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domenica 31 agosto 2025

MECCANIZZARE L'UMANO ?

 


  Uomo o macchina? 

Ci salverà la libertà creatrice

 


-       di Andrea Lavazza

 Nel loro nuovo libro, Chiara Giaccardi e Mauro Magatti affrontano il rischio di meccanizzazione dell’umano.

Il digitale trasforma l'esperienza in dato, l’antidoto è il recupero dello spirito.

Quando il titolo è già un esperimento che pare riuscito (verifiche ulteriori a cominciare da oggi), un saggio ambizioso e tempestivo muove subito il dibattito culturale.

Macchine celibi è la più recente analisi dei trend sociali dell’oggi a firma di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti.

Il sottotitolo – Meccanizzare l’umano o umanizzare il mondo? – fa intuire il focus del volume (il Mulino, pagine 184, euro 17,00), ma non svela l’arcano.

E oggi l’impazienza e la curiosità, lo sappiamo, si traducono nel digitare sui nostri dispositivi ben prima di consultare un libro.

Si può provare con la tradizionale ricerca sui motori del web, oppure ricorrere direttamente a un chatbot.

Subito si entrerà nel mondo dell’arte di Marcel Duchamp, autore dell’opera Il grande vetro, di cui l’espressione scelta dai due autori del volume identifica una parte.

Il punto è che sia leggendo le descrizioni fornite sia guardando le fotografie disponibili in rete non risulta molto chiaro il senso della complessa installazione completata nel 1923.

Ma questo è solo il lato passivo del sistema, che in questo caso non risponde in modo esaustivo come di solito accade alle nostre richieste.

Sul lato attivo, invece, è difficile immaginare un prompt capace di indurre l’intelligenza artificiale a concepire qualcosa di paragonabile alla creazione di Duchamp: un’opera che si fa metafora della condizione umana.

È qui che Giaccardi e Magatti mostrano come l’essere umano mantenga ancora un proprio spazio insostituibile di produzione di senso: la macchina non possiede l’ultima parola.

L’arte, ma non solo, può seguire percorsi che sfuggono alla rigida funzionalizzazione dell’IA e dell’intero processo tecno-capitalistico, per quanto questo abbia raggiunto un livello di potenza inedito.

Quello che costituisce l’epilogo del lavoro di ricognizione e di proposta svolto dai due sociologi dell’Università Cattolica (ben noti ai lettori di “Avvenire”) è quindi già in nuce contenuto nel titolo e inverato dal piccolo test descritto sopra.

Secondo gli autori, il sogno di Leibniz di un linguaggio universale matematico è oggi realtà di fronte a noi che, tuttavia, possiamo invocare la ribellione surrealista che rivendicava il potere del sogno e dell’irrazionale.

Nella sua creazione, giocosa e inquietante allo stesso tempo, Duchamp incarna infatti la tensione tra questi poli: sopra la sposa irraggiungibile, sotto gli aspiranti nubendi che si agitano inutilmente.

Come scrivono Giaccardi e Magatti, «a poco a poco, senza accorgercene, ci trasformiamo in macchine celibi: sempre più simili ai dispositivi “intelligenti” da cui dipendiamo, e come loro assoggettati alla legge ferrea di un movimento continuo ed efficiente, che però rischia di girare a vuoto, rincorrendo avidamente schegge di un desiderio messo al servizio dei poteri che dominano le tecnologie digitali”.

L’avvento dell’IA onnipresente porta all’estremo la razionalizzazione moderna.

È un farmaco: cura e veleno insieme.

Promette ordine, ma genera nuove angosce, disuguaglianze, solitudini.

La domanda, dunque, è se possiamo usare le tecnologie per umanizzare il mondo o se saremo definitivamente meccanizzati.

Il quadro che emerge dallo sguardo largo e profondo messo in campo nel libro, pur non negando i grandissimi progressi in molti ambiti grazie agli strumenti digitali, appare decisamente negativo.

Rispetto al tecnottimismo o neutralismo di chi vede le macchine come qualcosa che non sarà mai come noi perché esse non hanno scopi né emozioni né desideri (per esempio, Maurizio Ferraris nel suo recente La pelle), Giaccardi e Magatti sono orientati a un tecnopessimismo oggettivo, che vede l’essere umano tendere all’assimilazione verso il modello computazionale: «Oggi l’uomo sempre più si fa macchina, mentre la macchina si fa sapiens: il piano umano e quello meccanico diventano sempre meno distinguibili.

Nasce così il regno delle macchine celibi, dove l’essere umano viene modellato da ciò che lui stesso ha costruito, dentro un orizzonte chiuso e autoreferenziale, che non ammette esteriorità alcuna».

Il digitale trasforma ogni esperienza in dato, ogni relazione in informazione calcolabile.

Ciò aumenta efficacia e velocità, ma riduce lo spazio del senso e della libertà.

La modernità liquida descritta (criticamente) da Bauman a molti sembrava aprire un’era di felicità rotte tutte le catene che limitavano l’individuo.

Facciamo invece i conti con un panorama di insoddisfazione, rancore quando non disperazione.

La diagnosi degli studiosi è stringente: «L’apertura dello spazio di autonomia e autodeterminazione del singolo ha segnato un passaggio epocale cruciale.

Tuttavia, questo passaggio ha di fatto promosso una struttura della personalità narcisistica, centrata sul proprio benessere, la deregulation dei significati e la convinzione di un progresso illimitato e universale.

Per forzare e accelerare in questa direzione si è scelto di indebolire i contesti relazionali e valoriali, sia interpersonali che sociali e istituzionali, ritenuti troppo vincolanti, se non addirittura oppressivi.

Il problema è che proprio questi stessi contesti in passato aiutavano a gestire il rapporto col fallimento, la frustrazione, il negativo e in ultima istanza con l’angoscia della morte: tutti aspetti che, pur nella rincorsa al benessere, non possono essere mai completamente rimossi dalla vita, individuale e collettiva».

Abbiamo paradossalmente il mondo in tasca, eppure siamo concentrati sul nostro ombelico, e per di più in preda all’ansia.

Come l’operaio fordista era privato delle proprie competenze alla catena di montaggio, così nel 2025 l’individuo sembra espropriato della propria autonomia cognitiva dagli algoritmi.

Si produce una miseria simbolica: impoverimento del linguaggio, uniformazione culturale, incapacità di attribuire significati profondi.

Gli autori provano a ricostruire le radici psicosociali della rabbia diffusa nelle società contemporanee.

