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di Giuseppe Savagnone*
Solo
un gruppo di terroristi?
Davanti
alla violenza selvaggia dell’attacco di Hamas a Israele appaiono pienamente
giustificati l’orrore e l’incondizionata solidarietà della quasi totalità del
mondo occidentale. Una solidarietà che si è immediatamente estesa anche alle
reazioni dello Stato ebraico nei confronti dei suoi aggressori. «Israele ha il
diritto di difendersi», è stata la frase che è risuonata sulla bocca di politici,
di intellettuali, e che anche papa Francesco ha fatto sua.
C’è
però, in questa affermazione inoppugnabile, qualcosa di non detto, che andrebbe
chiarito e che riguarda i destinatari e le modalità di questa azione di difesa.
«Schiacceremo
i terroristi, come l’Isis», ha promesso Netanyahu. La domanda, però, è se
davvero siamo davanti solo a un gruppo di terroristi, di cui i due milioni di
persone che vivono nella striscia di Gaza, controllata da Hamas (un milione e
duecentomila sono rifugiati palestinesi) sarebbero «ostaggio», come ha
sostenuto Giuliano Ferrara alla fiaccolata per Israele.
In
realtà, la recente storia di Gaza mette fortemente in dubbio questa narrazione.
Gli israeliani (che nel 1967 l’avevano strappata all’Egitto con la “guerra dei
sei giorni”), nel 2005 si erano ritirati, lasciandola al controllo
dell’Autorità nazionale palestinese, con cui il governo di Tel Aviv, negli
accordi di Oslo, aveva stretto un patto già dal 1993. Ma nelle elezioni che si
erano tenute l’anno dopo, nel 2006, a vincere non è stata questa frangia, più
moderata, bensì proprio il movimento islamico estremista di Hamas, che da
allora è al potere.
Un
esito dovuto al crescente discredito dell’Autorità palestinese, che, sotto la
guida del vecchio presidente Abu Mazen, ha da tempo perduto ogni grinta nella
rivendicazione dei diritti del popolo palestinese ed è sempre più affogata
nella corruzione. Tanto che oggi, anche in Cisgiordania, l’altro territorio
della Palestina dove Abu Mazen è rimasto ancora al potere, evita da anni di
indire nuove elezioni perché tutti i sondaggi predicono, in caso si
svolgessero, la sicura vittoria di Hamas.
Neanche
a Gaza, in realtà, ci sono state, dopo il 2006, nuove elezioni. E sicuramente
non si tratta di un regime liberale, come dimostra la sistematica repressione
dei diritti delle donne – sulla stessa linea dell’Iran, lo Stato islamico
sciita a cui Hamas è più vicino – e in generale di tutti gli oppositori.
Un
popolo di disperati
Ma
a compattare dietro il suo governo il popolo della Striscia è venuto in
soccorso, contro le proprie intenzioni, proprio Israele che, per reazione ai
risultati elettorali del 2006, ha imposto un embargo totale sulla regione, con
un soffocante controllo delle persone e dei beni in entrata o in uscita, determinando
una condizione avvilente di dipendenza e un ulteriore impoverimento degli
abitanti.
La
Croce Rossa internazionale ha dichiarato l’illegalità di questa politica, che
comportava una «punizione collettiva per le persone che vivono nella Striscia
di Gaza» – due milioni di esseri umani –, trasformandola in quella che lo scorso anno l’organizzazione non
governativa Human rights watch ha definito «una prigione a cielo aperto», ma
senza esito.
Così,
la rabbia sociale – esasperata da queste misure spietate e dalla colpevole
inerzia dell’Autorità palestinese – , ha spinto le nuove generazioni nelle
braccia di Hamas che, a questo punto, ha finito per esprimere la disperazione
di un popolo senza speranza. Alla fine, oggi è questo popolo il vero bersaglio
dell’azione di “difesa” di Israele.
