlo, riuscire a definire correttamente e precisamente chi è Dio. Ci mettiamo a studiare, facciamo esegesi sempre più raffinate dei testi biblici, proviamo diversi metodi di preghiera, ma non riusciamo a produrre l’incontro con il Signore, non comprendiamo esattamente la sua parola, non possiamo dire con certezza una parola che lo definisca. Davvero Dio è inconoscibile? 

Dobbiamo arrenderci ad una trascendenza così assoluta da non lasciarsi dire? Eppure, Dio si è fatto uomo e ha incontrato su questa terra uomini e donne per le strade della Palestina.

Possiamo ritenere lo studio della Bibbia o la teologia uno sforzo inutile? Certamente no, semplicemente dobbiamo intenderle nel loro essere concretamente ancorate all’esperienza umana. 

Dio lo conosciamo per approssimazione, interpolando gli incontri che noi abbiamo avuto e quelli dei nostri fratelli e sorelle, avvicinandoci a lui nell’avvicinarci gli uni agli altri. Dio forse non si può dire, ma si può raccontare a partire dai luoghi e dai tempi dove ci ha incontrati. 

Il Vangelo non è forse un formidabile incrocio di racconti di incontri? 

Continuiamo a raccontarci questi appuntamenti non programmati, continuiamo a chiedere ai nostri fratelli e sorelle di narrarci il loro incontro. Da soli non possiamo dire Dio, ma la comunità di coloro che sono stati da lui incontrati può dire molto.

Il volto di Dio si compone nella narrazione della comunità, ma perché lo vediamo più da vicino è necessario che ci avviciniamo gli uni agli altri. 

È questione di approssimazione, di farci prossimi, di ascoltare nel battito del cuore di chi ci sta vicino, la vita che pulsa e lo Spirito che geme esprimendo la voce del Signore e tratteggiando il suo volto. 

Una conoscenza approssimativa.

 

 

 

 

venerdì 24 marzo 2023

L'UOMO E LA RETE

L’introduzione dell’intelligenza artificiale e del mondo digitale sembra avere un potere, per così dire, retroattivo sulla concezione di noi stessi e sulla nostra collocazione nel mondo

Le nuove tecnologie introducono di fatto un’era nuova in cui è sempre più rilevante ciò che non ha a che fare con la carne. Un dato che rischia di fare fallire ogni tentativo di umanizzare internet e allontana implicitamente dal Dio dei Vangeli

  - di ADRIANO PESSINA

Al di là di scenari, utopici o distopici, è nella pratica quotidiana della rete che si palesa, per così dire, la potenza teorica del platonismo. Infatti, come dimenticare che è proprio nell’infosfera che ci si può liberare dei limiti e delle ristrettezze del corpoprigione per sperimentare il fascino della pura relazione e il trionfo del mentale rispetto al corporeo? Non certo un’anima disincarnata, che ha attraversato il confine della morte, ma un uomo disincarnato che superato la soglia del luogo e del tempo per esprimere sé stesso nello spazio del digitale, in compagnia di una ipotetica intelligenza artificiale. In fondo, oggi, essere cultori della differenza ontologica dell’uomo, della sua eccedenza spirituale, richiede di essere, paradossalmente materialisti, perché l’unicum dell’individuo non sussiste senza carne. Ed è dentro la carne, infatti che generiamo ed è dentro un grembo carnale che prendiamo forma. Come non rileggere allora quanto scriveva Tommaso D’Aquino quando definiva la persona umana «questa carne, queste ossa, quest’anima» che sono ciò che costituiscono l’io, ognuno di noi.

 Non c’è esperienza umana senza carne: anche quella tecnologica, che pure proietta il nostro fantasma nell’etere, non può prescinderne, perché ne è la fonte impensata e in qualche modo dimenticata.

 Trascendenza e immanenza sono, di fatto, due termini che indicano il crinale che separa, unendoli, due differenti orizzonti che si spalancano nella duplice prospettiva della comprensione della realtà rispetto al suo significato ultimo. A prescindere dai dibattiti, non si può ignorare che la storia dell’Occidente, la sua temporalità, è costruita anch’essa su uno spartiacque, indicato da due ceppi che indicano un prima e un poi: due sigle latine, a.Ch.n e p.Ch.n, ne segnano i confini. Una sola storia, dunque, ma anche un limes, che indica il prima e il dopo la nascita di Cristo. Questa numerazione, a cui siamo assuefatti, pone una svolta nell’Incarnazione di Cristo, quel Verbum caro factum est che costituisce il senso dell’annuncio e dell’esperienza dei cristiani, ma che di fatto ha misurato, silenziosamente, tutta la storia dell’umanità, nel riconoscimento, nell’opposizione o nell’indifferenza. Il portato teorico dell’Incarnazione ha diversi aspetti su cui occorre brevemente soffermarsi, in chiave strettamente filosofica.

 Con la nascita di Cristo, che trova il suo senso ultimo nell’annuncio della sua morte e Resurrezione, si afferma non soltanto che il Dio della creazione entra personalmente nella storia umana, ma che in questo suo “farsi carne” si rende possibile la sua stessa rivelazione Trinitaria e la soluzione del significato enigmatico dell’espressione che vuole che l’essere umano sia creato a “immagine e somiglianza di Dio”. Enigma che prima di Cristo era reso evidente dall’impossibilità di dare un volto a Dio, Lo spartiacque teologico è anche uno spartiacque filosofico, per- ché segna, teoricamente, più che praticamente, la fine di quell’impero platonico che diffidava della carne, considerata prigione di un’anima spirituale che ambiva a ben altra collocazione. E da lì, di seguito, a cascata, cambia per sempre la considerazione dell’essere umano, non più solo creatura ma egli stesso “figlio” del Dio che ora poteva essere chiamato Padre. E la carne malata cessava di essere maledizione e colpa, per diventare luogo dell’amore, della cura, della partecipazione della presenza di Dio. E persino l’altrove della vita, che Platone sognava come luogo dell’anima, si apre alla resurrezione dei corpi.