La perenne insicurezza prodotta da aspettative performative, le disuguaglianze economiche, la perdita di riferimenti culturali e la sfiducia nelle istituzioni alimentano risentimento e aggressività.

Populismi e leader carismatici sfruttano questa rabbia, combinando promesse tecnocratiche con strategie emotive: nasce così il tecnopopulismo, che usa il digitale per manipolare e mobilitare, attingendo a miti del progresso illimitato e a forme distorte del cristianesimo per restringere la cerchia di coloro cui si possono riconoscere pieni diritti.

Di fronte a una crisi inedita, Giaccardi e Magatti propongono di recuperare la dimensione dello spirito: non come categoria religiosa in senso stretto, ma come libertà creativa, capacità di generare senso e anche apertura al trascendente.

Lo spirito diventa condizione per resistere alla riduzione tecnico-performativa e per costruire nuove forme di convivenza.

Contro la riduzione digitale e populista, gli autori rilanciano la necessità di pensare la complessità.

Servono a questo fine tre passaggi chiave: riconoscere la pluralità, coltivare il dialogo, sviluppare il pensiero critico.

Una società democratica deve essere “una società che pensa di più”, non solo che funziona meglio.

Dobbiamo perciò diventare poeti sociali, capaci di intrecciare tecnica, relazioni e senso, altrimenti ci ridurremo appunto a macchine celibi, ingranaggi isolati ed efficienti ma sterili.

 Quello di poeta sociale (immagine introdotta da papa Francesco in un incontro del 2021 con i rappresentanti dei movimenti sociali) rappresenta un modello antropologico e politico che non rifiuta la tecnica, ma la reintegra dentro una visione più ampia di umanizzazione del mondo.

Si tratta di una risorsa per rigenerare la democrazia e la convivenza, un’alternativa anche politica all’individuo-macchina, che sappia coniugare creatività, relazionalità e responsabilità collettiva.

Individuato il percorso, resta da coltivare una generazione di poeti sociali che ci preservi dalla meccanizzazione dell’umano.

 www.avvenire.it

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SEMI DI PACE E DI SPERANZA


 Nel segno dell’ecumenismo la Giornata del Creato del 1° settembre

Le celebrazioni per la Giornata Mondiale di preghiera per il Creato che si apriranno domani, primo settembre, sono ispirate quest’anno dal 1700° anniversario del Concilio Ecumenico di Nicea e dal messaggio del Papa per la Giornata, il cui tema – Semi di pace e di speranza - era stato scelto da Papa Francesco.

 Vatican News.

Si celebra domani, 1° settembre, la Giornata Mondiale di preghiera del Creato, i cristiani di tutto il mondo si uniranno in preghiera perché vivere il Tempo del Creato è un'opportunità per unirsi ai numerosi sforzi di chi nel mondo lavora a favore della conversione ecologica.  Il Tempo del Creato è un’iniziativa ecumenica che ogni anno si celebra dal 1° settembre al 4 ottobre, festa di San Francesco d'Assisi, ed è promossa e sostenuta da diverse realtà, tra cui il Movimento Laudato Si il Consiglio Ecumenico delle Chiese, la Federazione Luterana Mondiale, la Comunione Anglicana.

Nel 1989 il Patriarca ecumenico Dimitrios I ha proclamato per i cristiani ortodossi la Giornata di Preghiera per il Creato il 1° settembre. Successivamente, il Consiglio Ecumenico delle Chiese (WCC) ha prolungato la celebrazione fino al 4 ottobre. Nel 2015 Papa Francesco ha pubblicato l’enciclica Laudato si’ e poi ha istituito la “Giornata Mondiale di Preghiera per la Cura del Creato”. Per l’occasione viene pubblicato un Messaggio e questo anno 2025 ha come tema: “Semi di Pace e di Speranza”, scelto da Papa Francesco. Inoltre, Papa Leone XIV ha proclamato il Decreto del formulario della Messa per la Custodia della CreazioneMissa pro custodia creationis, e lui stesso ha celebrato questa Messa il 9 luglio scorso nel Borgo Laudato sì a Castel Gandolfo.

Per animare le celebrazioni di quest'anno, il Consiglio Ecumenico delle Chiese, l'organismo che riunisce le Chiese ortodosse e protestanti, ha pubblicato un nuovo video sulla storia e il simbolismo di questa Giornata.

Molte conferenze episcopali, soprattutto nel sud del mondo, stanno incoraggiando le loro parrocchie a celebrare la Giornata con il formulario della Messa per la Custodia della Creazione come accadrà nelle Filippine, secondo quanto ha confermato monsignor Gerardo Alminaza, vescovo di San Carlos, e in altri Paesi latinoamericani, come ha reso noto il segretario generale del CELAM, il Consiglio Episcopale Latinoamericano, monsignor Estrada Herrera Lizardo, vescovo ausiliare di Cuzco.

Il 2025 vede due importanti anniversari: i 1700 anni dal Concilio di Nicea e la pubblicazione dieci anni fa della Laudato si’. Il Consiglio Ecumenico delle Chiese ha proposto la Giornata del Creato come occasione per ricordare l’importanza del Credo nel Dio “creatore del cielo e della terra”, “per mezzo del quale tutte le cose sono state create”.

L'iniziativa “Tempo del Creato” è coordinata a livello mondiale dal Consiglio Ecumenico delle Chiese, presieduto dal vescovo Heinrich Bedford-Strohm, in collaborazione con varie chiese cristiane mondiali e partner. Ogni anno viene organizzato un servizio di preghiera online per celebrare il Giorno del Creato, organizzato da un comitato ecumenico e vedrà la partecipazione del cardinale Fridolin Ambongo, presidente del Simposio delle Conferenze Episcopali dell'Africa e del Madagascar (SECAM), del vescovo luterano della Colombia Atahualpa Hernandez e del reverendo Hyunju Bae della Chiesa presbiteriana coreana.

 

Vatican News

 

venerdì 29 agosto 2025

IL PIU' DEGNO

 


Commento al Vangelo

 della XXII domenica 

del T.O (Lc 14,1.7-14)


Un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. […] 7Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: 8«Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, 9e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cedigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. 10Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. 11Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato». 12Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. 13Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; 14e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».

 Commento di Giulio Michelini

Rispetto alla pagina del vangelo della domenica precedente, il lezionario ha omesso alcuni versetti, quelli in cui si legge che «si avvicinarono a Gesù alcuni farisei, dicendogli “Parti e vattene di qui, perché Erode vuole ucciderti”» (Lc 13,31), ovvero il fatto che probabilmente i farisei stiano tentando di aiutare Gesù, mettendolo in guardia da un imminente pericolo. Per alcuni interpreti, però, si tratterebbe solo di una mossa politica dei farisei, e non di un atto che esprime la loro cura.