Lo
è, del resto, anche per motivi logistici. «Bisogna liberare Gaza anche con le
bombe, anche con i carri armati, anche con l’esercito», ha gridato tra gli
applausi scroscianti Giuliano Ferrara nel suo infiammato discorso.
Ma,
in un territorio che è fra i più densamente popolati del mondo, con due milioni
di persone stipate su una superficie di 360 km quadrati, le bombe sono
inevitabilmente destinate a colpire prevalentemente i civili. Il bilancio di
sei giorni di raid aerei sulla Striscia è di più di 1.500 morti, di cui 500
bambini.
Così
è stato peraltro per l’embargo imposto da Israele nel 2007. Così è adesso per
il blocco totale di carburante, acqua e luce con cui lo Stato ebraico ha
risposto all’attacco di Hamas. A soffrire non sono certo solo i “terroristi”,
ma la povera gente, uomini, donne e bambini, che sono allo stremo. Anche gli
ospedali comunicano di non riuscire più a fare funzionare, senza elettricità,
le loro apparecchiature, a cominciare da quelle delle sale operatorie e dalle
incubatrici per salvare la vita ai neonati.
È
strano che tanti acuti osservatori occidentali – giornalisti, personalità
politiche, intellettuali – giustamente inorriditi davanti alla “strage degli
innocenti” perpetrata da Hamas, non abbiano nulla da obiettare, anzi in molti
casi plaudano, a questo massacro dei bambini e delle donne palestinesi.
Su
questa linea di spietata violenza verso la popolazione si colloca anche
l’ultimo ordine dato dal comando militare israeliano, che ha intimato lo
sgombero entro 24 ore del nord della Striscia. In questo modo, la povera gente
di questa zona – un milione di esseri umani, di cui molti erano già stati
cacciati dalla loro terra, presa dagli israeliani, e vivevano lì da rifugiati –
viene costretta, da un giorno all’altro, ad abbandonare le proprie case, le
proprie povere attività lavorative, il proprio mondo.
Un
antiterrorismo che somiglia al terrorismo
Ma
con questo siamo anche davanti alla risposta alla seconda domanda, quella
relativa alle modalità. Qualche giorno fa, un quotidiano fuori dal coro ha
titolato: «Scatta l’antiterrorismo. Assomiglia molto al terrorismo». Dove la
differenza tra guerra e terrorismo è che la prima è pur sempre soggetta a delle
regole, stabilite a livello internazionale, e ha come bersaglio il personale
militare nemico, per distruggerlo, mentre il secondo regole non ne ha e,
piuttosto che a sconfiggere un esercito mira a terrorizzare la popolazione
civile.
Ora,
in realtà questa è la tattica di Hamas, che non può certo competere con
l’apparato militare di Israele, ma – come ha fatto anche nell’ultimo attacco
– si propone di colpire l’avversario
seminando paura. Ma finisce per essere molto simile a questa anche la tattica
dello Stato ebraico, che sa bene di non poter colpire al cuore i combattenti di
Hamas – protetti da una rete i 45 km di
gallerie sotterranee fortificate – con i suoi raid aerei, ma infligge alla
popolazione palestinese, oltre alle bombe, una serie di privazioni e di disagi,
nella speranza (rivelatasi, come si è visto prima, fallace) di distaccarla
dall’organizzazione armata, senza rendersi conto di fare così proprio il suo
gioco.
Rientra
in questo stile anche il ricorso, da parte dell’aviazione israeliana, ad armi
vietate dalle convenzioni internazionali, come le bombe al fosforo bianco,
vietate dalle convenzioni internazionali perché provocano tremende ustioni e,
in chi sopravvive, gravi patologie.
Se
i bambini ebrei bruciati da Hamas destano il nostro orrore, non meno ne provoca
il pensiero che ce ne siano tanti palestinesi che stanno subendo in questi
giorni la stessa sorte. Una tragica simmetria di mostruosità, che però,
assurdamente, non trova riscontro nelle valutazioni dell’opinione pubblica
occidentale, giustamente scossa dalla prima, stranamente insensibile alla
seconda.
