Accecati dall’odio verso i nemici che individuavano in chiunque provenisse da altri popoli, non si rendevano conto di essere i veri micidiali nemici del loro stesso popolo.
Grazie ai suoi insegnamenti preziosi e fuori dagli schemi, in questi anni Alberto Maggi è riuscito a conquistare decine di migliaia di lettori credenti e non credenti, al punto da essere oggi riconosciuto come una delle voci più spiazzanti e insieme più incisive della Chiesa. Brutto come il peccato raccoglie alcune delle sue riflessioni più profonde e originali sulla fede e sull’importanza di vivere la propria vita in modo autentico: lungi dal presentarsi come un maestro esemplare, padre Alberto cerca di trasmettere in queste pagine la straordinaria attualità del messaggio evangelico attraverso uno stile personale inconfondibile, contraddistinto da grande chiarezza. Nel notare come la Chiesa abbia adottato per secoli un linguaggio per molti versi antitetico a quello del vangelo, ricorrendo a termini e formule dottrinali che esprimono le dinamiche del potere, che separano e dividono, che giustificano l’esclusione e creano distinzioni, padre Alberto ci invita a riscoprire la semplicità, il pragmatismo e la coraggiosa schiettezza delle parole di Gesù, con l’obiettivo di realizzare, ciascuno nel proprio piccolo, un ideale umano, prima ancora che cristiano, di comunione e unità.
L’entusiasmo
per le parole di Gesù si deve a una profonda convinzione radicata in Israele,
il popolo che si riteneva privilegiato da Dio. Infatti gli Ebrei credevano che
nel momento di massimo pericolo per la nazione santa, il Signore stesso sarebbe
intervenuto con tutta la sua potenza, avrebbe sbaragliato i nemici e inaugurato
il regno di Israele e il suo dominio su tutti i popoli pagani (Dn 7,27). Tale
convinzione risaliva a ben sette secoli prima, quando il re di Assiria, il
temibile Sennàcherib, cinse d’assedio la città santa dopo aver già conquistato
e devastato ben quarantasei città giudaiche. Proprio quando i gerosolimitani si
apprestavano angosciati a trascorrere la loro ultima notte, “l’angelo del
Signore uscì e colpì nell’accampamento degli Assiri centottantacinquemila
uomini. Quando i superstiti si alzarono al mattino, ecco, erano tutti cadaveri
senza vita” (2 Re 19,35; Is 36-37). E a Sennàcherib non rimase altro che levare
le tende e tornare a Ninive, dove, mentre ringraziava nel tempio il suo dio per
lo scampato pericolo, venne assassinato dai suoi stessi figli.
Lo
straordinario avvenimento diede luogo alla credenza che Gerusalemme, la città
del Signore, non sarebbe mai stata conquistata, e che Dio stesso sarebbe
intervenuto in sua difesa, nella certezza che “Dio è in mezzo a essa: non potrà
vacillare. Dio la soccorre allo spuntare dell’alba” (Sal 46,6).
Questo
episodio consolidò ancor più in Israele la convinzione di avere Dio come
potente alleato e difensore (“Il Signore degli eserciti è con noi”, Sal 46,8),
di essere un popolo eletto, privilegiato, destinato a espandere il Regno
d’Israele conquistando le altre nazioni. Così immagina l’anonimo autore della
terza parte del Libro del profeta Isaia, che, nel suo delirio megalomane, vede
già “stuoli di cammelli e dromedari che portano oro e incenso… stranieri
ricostruiranno le tue mura, i loro re saranno al tuo servizio…succhierai le
ricchezze dei re, vi nutrirete delle ricchezze delle nazioni…” e, naturalmente,
“le nazioni e il regno che non vorranno servirti periranno, e le nazioni
saranno tutte sterminate…” (cf Is 60-61).
Inutilmente altri profeti, tra cui lo stesso Isaia (quello vero), avevano scritto che la benedizione del Signore si estendeva a tutti i popoli, nemici compresi (“Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani”, Is 19,25).
Israele considerava un episodio unico ed esclusivo la sua liberazione
dalla schiavitù egiziana, segno evidente della predilezione di Dio per questo
popolo. Ma da sempre l’azione del Signore è quella di essere liberatore degli
oppressi (“Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete
stati forestieri in terra d’Egitto”, Es 22,20) e ciò che ha fatto per Israele
lo ha fatto anche per quelli che sono considerati i suoi nemici storici, quali
i Filistei, come aveva scritto Amos, il profeta vissuto sette secoli prima del
Cristo: “Non siete voi per me come gli Etiopi, figli d’Israele?... Non sono io
che ho fatto uscire Israele dal paese d’Egitto, i Filistei da Caftor e gli
Aramei da Kir?” (Am 9,7). Un messaggio duro, controcorrente, inaccettabile.