Anche nella pagina di oggi compaiono i farisei, in una situazione che ricorre altre volte nel Terzo vangelo: Gesù si trova a pranzo con loro. Da qui prende l’avvio l’azione, costruita con una tecnica narrativa abilissima, quella del racconto nel racconto. Prima di vederne alcuni elementi, però dobbiamo osservare che anche dalla pagina del lezionario odierno sono stati espunti alcuni versetti (i vv. 2-6), riguardanti una disputa sul sabato – che viene letta in altre domeniche dell’anno liturgico.

Il racconto nel racconto è un classico espediente letterario. L’esempio moderno più noto è forse quello della tragedia Amleto, di William Shakespeare, nella quale per smascherare lo zio omicida, Amleto fa rappresentare alla corte di Danimarca, da una compagnia teatrale di passaggio, l’uccisione del re, proprio padre.

Luca costruisce in modo abile la pericope. Anzitutto vi è una introduzione (v. 1), nella quale è spiegata la situazione, e dove si descrive l’atteggiamento dei farisei che osservano Gesù. Segue la disputa sul sabato che, si è detto, è omessa dal lezionario di oggi (vv. 2-6). Vi è poi la parabola sugli invitati o i primi o ultimi posti (7-13), e infine un insegnamento all’ospite, su chi invitare a pranzo o a cena.

Il setting della pagina è dunque duplice: è un sabato, così come vi sono diversi altri sabati nel racconto dei sinottici, durante i quali spesso avvengono incidenti o discussioni. Si noti che – come anche John Paul Meier ha ben sottolineato nel suo quarto volume di Un ebreo marginale, tutto dedicato al rapporto tra Gesù e la Legge – mai il Signore ha violato il Sabato. In discussione, pertanto, da parte di (alcuni?; una frangia di?) farisei vi è il modo in cui Gesù crede di poterlo osservare. Così, come in altre situazioni, in gioco non è la Torah stessa, ma l’applicazione pratica di alcuni suoi precetti. Ma qui non si tratta solo di un sabato, perché, come si è visto, il setting del vangelo di oggi è anche quello di un banchetto.

Il banchetto è molto presente nei vangeli, e, come si è visto, sono caratteristici del Terzo vangelo quelli preparati per Gesù dai farisei. Ricordiamo, per rimanere a Luca, il banchetto in cui Levi prepara un pasto a Cafarnao per Gesù e gli altri esattori delle tasse (cap. 5); al capitolo 7 vi è poi il primo banchetto organizzato dai farisei per Gesù. Segue quello che possiamo definire il “banchetto messianico” o della “moltiplicazione”, preparato – questa volta da Gesù stesso – coi pani e i pesci, al cap. 9. Un’altra scena importante che coinvolge la tavola è quella del capitolo decimo, dove Gesù si trova con le due sorelle Marta e Maria, e discute con la prima della sua distratta diaconia. Vi è poi un secondo banchetto organizzato dai farisei, al cap. 11, e poi l’ultimo, dove sono sempre i farisei a invitare Gesù, quello del lezionario di oggi, al cap. 14. Il vangelo di Luca termina, poi, con la grande scena di Gesù che, tavola, spezza il pane (un banchetto?) per i due di Emmaus, al cap. 24.

Quante cose accadono a tavola, e soprattutto alla tavola con Gesù: sembra di essere di fronte a un simposio greco, quando – ci dicono i testi e gli inni simposiali – non ci si accontentava di consumare un pasto, ma, dopo aver mangiato, si puliva la tavola, si portava del vino buono, e si iniziava a discutere di vari argomenti e si proclamavano versi o si facevano giochi. Lo stesso avviene (questa volta con la partecipazione anche delle donne, non presenti nel modello greco) nel convivium romano, che prevedeva anch’esso un banchetto, e discussioni a tavola.

Particolarmente noto è il banchetto di cui si parla, per quanto riguarda i testi neotestamentari, nella Prima lettera di Paolo ai Corinzi, nel quale, al capitolo undicesimo, non solo abbiamo la più antica attestazione di una celebrazione della cena del Signore, ma essa sembra inserita nel modello di un simposio di stile ellenistico. Segnalo, a tal riguardo, uno dei commenti più utili su questa pagina, il volume di Romano Penna, La cena del Signore. Dimensione storica e ideale (San Paolo, 2015).

Se torniamo al nostro testo, ecco che vi entriamo nel nucleo, e notiamo che mentre sono i farisei ad osservare Gesù, è lo stesso Signore che, in quell’occasione, ha la possibilità di fornire insegnamenti e compiere gesti. Gesù racconta la parabola degli invitati a tavola perché vede come gli invitati – in quella situazione – prendono i primi posti. Può sembrare un’osservazione banale, ma sembra di capire che il vangelo abbia a che fare proprio con la vita normale, con le situazioni feriali di tutti i giorni, con le piccole cose, come il sedersi a tavola…

Naturalmente, Gesù non si limita a tale osservazione, ma si preoccupa poi di aiutare il suo ospite a prendersi cura non solo dei suoi pari, ma anche dei poveri, per poter poi essere ricompensato da loro nei cieli. Il fatto che in questa domenica, dedicata alla Custodia del creato, ricorra questa pagina ci interpella. Come insegna la dottrina sociale della Chiesa e si legge anche nella Laudato si’ di papa Francesco, non è giusto che solo alcuni possano avere l’intera parte di un banchetto, mentre i poveri non riescono a sedersi alla tavola dell’abbondanza che Dio ha preparato per tutti, solo perché ne vengono esclusi.

 Alzogliocchiversoilcielo

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LA PROSPERITA' UMANA

 


DISCORSO 

DEL SANTO PADRE

 LEONE XIV


AI MEMBRI DELL'"INTERNATIONAL 

CATHOLIC LEGISLATORS NETWORK"

 

EN  - FR  - IT  - PT


Eminenze, Eccellenza,

Distinti Signore e Signori,

Cari Fratelli e Sorelle in Cristo,

Sono lieto di porgere il mio saluto a voi, membri dell’International Catholic Legislators Network. E vi ringrazio della vostra visita qui, in Vaticano e a Roma, durante questo anno giubilare, il Giubileo della Speranza.