L’importanza
della memoria
Ma
i drammatici eventi di questi giorni vanno compresi alla luce di una storia,
che non può certo essere invocata per attenuare l’assoluta condanna delle
atrocità commesse da Hamas, anche se aiuta a capire la loro origine.
Una
storia che comincia nel 1947, quando una risoluzione dell’Assemblea generale
delle Nazioni Unite stabilì la costituzione e la convivenza di uno Stato
ebraico e di uno palestinese. Gerusalemme sarebbe stata invece una zona
internazionale.
Anche
se né palestinesi né israeliani hanno mai accettato questa spartizione, i primi
perché si sentivano derubati di una terra che per quasi duemila anni avevano
abitato e da cui ora erano cacciati, i secondi perché vedevano in essa la
possibilità di un ritorno alle loro origini e la volevano tutta.
In
realtà, più di settantacinque anni dopo, quella risoluzione resta disattesa. Lo
Stato palestinese non è mai nato e i territori che avrebbero dovuto essere
suoi, secondo la risoluzione dell’ONU, sono illegalmente occupati da Israele,
tranne la striscia di Gaza e parte della Cisgiordania, che però non hanno
neppure una continuità territoriale. Quanto a Gerusalemme, essa è stata
proclamata da Israele, nel 1980, capitale di Israele.
Per
di più, nei territori che ancora restano ai palestinesi e che sono sotto il suo
controllo, il governo israeliano, in questi anni ha moltiplicato i nuovi
insediamenti di coloni, violando ulteriormente la risoluzione dell’ONU.
Dal
2002, poi, il governo israeliano, con una decisione condannata dalla Corte di
Giustizia e dall’Unione Europea, eretto in Cisgiordania un muro fortificato di
più di 300 km che separa i più importanti territori palestinesi della
Cisgiordania da Israele, separando le famiglie e le comunità che abitano e
lavorano da una parte e dall’altra del muro.
Le
Nazioni Unite hanno esplicitamente dichiarato illegali, in più occasioni,
queste evidenti prevaricazioni, senza che però né Israele, né i suoi alleati –
primi fra tutti gli Stati Uniti – ne tenessero alcun conto.
Ultimamente,
poi, il presidente Netanyahu – alle prese con pesanti accuse di corruzione e
bisognoso, per sfuggire al processo, di rafforzare il consenso della destra
estrema, ne ha avallati altri, andando questa volta contro il parere anche del
presidente Biden, che vanamente ha cercato di dissuaderlo. Poi il diluvio. Che
però, come dovrebbe essere chiaro, non è venuto “a ciel sereno”.
Per
combattere i mostri
«Il
sonno della ragione genera mostri», ha scritto Goya. Dall’una e dall’altra
parte, in questo spietato conflitto ne sono stati scatenati parecchi, con costi
umani spaventosi. Non si risolve il problema cancellando la memoria e riducendo
tutto, come si cerca di fare, a un fenomeno di “terrorismo”.
Hamas
non è l’Isis, perché ha dietro di sé un
popolo i cui diritti sono stati riconosciuti dall’ONU e sistematicamente
calpestati.
A
sua volta, non si può pretendere di partire, come fa Hamas, dalla premessa che Israele
non ha il diritto di esistere. Solo un reciproco riconoscimento – che a Oslo,
per un momento sembrava essere stato realizzato – può costituire una vera
soluzione.
Bisogna
rafforzare, sia da parte israeliana che da parte palestinese, le frange – che
pure esistono – delle persone ragionevoli, in grado di riaprire il dialogo.
Ogni giustificazione di comportamenti disumani, da una parte e dall’altra, è un
favore fatto alla festa dei mostri.
*Scrittore
ed Editorialista. Responsabile del sito della Pastorale della Cultura
dell'Arcidiocesi di Palermo, www.tuttavia.eu
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