 Questa digressione teologica, che potrebbe essere ancor più dilatata, non può certo trascurare l’interpretazione opposta, che ha visto, nell’Incarnazione, l’annuncio della nuova consapevolezza dell’uomo di essere Dio a sé stesso e al mondo. L’incarnazione diventa, poi, per alcuni filosofi, la cifra dell’alienazione dell’uomo che consegna ad altro da sé e dal mondo ciò che invece gli appartiene: la signoria su tutta la realtà e la possibilità di un dominio emancipato da Dio, dalla natura e dallo stesso peso della storia toglie ogni forza ermeneutica a tutte le dottrine dell’altrove. Non si può, del resto, dimenticare la progressiva ondata di indifferenza metafisica che coltiva l’autosufficienza umana e la sua autonomia, segnata dalla banalizzazione del tragico annuncio nietzchiano della “morte di Dio”.

 Se la storia dell’Occidente può esgioia sere letta lungo questi crinali, l’affermazione della Presenza della Trascendenza nella storia, che è tesi propria dell’Incarnazione, si offre, però, come riconciliazione tra l’altrove e il qui e ora, cambiando radicalmente la prospettiva: il senso ultimo dell’esistere e dell’essere non è altrove e il qui e ora non è solo la prigione storica dell’umano.

 Che cosa ha mai a che fare questa digressione teologico-metafisico col digitale? Perché l’epoca contemporanea introduce, di fatto, senza grande clamore e senza alcuna pretesa filosofica, un’era nuova, quella che potremmo definire l’epoca della disincarnazione dell’umano. Se infatti portiamo a sintesi quanto abbiamo finora cercato di delineare con la categoria dell’altrove, ci troviamo di fronte a una situazione nuova, in cui sempre più diventa rilevante ciò che non ha a che fare con la carne, cioè con la condizione corporea, fisica, dell’uomo, a riprova che per essere materialisti non è necessario riferirsi al primato del corpo. Infatti, per privare di significato lo spirito è sufficiente trasformare l’uomo in una macchina informazionale che, alla stregua di tutto ciò che appartiene alla categoria della materia, si connette e si relaziona senza implicare lo scoglio della sostanza individuale e della soggettività personale. Un essere umano ridotto a relazione non diventa un Dio, non è più nemmeno carne o corpo, ma pura connessione che si immagina di guadagnare il noi eliminando l’io, che nella tradizione teologica costituisce di volta in volta l’interlocutore del Creatore e l’amico del Fratello che rivela il Padre.

 Creare un uomo nuovo è un’impresa non facile, ma è una tentazione propria di chiunque coltivi il mito del self made man e che oggi salda i progetti trans e post-umanistici con le ricerche sempre più avanzate nei campi della biologia, delle nanotecnologie e nella stessa progettazione informatica e robotica. Un uomo nuovo capace di creare qualcosa che gli somigli, come un robot che lo affianchi nei compiti dell’esistenza e lo sostituisca in tutte le funzioni in cui l’io si senta esposto nella sua carnalità.

 L’epoca della disincarnazione è un’epoca nuova, in cui diventa sempre più difficile la semantica del dolore, della sofferenza, della e della solitudine creativa: difficile, ma sempre presente, perché l’esistenza non si annulla nelle sue rappresentazioni. L’epoca della disincarnazione rende fluide le comprensioni identitarie. Se l’Incarnazione si inscrive nella logica della speranza e della salvezza, quella della disincarnazione si presenta con le vesti dell’efficienza e della soluzione.

 La pretesa di umanizzare la rete, di trasformarla in un nuovo strumento di evangelizzazione, di riempirla di significati etici e religiosi, di trasformarla in veicolo di miglioramento dei rapporti umani, sembra non considerare che l’altrove tecnologico resta e resterà un prodotto dell’uomo, disincarnato. La nostra epoca coltiva e sviluppa l’indifferenza nei confronti delle originarie e radicali questioni filosofiche e teologiche non perché sia disincantata, ma perché è disincarnata e quindi sempre più incapace di cogliere il senso del nascere e del morire, segni di quella contingenza che pone la questione della radicale contraddizione tra la fine e i fini che l’essere umano pone.

 L’introduzione, nella storia umana, della figura pratica e teorica della disincarnazione conferma il potere, per così dire, retroattivo che le nuove tecnologie hanno non solo sulla vita dell’uomo, ma anche sulla sua autorappresentazione. Questa digressione, ovviamente, non legittima alcuna condanna della tecnologia, che ormai non si configura più nei termini della sfida, perché la sua familiarizzazione l’ha integrata nei vissuti e nelle abitudini della vita quotidiana, ma impone un ridimensionamento delle sue promesse e delle sue funzioni. Cercare nella rete ciò che non possiamo trovare nella realtà e viceversa, modulare la realtà in funzione della rete e delle nuove tecnologie, comporta decisamente una perdita di realismo. Ma anche una perdita di carne e di incanto, e forse di umanità.

 www.avvenire.it

 

 

lunedì 7 marzo 2022

RIPENSARE IL SENSO COMUNE


 «Ritrovare la sintonia 
con i ritmi del vivente»

 

Parla il filosofo franco-argentino Miguel Benasayag. Nel suo ultimo libro ha messo al centro l’esigenza di un ritorno dell’uomo dall’esilio dalla natura prodotto dalla ratio cartesiana. «Va attivata un’estetica dei cicli della vita, i quali custodiscono fragilità e il negativo, attraverso esperienze concrete»

 

-         di SIMONE PALIAGA

-          

«Assumere la nostra appartenenza al vivente e al campo biologico implica il fatto di riconoscere che ciascuno dei nostri atti si inscrive in una complessità che non possiamo dominare né orientare a nostro piacimento», ammonisce il filosofo e psicoanalista, oggi parigino ma originario dell’Argentina, Miguel Benasayag nel libro, scritto a quattro mani con il giornalista e storico Bastien Cany, Il ritorno dall’esilio. Ripensare il senso comune, appena pubblicato da Vita e Pensiero (pagine 136, euro 16,00).

A quale esilio allude il titolo del suo libro, professore?

Si tratta naturalmente di un esilio immaginario, con conseguenze reali però. Quando parlo di esilio intendo l’esilio promosso da Cartesio, vale a dire l’esilio dell’uomo dalla natura di cui, peraltro, si considera padrone e possessore. Occorre precisare però, a differenza di quanto auspicato dal progetto moderno, che l’uomo in realtà non si è mai separato da essa, ma il suo esilio immaginario ha avuto conseguenze su di lui. Questo modo cartesiano di abitare il mondo ha trovato al giorno d’oggi la sua acme. Mai come ora il massimo di produzione genera il massimo di distruzione. Si tratta di una situazione non più sostenibile. Per questo quasi tutti oramai sostengono che l’uomo appartiene alla natura. Il sentirsi parte di essa è una sfida che non deve ridursi al solo rispetto ma bisogna imparare a coabitarla. Non è un caso che i giuristi oggigiorno riconoscano gli animali, i fiumi, le foreste come soggetti di diritto. Accade perché l’uomo non può più pensarsi da solo e isolato.