Vi siete riuniti per il vostro sedicesimo incontro annuale, che quest’anno ha un tema che fa riflettere: «Il nuovo ordine mondiale: la politica delle grandi potenze, i domini delle multinazionali e il futuro della prosperità umana». In queste parole percepisco sia una preoccupazione sia un desiderio. Siamo tutti preoccupati per la direzione che il nostro mondo sta prendendo, e tuttavia desideriamo una prosperità umana autentica. Desideriamo un mondo in cui ogni persona possa vivere in pace, libertà e pienezza secondo il disegno di Dio.

Per trovare il nostro equilibrio nelle circostanze attuali — specialmente voi come legislatori e leader politici cattolici — suggerisco di dare uno sguardo al passato, alla eminente figura di sant’Agostino d’Ippona. Voce importante della Chiesa in tarda epoca romana, fu testimone di immensi sconvolgimenti e disgregazione sociale. In risposta scrisse La città di Dio, un’opera che propone una visione di speranza, una visione di significato che ci parla ancora oggi.

Questo Padre della Chiesa ha insegnato che nella storia umana s’intrecciano due “città”: la città dell’uomo e la città di Dio. Esse simboleggiano realtà spirituali — due orientamenti del cuore umano e, pertanto, della civiltà umana. La città dell’uomo, costruita sull’orgoglio e sull’amore di sé, è caratterizzata dalla ricerca di potere, prestigio e piacere; la città di Dio, costruita sull’amore di Dio fino all’altruismo, è caratterizzata dalla giustizia, dalla carità e dall’umiltà. In questi termini, Agostino ha incoraggiato i cristiani a impregnare la società terrena dei valori del Regno di Dio, orientando in tal modo la storia verso il suo compimento ultimo in Dio, consentendo però anche la prosperità umana autentica in questa vita. Tale visione teologica può offrirci un punto di riferimento dinanzi alle mutevoli correnti attuali: l’emergere di nuovi centri di gravità, l’instabilità di antiche alleanze e l’influenza senza precedenti di multinazionali e tecnologie, per non parlare dei tanti conflitti violenti. La domanda cruciale per noi credenti è pertanto la seguente: come possiamo portare a termine questo compito?

Per rispondere a tale domanda dobbiamo chiarire il significato di prosperità umana. Oggi la vita prospera viene spesso confusa con una vita ricca dal punto di vista materiale o con una vita di autonomia individuale senza restrizioni e di piacere. Il cosiddetto futuro ideale che ci viene presentato è spesso caratterizzato dalla comodità tecnologica e dalla soddisfazione del consumatore. Sappiamo però che ciò non è sufficiente. Lo vediamo nelle società ricche, dove molte persone lottano contro la solitudine, la disperazione e un senso di mancanza di significato.

La prosperità umana autentica deriva da quello che la Chiesa definisce sviluppo umano integrale, ossia la piena crescita della persona in ogni dimensione: fisica, sociale, culturale, morale e spirituale. Questa visione per la persona umana è radicata nella legge naturale, l’ordine morale che Dio ha scritto sul cuore umano, le cui verità più profonde sono illuminate dal Vangelo di Cristo. A questo proposito, l’autentica prosperità umana si manifesta quando le persone vivono virtuosamente, quando vivono in comunità sane, godendo non solo di ciò che hanno, ciò che possiedono, ma anche di ciò che sono come figli di Dio. Assicura la libertà di cercare la verità, di adorare Dio e di crescere una famiglia in pace. Include anche un’armonia con il creato e un senso di solidarietà attraverso le classi sociali e le nazioni. Di fatto, il Signore è venuto perché noi “abbiamo la vita e l’abbiamo in abbondanza” (cfr. Gv 10, 10).

Il futuro della prosperità umana dipende da quale “amore” scegliamo per organizzarvi intorno la nostra società: un amore egoistico, l’amore di sé, o l’amore di Dio e del prossimo. Noi, naturalmente, conosciamo già la risposta. Nella vostra vocazione di legislatori e funzionari pubblici cattolici siete chiamati a essere costruttori di ponti tra la città di Dio e la città dell’uomo. Questa mattina vorrei esortarvi a continuare ad adoperarvi per un mondo in cui il potere sia controllato dalla coscienza e in cui la legge sia al servizio della dignità umana. Vi incoraggio inoltre a rifiutare la mentalità pericolosa e controproducente secondo cui nulla mai cambierà.

So che le sfide sono immense, ma la grazia di Dio che opera nei cuori umani è ancora più potente. Il mio venerabile predecessore ha evidenziato la necessità di quella che ha definito una “diplomazia della speranza” (Discorso ai Membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 9 gennaio 2025). Aggiungerei che abbiamo bisogno anche di una “politica della speranza” e di una “economia della speranza”, ancorate alla convinzione che anche adesso, attraverso la grazia di Cristo, possiamo riflettere la sua luce nella città terrena.

Vi ringrazio. Ringrazio tutti voi per il vostro impegno a portare il messaggio del Vangelo nell’arena pubblica. Vi assicuro delle mie preghiere per voi, per i vostri cari, le vostre famiglie, i vostri amici e, specialmente oggi, per coloro che servite. Che il Signore Gesù, Principe della Pace, benedica e guidi i vostri sforzi per la prosperità autentica della famiglia umana.

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L'Osservatore Romano, Edizione Quotidiana, Anno CLXV n. 193, sabato 23 agosto 2025, p. 2.

 

CUL DE SAC

Una trattativa

 insensata 


per una guerra

 sbagliata

 

-       di  Giuseppe Savagnone 

 

La diplomazia del narcisismo

La tempesta di missili e droni russi che si è ultimamente abbattuta su Kiev è solo un’ulteriore conferma che la pace in Ucraina è lontana. La promessa di Trump di concludere questa guerra nel giro di quarantott’ore, si è rivelata, come del resto molte altre, una vuota vanteria, specchio del suo narcisismo. 

Narcisismo che ha caratterizzato anche le giravolte diplomatiche con cui il Tycoon ha gettato il mondo in balìa dei suoi mutevoli umori. Anche in questa vicenda, come in altre, Trump gioca a imitare Dio, ma la interpretazione che dà di questo ruolo è quella di una divinità capricciosa e prepotente.

Il presidente americano ha esordito attaccando, paradossalmente, il paese aggredito e mostrando al contrario disponibilità e simpatia per l’aggressore. Poi ha cominciato a rendersi conto che la guerra l’aveva voluta Putin, ma ha continuato a imputare a Zelenskyi la sua mancata interruzione, minacciandolo di privarlo del sostegno militare americano e indebolendo la sua posizione.  

