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venerdì 12 settembre 2025

UN GENOCIDIO ?!

 

Finalmente qualcuno dice la verità, ma il qualcuno non è uno qualunque: «Riconosco un genocidio quando lo vedo». Con queste parole, Omer Bartov – professore di Studi sull’Olocausto e sul genocidio alla Brown University – ha rotto un silenzio che per mesi ha tenuto in ostaggio gran parte della comunità accademica, culturale e istituzionale dell’Occidente.

- di FEDERICO LIBERTI (Da “Compagno è il mondo”)

Lo ha fatto con un lungo saggio sul New York Times, pubblicato il 14 luglio 2025, che segna un punto di svolta nella ricezione pubblica del massacro in corso a Gaza. Perché Bartov, israeliano di nascita, già ufficiale dell’IDF, sionista nella formazione familiare, non è solo un esperto autorevole: è il testimone di una frattura epistemologica e morale. Scrive: «Essendo cresciuto in una casa sionista, ho vissuto la prima metà della mia vita in Israele, ho servito nell’IDF come soldato e ufficiale, e ho trascorso gran parte della mia carriera a fare ricerche e scrivere sui crimini di guerra e sull’Olocausto, questa è stata una conclusione dolorosa da raggiungere… Ma io insegno lezioni sul genocidio da un quarto di secolo. Ne riconosco uno quando ne vedo uno».

A differenza di chi brandisce con leggerezza l’accusa di genocidio come arma retorica, Bartov aderisce alla definizione rigorosa fornita dalla Convenzione ONU del 1948: il genocidio si configura laddove vi sia «l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale». Due, dunque, sono i criteri: l’intenzione e la messa in atto. Entrambi, nel caso israeliano, risultano documentati.

«Tale intento», scrive Bartov, «è stato espresso pubblicamente da numerosi funzionari e leader. Ma l’intento può anche derivare da uno schema di operazioni sul campo, e questo schema è diventato chiaro a maggio 2024 e da allora è diventato sempre più chiaro poiché l’IDF ha sistematicamente distrutto la Striscia di Gaza».

La strategia della distruzione totale

Secondo i dati raccolti, oltre il 70 per cento delle strutture di Gaza è stato distrutto o danneggiato. La stima dei morti supera i 58.000, di cui almeno 17.000 bambini. Oltre 2.000 famiglie sono state completamente cancellate. Gaza detiene oggi un primato grottesco:  stato distrutto o danneggiato. Gaza detiene oggi un primato grottesco: quello del più alto numero di bambini amputati per abitante del mondo».

Ma non è solo la distruzione materiale a essere sotto accusa. È il piano che guida la demolizione. Dopo la rottura del cessate il fuoco il 18 marzo, l’IDF ha concentrato la popolazione in tre aree del sud: Gaza City, i campi profughi centrali e la zona costiera di Mawasi. L’obiettivo, sostiene Bartov, è «rendere inabitabile la Striscia di Gaza per la popolazione palestinese, costringerla a fuggire o, non avendo dove andare, annientarne la capacità di esistenza collettiva».

È una definizione che non lascia ambiguità: «L’IDF è impegnata principalmente in un’operazione di demolizione e pulizia etnica». Un tentativo deliberato di spostamento forzato di popolazione, bombardamenti ripetuti di zone dichiarate “sicure”, fame come strumento di controllo, e infine la costruzione, parole del ministro della Difesa Israel Katz, di una “città umanitaria” sulle macerie di Rafah per 600.000 persone, a cui non sarà permesso di andarsene.

Bartov lo dice con chiarezza: «Quando un gruppo etnico non ha nessun posto dove andare e viene costantemente spostato da una cosiddetta zona sicura all’altra, bombardato e affamato senza sosta, la pulizia etnica può trasformarsi in genocidio. Questo è avvenuto in diversi genocidi del XX secolo, dagli Herero in Namibia agli armeni nella Prima Guerra Mondiale, fino all’Olocausto».

Il collasso della memoria dell’Olocausto

Ma il cuore del saggio di Bartov, e la sua gravità filosofica, stanno in una riflessione devastante sul fallimento della cultura della memoria. Le istituzioni nate per commemorare la Shoah, scrive, «sono rimaste in silenzio. Nessuna ha lanciato un avvertimento che Israele potrebbe essere accusato di crimini contro l’umanità, pulizia etnica o genocidio. Questo silenzio ha fatto beffe dello slogan ‘Mai più’».