Accanto però all’esilio di cui parla oggi emerge quello che nasce dall’uso eccessivo di piattaforme e social network...

In effetti l’esilio è la rottura del legame, che è ciò che ci costituisce. L’essere umano. separandosi dalla natura e dagli altri per l’uso di app, smartphone, social network, ha perduto anche se stesso. Non sono tecnofobo e penso che la rete sia comoda ma la comodità, per il vivente, rischia di tradursi in una trappola. In Africa, per allontanare le formiche dalle proprie abitazioni, si cospargono di zucchero le vicinanze del formicaio. Le formiche però, dopo i primi momenti, anziché rimanere dove c’è abbondanza di zucchero si avventurano più lontano per cercarne altro. Non si accontentano dei comfort. Sanno che è pericoloso per il vivente abbandonarsi alla comodità perché impedisce l’esplorazione del possibile. E quello che avviene sul web, quando si naviga alla ricerca di informazioni, non è esplorazione perché non c’è esperienza.

Perché oggi l’uomo incontra così tanta difficoltà a pensare un futuro e dei possibili praticabili?

All’acronimo Tina, there is not alternative, non dobbiamo rispondere proponendo un’alternativa animata da un progetto politico come in passato è stato il comunismo.

Può spiegare questa idea?

Dobbiamo riflettere sul futuro che, in passato era considerato una promessa oggi invece è una minaccia. È importante che il futuro si pensi come una possibilità del presente e liberarlo dal giogo dell’istantaneità. Va pensato insieme al possibile e non considerarlo solo come uno sviluppo lineare del presente. Solo così è possibile riconoscere che la vita è la trascendenza dentro l’immanenza, o, per dirla diversamente, vivere significa riconoscere l’irreversibile dentro l’effimero e cercare qualcosa oltre l’effimero.

Sembra il sogno dei transumanisti...

Tutt’altro. Occorre rifiutare la trascendenza che la macchina ci offre e che i transumanisti rilanciano agitando davanti gli occhi il miraggio dei cyborg. Dobbiamo ritrovare la familiarità con il fragile e l’effimero e non espellere il negativo dalla vita come la modernità ha tentato di fare. Occorre attivare un’estetica per desiderare i cicli della vita, che custodiscono anche fragilità e il negativo, attraverso esperienze concrete, locali e situate. Le semplici esperienze morali non bastano.

E i riti di cui parla aiutano in questo?

I riti corrispondono ai ritmi del vivente e ai ritmi tellurici. La rapidità delle macchine ha schiacciato il vivente intaccando i suoi ritmi. Ne siamo così condizionati al punto che per noi è impossibile seguire la cerimonia del tè come avviene in Giappone. Spendere due ore per bere l’infuso per gli occidentali è troppo. Come la macchina abbia attaccato i ritmi del vivente lo si riscontra in ambito psichiatrico, dove molti pazienti sono affetti da patologie dovute al fatto che loro funzionano troppo bene ma a scapito dell’esistere.

Reputa che il senso comune sia una via d’uscita da questa situazione?

Per senso comune intendo tutti i saper fare che sono in sintonia con i ritmi del vivente. Sono i saper fare che non possono essere sistematizzati e razionalizzati e nascono dalle esperienze e non dagli esperimenti. Il problema è che l’Occidente ha contrapposto, a differenza di altre civiltà, il senso comune alla razionalità. E in Occidente, alla fine, questa ha soffocato l’esperienza staccandosi dalla realtà. Non dico che si debba tornare al passato ma come Goethe, quando parla del passaggio dall’alchimia alla chimica, credo che sia importante accogliere i contributi della chimica senza però dimenticare gli apporti dell’alchimia. Da qui il nostro compito di riattivare il senso comune come esperienza.

Come farlo?

Intanto occorre promuovere degli atelier sociali locali e situati che aiutino a ricreare un rapporto di legame con la natura e con l’esperienza rompendo così con l’esilio di cui si parlava all’inizio. Un ruolo importante poi lo può giocare la scuola purché resista alla pedagogia delle competenze oggi tanto di moda perché non sono altro che un sapere utile all’industria e al commercio.

E cosa deve fare?

La scuola deve coltivare il tempo dell’inutile e il gusto dell’esplorazione. I bambini non possono conoscere le piante esplorando il web, ma devono farne esperienza in giardino. Per riattivare il senso comune la scuola deve resistere all’idea che gli uomini siano sempre in difetto di qualcosa, sempre in una condizione di mancanza. Non si tratta di modificare se stessi ma di insegnare ai bimbi a esplorare il proprio possibile. A scuola occorre imparare a esistere e non a funzionare, consapevoli che le competenze possono essere sviluppate solo se un bambino è prima strutturato. L’educazione vale se è in grado di renderlo capace di abitare la propria vita, convincendolo che non deve cercare di essere qualcuno perché è già qualcuno.

 

www.avvenire.it 

 

mercoledì 24 novembre 2021

MONDO LIQUIDO E UMANESIMO


 Francesco: nel mondo liquido di oggi 

c'è bisogno di un nuovo umanesimo

In un videomessaggio alla plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura, il Papa indica la necessità di ritrovare “il senso e il valore dell’umano in relazione alle sfide che si devono affrontare”. Nella Bibbia, "le coordinate essenziali" per delineare un’antropologia che dia valore ai rapporti

-         Francesca Sabatinelli – Città del Vaticano

-          

Di fronte alla rivoluzione che investe “i nodi essenziali dell’esistenza umana”, occorre compiere uno “sforzo creativo” e “ripensare alla presenza dell’essere umano nel mondo”. Nel videomessaggio alla plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura, dedicata all’umanesimo necessario, il Papa indica la necessità di rispondere ai tanti interrogativi posti dalla pandemia, primi fra tutti quelli “fondamentali dell’esistenza: la domanda su Dio e sull’essere umano”:

In effetti, in questo frangente della storia, abbiamo bisogno non solo di nuovi programmi economici o di nuove ricette contro il virus, ma soprattutto di una nuova prospettiva umanistica, basata sulla Rivelazione biblica, arricchita dall’eredità della tradizione classica, come pure dalle riflessioni sulla persona umana presenti nelle diverse culture.