Il fatto è che Trump sin dall’inizio ha creduto di risolvere tutto con un dialogo a due col presidente russo, escludendo proprio il governo ucraino che avrebbe dovuto esserne il protagonista. Ma questo confronto diretto si è risolto in un disastro.

Putin lo ha chiaramente preso in giro tenendolo a bada con vaghe promesse. E anche il celebratissimo incontro del 15 agosto in Alaska, che avrebbe dovuto imporre al presidente russo almeno un cessate il fuoco immediato, è servito solo a sdoganarlo dall’isolamento internazionale in cui si era trovato dopo l’invasione dell’Ucraina.

Un effetto collaterale particolarmente negativo di questa condotta sconnessa e autoreferenziale dell’inquilino della Casa Bianca è stata la rottura del fronte comune che fino ad ora aveva unito le due sponde dell’Atlantico. 

L’Europa, tradizionale alleata degli Stati Uniti, è stata ridotta al ruolo umiliante di vassallo, rimanendo esclusa dai negoziati. E l’incontro del 18 agosto – svoltosi significativamente alla corte del presidente americano – ha visto i suoi leader uniti, ma ha anche evidenziato la loro impotenza a ottenere dal loro interlocutore chiare e sicure garanzie sul suo futuro comportamento.

A coronare questa serie impressionante di contraddizioni, di errori e di scacchi, il Tycoon ha ultimamente lasciato capire che potrebbe fare un passo indietro, rinunziando al ruolo di mediatore che all’inizio si era attribuito con trionfale sicumera. Infantile protesta di un narcisismo deluso.

Sono quasi commoventi gli sforzi degli ammiratori di Trump – in prima linea la nostra premier e la stampa di destra in Italia – per rintracciare in questo demenziale susseguirsi di prese di posizione inconcludenti per la pace e nocive per tutto l’Occidente, un disegno geniale e coraggioso, destinato a farlo tornare grande. Magari attribuendo agli ultimi incontri con Putin in Alaska e con i capi europei a Washington il significato di importanti passi avanti verso la pace che chiaramente non hanno avuto, come i missili su Kiev confermano.  

Sulle macerie della diplomazia americana, i governi europei continuano a discutere fra loro delle garanzie da chiedere alla Russia, in un eventuale accordo di pace, per la sicurezza dell’Ucraina.  Ma è tutto puramente ipotetico, perché il governo di Mosca per ora non sembra intenzionato a fermare la guerra e, in ogni caso, ha già dichiarato di ritenere irrilevanti le conclusioni di questo dibattito, quali che esse siano.

Peraltro, Zelenskyi si dice profondamente grato all’Europa per il suo sostegno, ma sembra convinto – e probabilmente ha ragione – che solo gli Stati Uniti possono veramente garantire sia il raggiungimento che il mantenimento di una pace durevole. Anche se Trump sembra, al contrario, intenzionato a scaricare sui governi del vecchio continente il principale carico economico e militare di questo ruolo.

L’illusione di Putin

Il fatto è che una guerra cominciata male difficilmente può finire bene. E la guerra d’Ucraina è veramente cominciata nel peggiore dei modi.

Se è vero che non esistono guerre “giuste”, questa è stata ancora più sbagliata di altre. Alla radice – checché ne dicano i commentatori filo-russi – c’è stato il disegno imperialistico di Putin di ricostituire la “Grande Russia”, tentando di riportare l’Ucraina sotto il controllo di Mosca, se non attraverso una esplicita annessione del suo territorio, almeno imponendo la creazione di un governo fantoccio, asservito alla politica del Cremlino. Lo conferma il discorso tenuto per l’inizio della “operazione speciale”, dal presidente russo: «Non rinuncerò mai alla convinzione che i russi e gli ucraini sono un solo popolo».

E del resto solo in questa logica si spiega la portata dell’attacco del 24 febbraio, volto alla conquista non del Donbass, ma della stessa capitale, anche se poi l’andamento degli eventi bellici ha ridimensionato il conflitto a quella regione.  Putin si era illuso, evidentemente, di condurre una guerra-lampo, destituendo il governo filo-occidentale di Zelenskyi e mettendo Stati Uniti ed Europa davanti al fatto compiuto.

A impedirglielo sono stati certamente anche i servizi segreti americani, che hanno avvertito in tempo Kiev, consentendo al suo esercito di bloccare l’attacco dei paracadutisti russi alla capitale, ma soprattutto la inaspettata, orgogliosa resistenza del popolo ucraino, che ha risposto con la sua lotta coraggiosa alla forzata omologazione con quello russo sognata da Putin.  

Una demonizzazione

Tutta colpa della Russia, dunque? Si è cercato di farlo credere e in larga misura questa è ancora la rappresentazione che prevale nell’immaginario collettivo dell’Occidente. Per questo, all’indomani dell’invasione russa si è scatenata una demonizzazione senza precedenti non solo nei confronti dei sostenitori di Putin, ma dei russi in quanto tali.

Anche allora l’esagerazione e l’improduttività di questo comportamento era evidente. Le denunziavo in un mio “chiaroscuro”, pubblicato, poco dopo l’inizio della guerra, il 22 aprile 2022, su “Tuttavia” e intitolato Non è così che si costruisce la pace, in cui, dopo aver riferito della decisione senza precedenti degli organizzatori del torneo di tennis di Wimbledon di escludere dalla edizione del 2022 i giocatori russi e bielorussi, tra cui Daniil Medvedev, allora numero due del mondo, Andrej Rublëv, numero otto, e la bielorussa Aryna Sabalenka, numero quattro del mondo – osservavo: «In realtà non si tratta di una novità.

Fin dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina il Comitato Olimpico Internazionale ha “vivamente raccomandato” a tutte le federazioni mondiali di “non invitare atleti russi e bielorussi” nelle competizioni sportive internazionali. E cosi, il 3 marzo il CDA del Comitato paraolimpico internazionale ha deciso che gli atleti di Russia e Bielorussia non avrebbero potuto partecipare alle imminenti Paralimpiadi invernali di Pechino.

In un primo momento si era ipotizzato che lo facessero da “neutrali”, senza essere inquadrati ufficialmente nelle squadre dei loro rispettivi Paesi, ma poi questa misura era sembrata troppo blanda e si era definitivamente optato per una esclusione non solo delle squadre, ma dei singoli atleti in base alla loro nazionalità».