Infatti Amos, che aveva osato annunciare che il Signore avrebbe potuto farla
finita con Israele perché Dio sta sempre con chi è oppresso e mai con chi
opprime (Am 8,2), venne accusato di essere un disfattista, di congiurare contro
il suo stesso popolo (“il paese non può sopportare le sue parole”) e cacciato
via: “Vattene, veggente, ritirati nella terra di Giuda” (Am 7,10,12).
Gesù,
che non è venuto a risuscitare il defunto regno d’Israele, ma a inaugurare il
regno di Dio, prende le distanze in modo netto da queste attese nazionaliste e
invita a non credere in queste illusioni. Non ci sarà alcun aiuto da parte del
Signore. Anche la sua casa, il meraviglioso tempio “ornato di belle pietre e di
doni votivi” (Lc 21,5), lo spazio sacro più grande di quel tempo, non solo non
offre alcun riparo, ma proprio su di esso si indirizzerà la furia devastatrice
dei Romani. Gesù lo sa e piange su Gerusalemme: “Se avessi compreso anche tu,
in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è stato nascosto ai tuoi
occhi. Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee,
ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte; distruggeranno te e i tuoi
figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai
riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata” (Lc 19,42-44).
Quelle
di Gesù non sono parole minacciose; lui non annuncia un castigo divino, ma
lucidamente prevede quel che era sotto gli occhi di tutti, ma che il popolo,
accecato dall’ideologia religiosa e politica, non riusciva a vedere. La fine di
Gerusalemme, e poi di Israele, si dovrà proprio agli zelanti custodi della
tradizione, dell’ortodossia, della Legge, quelli che per difendere la verità
(la loro) sono pronti a uccidere, quelli che per preservare la dottrina (la
loro) non esitano a distruggere quanti vedono come avversari. Quanti credevano
di essere minacciati dai pagani non si rendevano conto di essere essi stessi un
pericolo per il loro popolo.
Le lotte intestine, la bramosia di dominio, il fanatismo religioso: sono queste le cause della devastazione di Gerusalemme e del suo tempio, ormai degradato a una “spelonca di ladri” (Lc 19,45), trasformato in campo di battaglia per la spartizione del bottino e del potere. La responsabilità della rovina d’Israele è da ricercare infatti nell’avidità e nell’ingordigia delle autorità religiose. Gesù l’aveva già denunciato apertamente nella parabola dei vignaioli assassini diretta agli scribi e ai sommi sacerdoti (Lc 20,9-19). Sono costoro che, per la loro insaziabile avidità, non solo assassinano tutti gli inviati di Dio, ma arrivano ad ammazzare persino suo Figlio (“Costui è l’erede. Uccidiamolo e così l’eredità sarà nostra” (Lc 19,14).
Per interesse, i capi del popolo hanno rifiutato l’uomo che portava la pace e scelto Barabba, l’assassino (Lc 23,18), continuando la tragica mortale litania di un’istituzione che da sempre uccide i profeti e lapida quanti il Signore insistentemente invia (Lc 13,34). Volevano difendere a tutti i costi il loro potere ma non si sono resi conto che la loro “casa sta per esservi lasciata deserta” (Lc 13,34), come il Signore stesso aveva ammonito attraverso il profeta Geremia: “Se non ascolterete queste parole, io lo giuro per me stesso – oracolo del Signore – questa casa diventerà una rovina” (Ger 22,5), e l’intero Israele sarebbe diventato “la favola e lo zimbello di tutti i popoli” (1 Re 9,7). Sorda a ogni richiamo del Signore, la casta sacerdotale al potere rifiutò ogni tentativo di pace e, pur di difendere se stessa, arrivò a reclutare “numerosi profeti che andavano predicando di aspettare l’aiuto del dio” (Guerra giudaica, VI, 5,2 §286). In questa micidiale miscela di fanatismo religioso e nazionalismo esasperato, gli Zeloti, i fanatici fautori della guerra santa, quelli che hanno scelto la lotta armata contro l’invasore romano, sono da considerare i principali responsabili della catastrofe: “Per colpa dei pazzi rivoluzionari fu la fine di Gerusalemme” (Guerra, VII, I, 4). Temevano i pagani ed erano loro stessi il pericolo mortale per Israele.
Accecati dall’odio verso i nemici che individuavano in chiunque provenisse da altri popoli, non si rendevano conto di essere i veri micidiali nemici del loro stesso popolo.
(dall'account facebook di Alberto Maggi)
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