La fine di ideologie e umanesimo profano

Francesco cita Paolo VI. Era la fine del 1965 e del Concilio Vaticano II, Papa Montini, invitava l’umanità, che con il suo umanesimo laico profano sfidava la visione cristiana e restava chiusa alla trascendenza, “a riconoscere il nostro nuovo umanesimo”. Da allora, sono passati circa 60 anni, di quell’umanesimo laico profano è rimasto il ricordo:

Nella nostra epoca segnata dalla fine delle ideologie, esso sembra ormai dimenticato, sembra sepolto davanti ai nuovi cambiamenti portati dalla rivoluzione informatica e dagli incredibili sviluppi nell’ambito delle scienze, che ci costringono a ripensare ancora che cosa sia l’essere umano. La domanda sull’umanesimo nasce da questa domanda: cos’è l’uomo, l’essere umano?

Le indicazioni della Gaudium et spes

In questo momento, che Francesco definisce “della liquidità o del gassoso” e animato dalla “fluidità della visione culturale contemporanea”, il riferimento resta la costituzione conciliare ‘Gaudium et spes’, che indica quanto ancora la Chiesa abbia da dare al mondo e che “impone di riconoscere e valutare, con fiducia e coraggio, le conquiste intellettuali, spirituali e materiali emerse da allora in vari settori del conoscere umano”:

Oggi, è in atto una rivoluzione – sì, una rivoluzione - che sta toccando i nodi essenziali dell’esistenza umana e richiede uno sforzo creativo di pensiero e di azione. Ambedue. Stanno mutando strutturalmente le modalità di intendere il generare, il nascere e il morire. È messa in discussione la specificità dell’essere umano nell’insieme del creato, la sua unicità nei confronti degli altri animali, e persino la sua relazione con le macchine.

L’uomo servitore della vita

Senza cedere alla critica e alla negazione, indica ancora Francesco, è il momento di pensare “alla presenza dell’essere umano nel mondo alla luce della tradizione umanistica: come servitore della vita e non suo padrone, come costruttore del bene comune con i valori di solidarietà e di compassione”. Ecco che accanto alla domanda su Dio, oggi ve ne è un’altra, che riguarda l’essere umano e la sua identità:

La Sacra Scrittura ci offre le coordinate essenziali per delineare un’antropologia dell’essere umano nella sua relazione con Dio, nella complessità dei rapporti tra uomo e donna, e nel nesso con il tempo e lo spazio in cui vive.

La fusione “tra la sapienza antica e quella biblica rimane un paradigma ancora fecondo”. Tuttavia, l’umanesimo biblico e classico, oggi, deve aprirsi a ciò che altre culture e altre tradizioni umanistiche possono dare. Tutto questo, conclude Papa, diviene “il miglior strumento per far fronte alle inquietanti domande sul futuro dell’umanità”, poiché il mondo, oggi più che mai, “ha bisogno di ritrovare il senso e il valore dell’umano in relazione alle sfide che si devono affrontare”.

 

Vatican News 

 

MESSAGGIO PONTIFICIO

 

giovedì 14 ottobre 2021

DIO, UN'IPOTESI?


MA DIO NON È UN'IPOTESI (È AMORE NELLA STORIA)

  Ragionando sulle ragioni di Parisi e su un riacceso dibattito pubblico


-         Di GIUSEPPE LORIZIO *

-          

La notizia del conferimento del premio Nobel per la fisica all’italiano Giorgio Parisi ci ha riempiti di orgoglio 'nazionale' (speriamo non 'nazionalistico'), anche perché questo grande scienziato ha compiuto la scelta, certamente scomoda, di restare nel nostro Paese, e ha fatto sgorgare fiumi di inchiostro sulle pagine dei giornali. C’è stato anche chi, dando voce alla sensibilità credente, ha inteso esprimere il proprio 'sconforto', avendo incrociato un’espressione pronunciata dal fisico in una intervista al quotidiano 'La Repubblica' del 31 dicembre 2010, rilasciata in occasione dell’assegnazione della medaglia Planck per la matematica, tanto più che il personaggio non appare affatto come un 'uomo a una sola dimensione', bensì si sottolinea che ama la storia e la musica, la letteratura e la fantascienza e, nei giorni scorsi, si è anche evidenziata la sua passione per la danza. In quella intervista alla domanda, rivoltagli dal giornalista Antonio Gnoli: «Lei crede in Dio?», il fisico rispose seccamente «Dio per me non è neanche un’ipotesi». Da qui lo 'sconforto'. Come può, infatti, una persona colta, inserita profondamente nella cultura occidentale, pensare così bruscamente di poter eludere la questione di Dio?

Ma si è trattato di uno sconforto fecondo, innanzitutto perché ha offerto occasione al neo-Nobel di chiarire il suo pensiero, in una lettera al direttore Tarquinio, dalla quale apprendiamo che l’elusione del ricorso a Dio concerne l’ambito della fisica e, diremmo in generale, delle scienze empiriche, che se adottassero tale ricorso dovrebbero coerentemente bloccarsi nella loro ricerca. Si tratta del versante epistemico della laicità, che pure trova le sue radici nel Vangelo del «Restituite a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» (Mc 12, 17),

che tradotto significa 'date alla scienza (fisica in questo caso) ciò che le appartiene e alla fede ciò che le è proprio'. La questione di Dio non appartiene alla fisica, ma alla metafisica, con tutto quanto ciò può ancora significare e nonostante il discredito, di cui gode (si fa per dire) anche fra i teologi. Sicché quando cerchiamo di individuare tracce dell’Infinito nel cosmo, pur interpellando le scienze, non pensiamo da fisici o da scienziati tout court, ma applichiamo la filosofia (metafisica appunto) alle altre forme dell’umana conoscenza.