E già allora facevo notare: «Ora, in una logica morale non c’è posto per una discriminazione puramente etnica (…). Essere sostenitori di Putin, come gli oligarchi russi, giustamente penalizzati con il sequestro dei loro beni per il loro ruolo nel sostenere una dittatura sanguinaria – è una colpa. Essere russi no. A maggior ragione questo vale in un ambito, come lo sport (…). Fin dai tempi dei Greci le Olimpiadi erano il momento in cui le ostilità e le discriminazioni venivano superate in nome di una comune esperienza di umanità. Il caso del tennis sta facendo rumore. Ma forse fa più pena pensare che a Pechino, nelle paraolimpiadi, dei poveri disabili, uomini e donne, che si erano a lungo allenati nella speranza di avere anche loro un momento di pienezza, siano stati discriminati ed esclusi per il luogo in cui erano nati e cresciuti. No, non è così che si costruisce una pace degna di questo nome».

Osservazioni che appaiono particolarmente attuali di fronte alle ipotesi di boicottaggio di squadre sportive o di personaggi dello spettacolo israeliani, che molti giustamente respingono in nome del valore universale dello sport e dell’arte. 

C’è da chiedersi dove fossero, però, questi saggi osservatori quando il trattamento di discriminazione veniva applicato a personalità russe che peraltro, come il tennista Medvedev, avevano preso pubblicamente le distanze da Putin e dalla sua politica.

Un’altra illusione

In ogni caso, la verità sull’origine di questa guerra è più complessa ed è giusto ricordarla, senza nulla togliere alle responsabilità di Putin. A spianare la strada all’imperialismo del dittatore russo ci sono stati gravi errori anche da parte dell’Ucraina e dell’Occidente. 

Per quanto riguarda la prima, il governo di Kiev nel 2014 si era impegnato, con gli accordi di Minsk, a fare una riforma costituzionale volta a garantire una relativa autonomia – come quella concessa dall’Italia all’Alto Adige – alle regioni russofone del Donbass.

Impegno mai rispettato, con l’aggravante di aver consentito a forze irregolari di estrema destra, come il battaglione Azov, di imperversare in questi territori.

Ma c’è stato anche il mancato rispetto, da parte dell’Occidente, di un impegno preso, in occasione della caduta del muro di Berlino, dal presidente americano George Bush sr. In un’intervista  al «Corriere della Sera»  del 15 luglio 2007, Jack Matlock, ambasciatore americano a Mosca dal 1987 al 1991 ha raccontato:  «Quando ebbe luogo la riunificazione tedesca noi promettemmo al leader sovietico Gorbačëv – io ero presente – che, se la nuova Germania fosse entrata nella Nato non avremmo allargato l’Alleanza agli ex Stati satelliti dell’Urss nell’Europa dell’Est. Non mantenemmo la parola».

Così, nel 1999 Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca divennero a tutti gli effetti membri della NATO. Nel 2004 fu la volta di quattro Paesi ex membri del Patto di Varsavia: Romania, Bulgaria, Slovacchia e Slovenia, nonché di tre ex repubbliche sovietiche, Lettonia, Estonia e Lituania. Nel 2009 aderirono Croazia e Albania. Nel 2017 il Montenegro. Nel 2020 la Macedonia del Nord. 

Questo accerchiamento non poteva non allarmare la Russia e sollevare da parte sua forti resistenze all’ingresso nella NATO – alleanza militare per statuto anti-Russa – di un’altra ex repubblica sovietica, per di più del peso dell’Ucraina.

Putin chiese al segretario della NATO e a Biden, ricordando la promessa di Bush.  Ma il primo rispose che non se ne riteneva affatto vincolato, il secondo non rispose nulla. È probabile che Putn avrebbe perseguito egualmente il suo disegno imperialistico. Ma è certo che il presidente americano non disse una parola per fermarlo.

Perché? Una risposta può venire dai proclami trionfalistici di Biden sulla inevitabile sconfitta della Russia, destinata, per citare le parole del presidente americano, a essere “un paria” sullo scenario internazionale. I fatti hanno smentito clamorosamente queste previsioni.

Così, la guerra in corso è il frutto, di due opposte illusioni. Su entrambi i fronti si è creduto di poter prevalere con la forza, mettendo in ginocchio il nemico. Una lezione di storia che evidenzia i limiti del machiavellismo e che forse dovrebbe essere riconosciuta e meditata da tutte e due le parti. E questo esame di coscienza, forse, la prima vera condizione per avvicinarci oggi alla pace.

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SOLDI E SOCIAL


  

  I nostri giovani annoiati

 rischiano di rimbecillirsi

 

 

 

 

 

 

intervista a Paolo Crepet

 

a cura di Monica Pelliccione

 

Lo psichiatra al Centro: «Adesso bisognerebbe chiudere le piattaforme, i ragazzi sono l’emblema della solitudine, gli adulti li hanno deresponsabilizzati».

«I nuovi miserabili non sono quelli senza soldi, ma i ricchi soli. E ce ne sono tantissimi, a milioni. Una volta erano davanti alla chiesa che chiedevano la carità; ora in camera da letto che chattano, spesso con sconosciuti». Lo psichiatra, sociologo, saggista e opinionista Paolo Crepet, indica la strada. E lo fa con chiarezza: «I giovani devono imparare a cadere sette volte per rialzarsi otto, con la forza della resilienza. Il pericolo più grande dei social? Quello di rimbecillirsi».

L’Abruzzo sconta almeno due casi recenti di uso inappropriato delle piattaforme telematiche: il 27enne trovato senza vita, a Roseto degli Abruzzi, davanti al computer con una maschera antigas e il 19enne Andrea Prospero, di Lanciano, morto in un monolocale a Perugia. Nelle chat del pc, l’orrore di una possibile istigazione al suicidio. Dietro le due tragedie, l’ombra delle challenge, delle sfide estreme sui social alla ricerca di consenso. Di manipolazioni e vessazioni, consumate dietro un’anonima tastiera.

Professor Crepet, stiamo crescendo una generazione debole? «Tra un paio di mesi sarò proprio da voi, a Pescara, per parlare di questo. Che le devo dire? È tutta colpa dei social, basta chiuderli».

È un’affermazione perentoria: ne è convinto? «Straconvinto. Ci rifletta un attimo: non facciamo altro che riportare questi casi sulla stampa. Ragazzini che si suicidano, giovani che partecipano a challenge mettendo a rischio la propria vita, che si scambiano foto inaudite. Le ragazzine che si detestano perché non hanno il fisico perfetto delle influencer. Sono cose che diciamo da anni. Se abbiamo fatto battaglie per una dieta genuina, il green, i prodotti bio, perché non si possono fare per questo?».

Non è proprio la stessa cosa, però... «Stiamo parlando di elementi tossici come il gas, come i veleni. Solo che i primi si ingeriscono, gli altri ci entrano nel cervello. Mi chiedo cosa aspettiamo a debellare questo cancro. Ma tanto è una battaglia persa».

Perché dice così? «In ballo ci sono trilioni di dollari che fanno pressione. Sa quante cene a Bruxelles, a Roma, a Parigi».

Qual è il pericolo più grande che corrono i giovani? «Quello di rimbecillirsi. Non si ricordano i testi a memoria, non scrivono, non leggono. Siamo di fronte ad un disastro pedagogico totale. Ma la tecnologia, si badi bene, può ancora essere utilizzata in modo giusto».

E come? «Nessuno dice niente su Google, ad esempio. Dipende da come si usa. Il problema è l’estremizzazione, l’utilizzo sconsiderato dei social e delle piattaforme telematiche. Su Youtube si può vedere anche l’anomalo serpentone che uccide il contadino in Papuasia, ammesso che sia vero. Ma si può anche ascoltare un concerto di musica classica. Il web va utilizzato in maniera creativa. Solo che i capi dell’intelligenza artificiale, che controllano questo mondo, non ci dicono: non usate noi, ma leggete un sacro testo di Italo Calvino».

E come potrebbero farlo, scusi. Non ne trarrebbero vantaggio... «Ha centrato il punto. Il mondo è come un mercato in cui c’è la gente che vende le mele e quella che le acquista: perché non esercitiamo la nostra libertà e non scegliamo la bellezza? Possiamo acquistare una cosa che non ho mai visto, che attira la mia attenzione, ma è positiva. Non necessariamente l’unico prodotto che ci viene propinato».

È un messaggio rivolto ai giovani? «Non solo. Vedo genitori e nonni che fanno altrettanto e passano ore e ore sul pc. Non vanno più all’osteria o al circolo bocciofilo. Tutti rincoglioniti davanti alla televisione: tra un po’ vedremo ottantenni che si riducono ad acquistare la pizza on line. Ma le pare?».

Lei, quindi, non ne fa una questione generazionale? «No, non è una generazione a confronto con un’altra, magari fosse così. Negli anni Ottanta è iniziata l’era della tecnologia digitale, ma stiamo andando oltre perché il mercato spinge. Non me la posso prendere con Amazon, né con altre piattaforme. È che sta cambiando il mondo, ma in peggio».

Mi faccia qualche esempio. «Qualche settimana fa sono stato ad Ancona, in piazza dei Papi, dove prima c’erano tutte botteghe, una profumeria famosa che aveva essenze non facilmente trovabili e una libreria bellissima e molto fornita. Il proprietario mi ha scritto (avevo acquistato un paio di libri da lui) avvisandomi che aveva chiuso bottega dopo due anni mezzo. Aveva venduto pochissimi libri, tra cui i due testi che mi aveva venduto. È il deserto letterario e culturale. Una società che sta regredendo, baretti con la musica sparata in ogni città. Si vive solo di quello, abbiamo “Ibizzato” il Paese perché l’estate senza movida è brutta, quindi extrasistole da giugno a settembre. Ma lei ha notato che nel rumore non si parla?».

Eccome. Quindi? «Tutto questo isola l’individuo. Il giovani sono automi in mezzo al frastuono. Ma lei ce lo vede il signor Elon Musk che va in pizzeria con gli amici a chiacchierare? Temo che non gli capiti spesso. I nuovi miserabili sono proprio i ricchi soli».

E in questo mondo al contrario i giovani come lo colloca? «I ragazzi sono l’emblema della solitudine, alla ricerca spasmodica di consenso e di qualcosa da copiare. In fondo è sempre andata così solo che negli anni ’80 ascoltavano i Rolling Stones, adesso, si identificano nel nulla. Nella noia, nelle sfide estreme online, perché non c’è futuro. Perché noi adulti, di varia taglia, abbiamo detto: non ti preoccupare, tanto erediti. Rimani qui, non fare niente, fai finta di finire il liceo, iscriviti all’università che tanto un pezzo di carta te lo rifileranno».

Sta dicendo che abbiamo deresponsabilizzato i nostri giovani? «Assolutamente sì. E loro che fanno? Prima vanno al bar, poi cercano altro, qualcosa di artificiale o di artificioso. E i più deboli, che soccombono, paradossalmente sono i più aggressivi. Non è che chi gonfia il petto è più forte, lo è chi ha qualche idea».

C’è speranza di tornare indietro? «Non lo so, francamente non credo. Siamo davanti ad un mercato drogato. Perché tutti invitano a chattare e si consuma la corsa ai follower, mentre nessuno più invita a fare il miele, a dipingere, a intrecciare bambù, a passeggiare nella natura?».

Si riferisce ai genitori? «Oggi gli stessi genitori sono in cerca di un’identità e di vita. Devono dare esempi positivi, leggendo, studiando, lasciando il telefono a cena. Invece sono sempre con lo smartphone sull’orecchio ad ascoltare i messaggi».

Sta generalizzando, però. «Parlo di massa. Io, ad esempio, leggo, vado alle mostre, cerco di vivere sennò come farei a scrivere? Se vivessi di social di cosa scriverei? Per scrivere devi leggere, conoscere, sapere, esplorare. Torniamo a passeggiare, a parlarci, ovunque, ad entrare in contatto con la natura. Se in un paesino si facesse una bella sagra semplice, come una volta, senza musica che spacca i timpani, sarebbe un gesto eroico. Ma sono tutti alla ricerca del consenso, perché il mondo si regge sui follower e questo indica già una mancanza di libertà. Pensi se un sindaco di un bel paese dell’Abruzzo dicesse: io voglio che la gente in piazza parli, si diverta, racconti le barzellette. Se non mettesse musica fino alle tre di notte. Sarebbe già una piccola rivoluzione».

Manca il coraggio di tornare indietro? «Ma magari ci sarà qualcuno, non necessariamente un novantenne, che avrebbe voluto uscire con quattro amici e parlare in santa pace, solo che viene tacitato. Giro tutta l’Italia e la prima raccomandazione, quando entro in un hotel, non è di avere una stanza vista mare, ma tranquilla, dove poter dormire, leggere, riposare. Parlo anche della realtà dell’Abruzzo: se sbagli albergo sulla spiaggia sei morto».