Lo 'sconforto' risulta altresì fecondo in quanto, come si nota nelle lettere al direttore di 'Avvenire', ha avviato un dibattito-confronto sulla questione decisiva della nostra esistenza: Dio. Infatti, se non parliamo di Lui, di cosa parliamo? «Bla, bla, bla…», direbbe Greta Thunberg. E la speranza è che il dibattito diventi dialogo fra credenti, non credenti o diversamente credenti, ma comunque esistenze pensanti. Ponendoci al livello della fisica, anche teorica, infatti, all’epoca del determinismo, oltre la posizione tranchant del marchese di Laplace, cui si ispira la frase attribuita a Parisi, c’è stata fior di filosofia credente che ha fatto ricorso al principio di causalità efficiente, in senso appunto deterministico, per formulare prove dell’esistenza di Dio, così come, al tempo dell’«indeterminazione» ( Werner Karl Heisenberg), dei teoremi dell’«incompiutezza » (Kurt Gödel) e del «disordine» (Parisi in fisica e Marcello Buiatti in biologia) nei flussi dei sistemi complessi, si è cercato e si cerca da parte di qualche teologo o filosofo credente di rilevarne l’affinità con il mistero cristiano, individuando in queste acquisizioni della meccanica quantistica elementi per la riflessione su Dio. L’orizzonte della laicità impone estrema cautela nell’adozione di inferenze, che preludano a posizioni fondamentaliste. Il che non ci impedisce di stupirci di fronte alle acquisizioni delle scienze e di riflettere sulle 'tracce' considerandole per quelle che appunto sono e non sbandierandole come 'prove'. In realtà, sono sempre ancora benevolmente perplesso di fronte al pudore di Gödel rispetto alla sua «prova matematica dell’esistenza di Dio», testo che non ha voluto pubblicare, pur ritenendolo soddisfacente (lo abbiamo in italiano edito da Bollati Boringhieri, Torino 2006). In ogni caso, e per usare il linguaggio comune alle discipline scientifiche, Dio non è né un’ipotesi, e neppure una teoria. Nel momento in cui ha fatto irruzione nella storia, il Dio della rivelazione biblica si presenta come una realtà. E la sua res è quella dell’Amore incondizionato, che chiede di essere corrisposto e accolto («con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza» Mc 12,30), oppure rifiutato col gesto della restituzione del biglietto d’ingresso, che il genio di Fëdor Michajlovi? Dostoevskij attribuisce a Ivan Karamazov. Insomma « Il faut parier! » (bisogna scommettere) parola di Blaise Pascal (scienziato anche lui, oltre che filosofo). E questo perché si tratta dell’amore, nel quale non è coinvolta solo la conoscenza e la ragione, ma anche l’affettività e la libertà dell’uomo.

Certo il nostro lavoro teologico è quello di mostrare la ragionevolezza della scommessa ed esplicitare le ragioni del credere, ma nella consapevolezza che tale dimensione non esaurisce tutto lo spettro dell’adesione. La stessa scelta di 'ignorare' l’a(A)more traccia un confine e sarebbe interessante scorgerne le motivazioni, anche se un indizio l’ho rinvenuto proprio nell’intervista di Parisi sopra citata: «In un lontano incontro, Cabibbo [Nicola, il maestro credente del Nostro] disse che la fede è comunque un bel vantaggio. Non dubito, se uno crede. Ma uno non è che può credere per vivere meglio». Infatti, il rischio per chi crede e di essere posto dinanzi alla necessità di scomodare le proprie certezze per accogliere l’Amore crocifisso.

 

·        * professore ordinario di Teologia fondamentale nella Facoltà di Teologia della Pontificia Università Lateranense

 

www.avvenire.it

 

 

giovedì 11 febbraio 2021

IL CRISTIANO CITTADINO DEL MONDO


 Il cristiano è anche 

un cittadino del mondo

Vincent Dollmann*


Attingo volentieri al Vangelo di San Marco, il Vangelo dell'anno liturgico in corso. Nell'introduzione, San Marco evidenzia l'identità di Gesù come "Figlio di Dio" (Mc 1,1), e continua con il racconto del battesimo di Gesù. Questo annuncia il nostro battesimo e indica il suo significato profondo: attraverso il battesimo diventiamo "cristiani", figli nel Figlio, figli di Dio. Ciò che ogni uomo è per il suo legame con Dio Creatore, il battezzato lo riceve in modo concreto e definitivo. È a partire da questa identità che ogni battezzato deve poter vivere e testimoniare in tutti i settori della sua vita.

Questa identità porta a un orientamento di vita che può creare tensioni con altre opzioni religiose o filosofiche. Dall'inizio del suo ministero pubblico, il suo messaggio è contestato. La lettera a Diogneto, del 2° secolo, evoca così la condizione del cristiano nella società: "Tutte le terre straniere sono per loro una patria, e ogni patria è una terra straniera per loro. Si sposano come tutti, hanno figli, ma non abbandonano i loro neonati. Si siedono a un tavolo comune, ma non è un tavolo ordinario. Essi sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Passano la loro vita sula terra, ma sono cittadini del cielo" (nn. 5-6).

La grande sfida che i cristiani devono affrontare oggi è quella antropologica, la visione dell'uomo e il rispetto della vita umana. Si deve prendere la misura della distanza che sta crescendo tra l'approccio cristiano e l'approccio secolarizzato massicciamente difeso dall'élite intellettuale e politica del mondo occidentale. Allo stesso tempo, al di là dei dibattiti teorici, I cristiani possono rendere conto della fecondità del vangelo della vita e della fraternità attraverso il loro impegno a tutti i livelli della società. La lettera a Diogneto esorta i cristiani dicendo: "La posizione che Dio ha stabilito per loro è così bella che non possono disertarla" (n. 6).

1.Prendere la misura della visione antropologica del messaggio cristiano che è oggetto di dibattito nella società postmoderna

Il messaggio del Vangelo è di solito ricevuto con benevolenza in Europa quando riguarda il campo del servizio agli altri, specialmente alle persone vulnerabili e povere. Ma il Vangelo oggi ci sfida a rispettare ogni persona umana e in ogni fase della sua vita, dalla sua la sua concezione fino all'orlo della morte. C'è un vero e proprio dibattito antropologico che mette la Chiesa in contrasto con l'approccio postmoderno.

Il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace ha pubblicato nel 2005 un manuale della dottrina della Chiesa, il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa. Questo dà i punti di riferimento antropologici della persona umana alla luce della rivelazione biblica e l'insegnamento della Chiesa (cf. p. 70 ss.).

 Evidenzio almeno quattro punti:

-L'unità della persona: la persona non ha un'anima e un corpo in contrasto tra loro; la persona è corpo e anima.

-L'apertura alla trascendenza e all'unicità della persona: la trascendenza si riferisce al fatto che la persona è in grado di aprirsi agli altri e a Dio, e l'unicità si riferisce al fatto che ogni persona è unica e insostituibile.

-La libertà della persona: è legata alla nostra condizione di creature, ma anche di figli di Dio. Ciò  costituisce la sua grandezza.

-La socialità umana: "Dio non ha creato l'uomo come essere solitario, ma come essere sociale. La vita sociale non è quindi esterna all'uomo; egli può crescere e realizzare la sua vocazione solo in relazione agli altri". (Congregazione per la Dottrina della Fede, Instr. Libertatis conscientia, 32, 1987).

2. Imparare a rendere conto della fecondità di questa antropologia per mezzo di un impegno concreto.

La partecipazione dei cristiani nella società ha dato e continua a dare frutti, sviluppando una cultura del bene comune, del rispetto della persona umana, così come la giustizia sociale guidata dalla carità.

(a) Il senso del bene comune

Il bene comune è percepito soprattutto a livello materiale. Mette in discussione il nostro rispetto per l'ambiente di vita e per la creazione. Richiama l'educazione alle virtù umane per dirigere tutte le nostre  azioni verso il bene.

Il bene comune riguarda anche la realtà spirituale umana, cioè il rispetto per le persone e l'impegno per la pace, che si riflette nell'attenzione per la fraternità universale come nel recente magistero di Papa Francesco.

b) Il significato della persona

Nel Vangelo di Luca, quando Gesù insegna che l'amore di Dio e del prossimo sono i due comandamenti che riassumono tutta la Legge, uno scriba gli chiede: "Chi è il mio prossimo? " (Lc 10,29). Gesù risponde con la parabola del buon samaritano trasformando la domanda "Di chi mi sono fatto prossimo? " (Lc 10,29-37). A una richiesta per definire i criteri di colui che può essere considerato il prossimo, Gesù risponde con un appello a diventare il vicino di casa dell'altro e di tutti gli altri. Egli ci invita a risvegliare il nostro impegno per una civiltà della vita in cui tutti, giovani e vecchi, siano adulti, malati e sani, bambini non ancora nati e persone alla fine della vita, siano rispettati come persone e come membri della comunità umana.

c) Il significato della carità, della carità legata alla giustizia

Radicati nell'amore che viene da Dio, i cristiani cercano di lavorare per un mondo più giusto. Conosciamo la posizione marxista che oppone giustizia e carità, considerando che quest'ultima non va alla radice dell'ingiustizia e povertà, ma piuttosto mantiene situazioni di sfruttamento e di disuguaglianza.

Per i cristiani, è la carità che perfeziona la giustizia, che la rende più perfetta, che la rende più rispettosa delle persone e che la mantiene nel suo scopo, cioè: "Dare a Dio e al prossimo ciò che è loro dovuto", come insegna il Catechismo.

Un'obiezione meno radicale, ma più significativa, viene oggi dal materialismo il quale crede che le strutture sociali e legali renderebbero difficile non c'è bisogno di carità. Nella sua enciclica Dio è amore, il Papa Benedetto XVI ha risposto facendo riferimento all'esperienza umana: "L’amore-carità sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c'è situazione che possa rendere superfluo il servizio dell'amore. Ci saranno sempre stati di sofferenza, che gridano consolazione e aiuto. Ci sarà sempre solitudine" (n.28).

La missione di diaconia che Cristo ha affidato alla sua Chiesa articola la giustizia e carità. Alla luce della parabola del Buon Samaritano, il servizio del prossimo deve essere in grado di rispondere ai bisogni immediati senza l'accettazione delle persone e senza strumentalizzare il link di aiuto. Integra concretamente i marcatori di immediatezza, di universalità e gratuità.

Il cristiano è un cittadino del cielo

La Lettera a Diogneto caratterizza la situazione dei cristiani in questo modo: "Essi spendono la loro vita sulla terra, ma sono cittadini del cielo" (n.6). Il cristiano ha ricevuto questa cittadinanza attraverso il battesimo, ma è incaricato di rivelarlo ad ogni uomo. Essa li preserva da due eccessi: la fuga dal mondo o la sudditanza al mondo. La cittadinanza permette, al contrario, di impegnarci al servizio del rispetto della persona e della giustizia con vera libertà e audacia.

La cittadinanza del cielo fa nascere una dinamica di speranza. L'Apocalisse descrive la realtà paradisiaca alla fine della Storia non come una un giardino, ma come una città. Si parla della Nuova Gerusalemme. Dio sta preparando  per l'umanità una città che è il paradiso delle origini, trasfigurata con il contributo della vita di carità e di fede degli uomini. Nel dono della vita eterna, abbiamo la nostra parte di responsabilità e di impegno. Dio purifica e trasfigura ciò che abbiamo cercato di costruire su questa terra nello Spirito della carità di Cristo.

 

*Vincent Dollmann

Arcivescovo di Cambrai

A.E. UMEC-WUCT

 

venerdì 25 dicembre 2020

NATALE. CINQUE PAROLE PER FAR FESTA

Giorni in cui nascere di nuovo e vivere un autentico Natale

 -         di ERNESTO OLIVERO

       

Stiamo vivendo tutti un momento molto complicato. Ci sentiamo più fragili, più vulnerabili. Siamo in un tempo sospeso, ma guai se lo considerassimo tempo perso. In queste ultime settimane mi è capitato di pensare ad altri momenti difficili che abbiamo attraversato. La mente è tornata agli anni 70, alla paura vera che provocava il terrorismo. In una città come Torino ogni giorno qualcuno veniva colpito. Quanto dolore, quante famiglie spezzate, quanto sangue! Vivevamo un senso profondo di incertezza, ci chiedevamo quando tutto sarebbe finito. In quegli anni complicati sentii che non potevamo permetterci di rinunciare alla speranza. Ci inventammo così degli incontri pubblici, di solito nelle piazze, chiedendo alla gente di venire, di rompere il cerchio della paura, di gridare con il loro silenzio, di pregare con noi. Li chiamammo 'Pomeriggi di speranza' e non era una proposta consolatoria. Io vedevo il terrorismo già finito, sentivo che dovevamo raccogliere le energie migliori per ricostruire il dopo, per rimarginare certe ferite. La profezia di un arsenale di guerra trasformato in Arsenale della Pace in fondo è stata uno dei frutti di quella stagione.