Questo per dire? «È lo specchio di una società malata. Di un mondo di rincoglioniti, orrendo, terrificante. Si beve, ci si sballa, ma non credo che tutto questo ai genitori piace. Eppure, se un ragazzo torna a casa ubriaco fradicio i genitori dicono: al prossimo compleanno bevi meno. Manca l’autorevolezza dei genitori, della famiglia, degli insegnanti, delle istituzioni. Chi è autorevole oggi? Io sono una persona libera, dico quello che penso».

Un consiglio ai giovani? «Siate ribelli. Ribellatevi a questo mondo orrendo che vi abbiamo costruito. Scappate con il treno, tornate alla bellezza delle cose vere, girate il mondo, siate meno provinciali. Osservate le cose belle del mondo, andate a vedere il nord europea: a Oslo le scuole sono bellissime. I ragazzi le frequentano dalle 8.30 alle 17.30. Tutti vanno a scuola quasi tutto il giorno, sono scuole piene di cose. In quell’ambiente faccio presto a dire lasciare i telefonini fuori dalla classe perché ricompenso con la bellezza, la curiosità, l’interesse».

In Italia non è così? «Siamo lontani anni luce, vittime di una società di facciata. Non posso toglierti il telefonino e non darti niente. O siamo inginocchiati, servi dei nostri figli, o non sappiamo cosa dire. Poi non ci lamentiamo dei giovani morti in challenge o dell’istigazione al suicidio. Io non capisco dove sia fuggita la nostra intelligenza».

La scuola che ruolo può avere? “È evidente che la scuola deve essere anche fatica. La fatica è anche portare due quaderni, un sussidiario. Lo abbiamo fatto tutti, e non capisco perché adesso le giovani generazioni devono essere servite e riverite come fossero tutti dei principi d’Inghilterra. Ma non tutti hanno il coraggio di dire le cose come stanno. Un intellettuale deve tirare fuori anche il marcio della società e analizzarlo. Deve essere scomodo e ingombrante. Io lo sono, piaccia o no».

 Il Centro


giovedì 28 agosto 2025

ABITARE IL TEMPO

 


SENZA

 DOMINARLO


Tutta l’attualità 

di Sant’Agostino


 

-         di PAOLA MULLER

Ci sono parole che attraversano i secoli senza perdere freschezza. Una di queste è la voce di Agostino: inquieta, appassionata, capace di interrogare l’uomo di ogni tempo. Non un maestro che offre formule, ma un “compagno di viaggio” che ha conosciuto crisi culturali, smarrimento politico, crolli di certezze. E che non ha mai temuto le domande più radicali: sul male, sull’identità, sulla libertà, sulla morte. Le ha prese sul serio. Le ha accolte. Le ha trasformate in ricerca e in preghiera.

Ecco perché Agostino parla ancora oggi.

Non ci invita a soffocare gli interrogativi, ma a custodirli come motore della vita interiore. I dubbi non sono nemici della fede o della ragione: sono tappe necessarie di un cammino verso la verità.

Tra i tratti più moderni del suo pensiero c’è l’appello all’interiorità. Agostino invita a “rientrare in se stessi”: non per rifugiarsi, ma per compiere un esercizio di autenticità. L’uomo non può ritrovarsi senza ascoltarsi, discernere, riconoscere in sé un desiderio che lo supera. Questa prospettiva parla con forza al nostro presente, che rischia di perdersi nel rumore esterno e nella frammentazione digitale. La vera unità non nasce dal moltiplicare esperienze, ma dal raccoglierle in un centro interiore, dove la vita acquista consistenza. Non interiorità come fuga, ma come autenticità.

La riflessione sulla libertà è di sorprendente attualità. Agostino la visse nella forma più drammatica: possibilità di scegliere, ma anche di sbagliare. Attratto dalle passioni, segnato dalla debolezza della volontà, comprese che la libertà non è arbitrio, ma responsabilità. È liberazione dal disordine interiore, resa possibile dall’apertura alla grazia.

Oggi, quando la libertà è ridotta a consumo o a pura opzione individuale, la sua visione resta luminosa: non libertà di fare qualsiasi cosa, ma libertà di scegliere il bene. Agostino è anche il pensatore del tempo. Nelle Confessioni lo descrive come intreccio di memoria, attenzione e attesa: il passato che vive nel ricordo, il presente che sfugge, il futuro che si apre alla speranza. Così svela la fragilità dell’uomo, incapace di trattenere ciò che è stato e di possedere ciò che sarà. In un’epoca dominata dalla fretta e dall’ansia di controllo, il suo messaggio è liberatorio: il tempo non si domina, si abita. Non tempo da possedere, ma tempo da vivere come occasione di crescita, come spazio di relazione, come attesa di un compimento che ci trascende. Proprio perché conosce a fondo la vulnerabilità dell’uomo, Agostino apre alla possibilità di una salvezza che non nasce dalle sole forze individuali, ma dal dono. Non evasione, ma invito a guardare la realtà con occhi nuovi. Non fuga dal mondo, ma responsabilità nel viverlo, riconoscendo che ogni frammento di bene, ogni desiderio di verità, ogni esperienza di amore rimanda a un’origine e a un destino più grande.

L’attualità di Agostino non sta nel fornirci soluzioni preconfezionate, ma in un metodo e in uno stile: affrontare le domande decisive e cercare risposte capaci di unire pensiero e vita. Il suo invito a non accontentarsi, a coltivare interiorità, a vivere la libertà come responsabilità, a considerare il tempo come attesa di senso resta un’eredità preziosa per oggi. In un mondo segnato da precarietà e paura, la sua voce risuona come parola che ridona fiducia. Ci ricorda che la bellezza non è consumo. La felicità non è possesso. La verità non è arbitrio. Sono vie che conducono all’amore, alla comunione, al dono.

Agostino insegna che non si vive da soli: la città terrena e la città di Dio si intrecciano, e il compito dell’uomo è discernere e orientarsi. Il suo pensiero non è un archivio del passato, ma una bussola per il futuro. Forse la sua lezione più attuale è questa: non smettere di cercare, non accontentarsi dell’immediato, non ridurre la vita a consumo. In un tempo che sembra senza radici e senza speranza, Agostino invita a guardare oltre: a scorgere, nella fragilità del vivere, la pienezza della felicità promessa. 

E la sua voce, ancora oggi, ci raggiunge come un invito: «Inquieto è il nostro cuore finché non riposa in Te».

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