Oggi siamo in una situazione diversa, è sbagliato fare confronti. Eppure, come allora, sento che dobbiamo cominciare a pensare al mondo che verrà. Nessuno si senta escluso! Ognuno faccia ricorso ai propri ideali, alla propria creatività, alle migliori risorse interiori e si chieda concretamente che cosa è disposto a fare. Riscoprire per esempio la nostra responsabilità pubblica, rilanciare il nostro impegno per il bene comune. A livello mondiale, riflettere di più sulle persone a cui affidiamo responsabilità, sulle scelte in tema di ecologia, di immigrazione, di sviluppo, di pace. Avere il coraggio di rilanciare la lotta contro le ingiustizie, contro la fame, contro le disuguaglianze. Chiedere un intervento serio in tema di cambiamenti climatici. Il mondo ci appartiene, è la nostra casa non ne abbiamo un’altra. Il cortocircuito del Covid può essere una lezione che bussa alla nostra porta, per ritrovare l’essenza del nostro vivere.

Credo che in questo tempo più che mai abbiamo bisogno di riscoprire e vivere cinque parole che, se accolte, possono cambiarci, maturaci, renderci migliori: trasparenza, gratuità, disponibilità, passione, fraternità.

Trasparenza: in ogni ambito della nostra vita personale e comunitaria, che significa onestà, mai più ruberie, autenticità, integrità della nostra persona...

Gratuità: uno spazio, un tempo e qualcosa di noi stessi da condividere, perché tutto abbiamo ricevuto da Dio e tutto può essere diviso.

Disponibilità: perché la gente ha bisogno di trovare un porto sicuro, persone pronte all’ascolto, a non guardare l’orologio, a farsi interpellare da 'imprevisti' che possono diventare appuntamenti con noi stessi, con la storia, con Dio.

Passione: la scintilla che non ci farà essere tiepidi e indifferenti, ma pronti a metterci in gioco veramente, pagando di persona se necessario, con un fuoco sempre acceso dentro, alimentato da grandi ideali.

Fraternità: il modello di vita dei primi cristiani, un esempio attualissimo in un tempo in cui ci siamo riscoperti tutti interconnessi. Un mondo fraterno dipende solo da noi.

Se cominceremo a vivere tutto questo, camminando scopriremo sempre di più anche la presenza di Dio: la sintesi di una vita intera. Il Natale ce la mostra con una sfumatura particolare. Dio è con noi, ma sceglie di nascere in povertà, è indifeso, fragile, manca di tutto, ha bisogno di noi. Noi possiamo amarlo e prenderci cura di Lui, desiderando con tutte le forze di cambiare vita, ora, subito per mostrare che è possibile volersi bene, è possibile perdonarsi, è possibile trovare il buono e il bello nell’altro che irrompe nella mia esistenza, perché ogni cosa che accade è una ricchezza possibile. Se fossimo saggi, faremmo a gara per nascere di nuovo e finalmente vivere il nostro autentico Natale.

 

www.avvenire.it

 

 

sabato 10 ottobre 2020

LA NOVITA' DI "FRATELLI TUTTI"

Probabilmente la novità dell’ultima enciclica di papa Francesco, Fratelli tutti, va cercata più nella sua forma che nei contenuti. Non perché questi ultimi siano irrilevanti , o almeno scontati, come qualche critico ha sostenuto, ma perché la loro carica – che non esiterei a definire “rivoluzionaria” – si sprigiona in tutta la sua forza dirompente precisamente a causa delle modalità nuove in cui viene comunicata.

                                                                                                        di Giuseppe Savagnone

 

La forma tradizionale delle encicliche

Finora per “enciclica” si è intesa una lettera pastorale del Papa ai vescovi della Chiesa cattolica e, attraverso di loro, a tutti i fedeli. Ancora nella Lumen fidei (2013) – la prima enciclica dell’attuale pontefice (dichiaratamente ispirata, però, a un testo già elaborato dal suo predecessore) – questa impostazione era stata mantenuta. Il documento si rivolgeva «ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, alle persone consacrate, e a tutti i fedeli laici» e partiva dai testi della Rivelazione. Benedetto XVI, nella sua enciclica sociale Caritas in veritate (2009), aveva aggiunto, ai suddetti destinatari, anche «tutti gli uomini di buona volontà». In ogni caso il punto di partenza era la fede che accomunava i membri della Chiesa. Perciò le encicliche normalmente si aprivano con una esposizione dei fondamenti biblici e magisteriali del messaggio che volevano comunicare, passando poi alle applicazioni ai problemi della comunità cristiana e della società.

La svolta della «Laudato si’»

Già con la Laudato si’ (2015) papa Francesco ha cambiato questo struttura tradizionale. L’enciclica sulla crisi ecologica si apre con un capitolo dedicato alla rassegna dei fenomeni negativi che contrassegnano il nostro rapporto con la terra. E ne spiega il motivo: «Le riflessioni teologiche o filosofiche sulla situazione dell’umanità e del mondo possono suonare come un messaggio ripetitivo e vuoto, se non si presentano nuovamente a partire da un confronto con il contesto attuale, in ciò che ha di inedito per la storia dell’umanità» (n.17).

Perché la voce della Rivelazione?

Solo nel secondo capitolo, intitolato «Il vangelo della creazione» e aperto da una sezione dedicata a «La luce che la fede ci offre», entrano in gioco la Rivelazione e il suo insegnamento. E che questo non sia scontato lo evidenzia l’interrogativo con cui questa sezione si apre: «Perché inserire in questo documento, rivolto a tutte le persone di buona volontà, un capitolo riferito alle convinzioni di fede?» (n.62).

Il Vangelo come contributo alla riflessione umana

Due le risposte date a questa domanda. La prima, che «se si vuole veramente costruire un’ecologia che ci permetta di riparare tutto ciò che abbiamo distrutto, allora nessun ramo delle scienze e nessuna forma di saggezza può essere trascurata, nemmeno quella religiosa con il suo linguaggio proprio» (n.63); la seconda, che «anche se questa Enciclica si apre a un dialogo con tutti per cercare insieme cammini di liberazione, voglio mostrare fin dall’inizio come le convinzioni di fede offrano ai cristiani, e in parte anche ad altri credenti, motivazioni alte per prendersi cura della natura e dei fratelli e sorelle più fragili (…). Pertanto, è un bene per l’umanità e per il mondo che noi credenti riconosciamo meglio gli impegni ecologici che scaturiscono dalle nostre convinzioni» (n.64). Dove è chiaro che il discorso deve parlare a tutti gli uomini, anche al di fuori della Chiesa, non prescindendo dalla prospettiva cristiana, ma tenendola presente come un «forma di saggezza», dunque nelle sue implicazioni umane; e ai credenti fornendo loro «motivazioni alte», legate alla fede, che dovrebbero renderli più direttamente protagonisti nella lotta per la salvaguardia del creato.

Il dialogo aperto di «Fratelli tutti»

Nella nuova enciclica di Francesco questa intenzione di parlare a tutti gli uomini e le donne del pianeta, e non solo ai cristiani è ancora più evidente. Il papa la dichiara, del resto, espressamente, all’inizio: «Pur avendola scritta a partire dalle mie convinzioni cristiane, che mi animano e mi nutrono, ho cercato di farlo in modo che la riflessione si apra al dialogo con tutte le persone di buona volontà» (n.6).

Il primato della trascendenza

Non è un caso che in Fratelli tutti il riferimento esplicito alla prospettiva religiosa e a quella più specificamente evangelica compaia solo nell’ottavo capitolo, l’ultimo. Dove Francesco sottolinea che «quando, in nome di un’ideologia, si vuole estromettere Dio dalla società, si finisce per adorare degli idoli, e ben presto l’uomo smarrisce sé stesso, la sua dignità è calpestata, i suoi diritti violati» (n.274). Una rivendicazione del primato della trascendenza, comune a molte religioni, che ha il suo ulteriore sviluppo nella precisazione che per il cristiano la «sorgente di dignità umana e di fraternità sta nel Vangelo di Gesù Cristo» (n.277). È coerente con questa apertura alle altre religioni il reiterato richiamo al documento firmato ad Abu Dabi col Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb. Mentre, come lo stesso Francesco ricorda, ad ispirarlo nella redazione della Laudato si era stato il Patriarca ortodosso Bartolomeo – non cattolico, ma comunque cristiano, ora il punto di riferimento è il suo dialogo con un autorevole rappresentante dell’islam (cfr. n.5).

Un manifesto illuminista?

Non stupisce che l’enciclica sia apparsa, agli occhi di una parte del mondo cattolico che da tempo accusa l’attuale pontefice di eresia e di sincretismo, «il manifesto ideologico del bergoglismo». Lo ha scritto sul quotidiano «La Verità» (6 ottobre 2020) un noto intellettuale di destra, Marcello Veneziani, sostenendo che «la fratellanza a cui allude Papa Francesco è il terzo principio della Rivoluzione Francese, dopo liberté ed égalité» e che, con questa enciclica, l’ideologia di Bergoglio cerca un posto alla Chiesa postcristiana nella modernità laica in nome della fratellanza (…) inserendo la Chiesa dentro il mondo moderno, ateo e laicista, disceso dalla Rivoluzione francese e cercando ispirazione anche da altre religioni come l’Islam».

Una Chiesa che vuole uscire dal tempio

In realtà, se proviamo a decrittare questo messaggio, scopriamo che in fondo Veneziani coglie abbastanza bene l’intenzione fondamentale del papa: fare uscire la Chiesa e il suo annuncio del Vangelo dal ghetto in cui la cultura del mondo moderno li hanno da tempo relegati e puntare sui valori che questa stessa cultura ha accolto e celebrato, per mostrare le loro radici cristiane e denunciare l’incoerenza della società attuale rispetto ad essi. Che questo diventi un’accusa lo si comprende alla luce della pressante e ricorrente richiesta, da parte di esponenti politici della destra, che i pastori della Chiesa “si facciano gli affari loro”, se ne restino, cioè, ben chiusi fra le mura dei loro templi a parlare di una fede senza il minimo riscontro nella vita reale degli uomini, a cominciare dagli stessi fedeli.

Una fede che pretende di parlare anche alla ragione umana

È interessante, però, che questa sia anche la pretesa di intellettuali di segno opposto, come Paolo Flores d’Arcais, il quale, in uno scritto di alcuni anni fa, sottolineava la necessità di combattere «l’idea, criticamente insostenibile, che abbia qualche fondamento la pretesa della “fides” di essere anche “ratio”, la pretesa del magistero della Chiesa, con le proprie dottrine morali, di essere anche la custode della natura umana in quanto ragione».  Perché, «se la “fides” di cui si tratta è (…) “follia per la ragione” (…), nessuna Chiesa potrà pretendere che questa sua “follia”, che pure chiederà ai suoi fedeli di praticare, diventi regola della civile convivenza». Invece, avvertiva Flores d’Arcais, «una religione che pretende di fare tutt’uno con la ragione, anzi di essere il compimento della ragione, inevitabilmente torna (…) alla richiesta di far valere erga omnes, credenti e non credenti (…) i propri precetti morali». Infatti, se si accettasse questa logica, «ogni norma in contrasto con la “legge naturale” di ragione, inglobata nella fede, sarebbe irragionevole e disumana, e nessuno può volere che la convivenza civile si autodistrugga con leggi positive disumane» («Micromega» 3/2007, pp.14-215).

La sfida di Francesco

Ora, è proprio questo che papa Francesco ha cercato di fare, già nella Laudato si’, più decisamente in Fratelli tutti: mostrare che la Chiesa ha qualcosa da dire al mondo contemporaneo, non in termini confessionali, ma per rispondere a un problema che sta davanti agli occhi di tutti, credenti e non credenti, evidenziando che la fraternità, centrale nel messaggio cristiano, è anche un valore umano e che un mondo che la misconosce – come il nostro – è disumano. È una sfida. La parabola del buon Samaritano – a lungo analizzata nell’enciclica come modello di fraternità, ma che nel Vangelo è il racconto dell’umano fatto da Dio –, ci rassicura che a porre questa sfida non è solo l’ideologia di Bergoglio.

 

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