Così, il riferimento all’Olocausto si è trasformato da monito universale a giustificazione etnica. Il genocidio diventa irrilevante se perpetrato in nome della propria sopravvivenza. La memoria si piega a ideologia: «Il rischio, conclude Bartov, è che dopo Gaza non sarà più possibile insegnare e studiare l’Olocausto come si faceva prima».

Bartov è impietoso: «Quando coloro che hanno dedicato la loro vita a insegnare l’Olocausto rifiutano di denunciare la disumanità ovunque essa si manifesti, essi minano tutto ciò per cui la ricerca e la commemorazione dell’Olocausto hanno lottato: la dignità di ogni essere umano, il rispetto del diritto, la necessità di opporsi all’odio».

La faglia tra studiosi dell’Olocausto e studiosi di genocidio

Questa catastrofe ha generato una frattura irreparabile anche all’interno del mondo accademico. Da un lato, una schiera crescente di studiosi di genocidio, tra cui Francesca Albanese, Raz Segal, William Schabas, Melanie O’Brien, che descrivono l’operazione israeliana a Gaza come «genocidio assoluto». Dall’altro, storici della Shoah come Norman Goda e Jeffrey Herf, che denunciano queste affermazioni come «calunnie antisemite».

Scrive Bartov: «Discreditare gli studiosi di genocidio che denunciano Gaza come genocidio mina le basi stesse di questi studi: la necessità permanente di definire, prevenire, punire e ricostruire la storia del genocidio».

Il futuro d’Israele e il tramonto della sua autorità morale

La conclusione è amara. Israele, nato come risposta alla Shoah, sta cancellando con le proprie mani il credito morale faticosamente accumulato nel secolo scorso. «La leadership politica e la cittadinanza israeliana», scrive Bartov, «dovranno decidere se continuare su questa strada disastrosa. Temo che Israele stia trasformandosi in uno stato d’apartheid autoritario pienamente realizzato. E questi stati, la storia lo insegna, non durano».

L’unica possibilità, remota ma salvifica, è che una nuova generazione di israeliani impari a vivere «non più all’ombra dell’Olocausto come giustificazione dell’umanità perduta», ma guardando in faccia la realtà: sette milioni di ebrei e sette milioni di palestinesi condividono la stessa terra. Pace, uguaglianza e dignità sono l’unico esito possibile per un futuro che non sia costruito sul sangue.

In questa prospettiva, conclude Bartov, «Israele dovrà imparare a vivere senza ricorrere all’Olocausto per giustificare l’inhumanitas.

Questo non riparerà il dolore inflitto a Gaza. Ma potrebbe, forse, restituire all’umanità intera un barlume di giustizia».

 www.tuttavia.eu


giovedì 4 settembre 2025

SEGNI PROFETICI IN TEMPI DI GUERRA

 

Al punto in cui siamo, non tratta più di stabilire chi abbia torto e chi abbia ragione. Il problema è che ogni soglia viene superata. Non c’è più distinzione tra combattenti e innocenti, obiettivi militari e popolazioni civili, adulti e bambini. La crudeltà è praticata alla luce del sole, quasi esibita

- di Mauro Magatti 

I tempi sono violenti. Non è solo il numero insopportabile di guerre che insanguinano il mondo. È la sensazione che la sopraffazione sia diventata la regola dei rapporti sociali. La politica parla con il linguaggio delle armi. Le relazioni internazionali si determinano con missili e droni. Mentre un po’ ovunque crescono polarizzazione, rabbia, aggressività. Nella seconda metà del secolo scorso avevamo creduto che il mondo potesse essere governato da istituzioni comuni, dal diritto internazionale, dal fragile equilibrio della diplomazia. Oggi quella speranza sembra svanita. 

 Lo ha di recente messo nero su bianco, senza tanti giri di parole, il politologo russo Aleksandr Barishov, che in una recente intervista ha dichiarato: «Ormai bisogna riconoscere che il diritto internazionale è smantellato: quello che funziona è solo il diritto della forza». Quasi fosse la cosa più naturale del mondo. 

I trattati, le convenzioni, le risoluzioni delle Nazioni Unite, la diplomazia: tutto sembra destinato a impallidire di fronte al discorso crudo della forza. Per decidere non servono più le regole condivise, ma la determinazione di imporre la propria potenza: militare, economica, tecnologica. In barba a tutti i progressi tecnologici e culturali, l’umanità sembra così regredire ad un tempo primitivo. 

Ogni giorno sembra andare peggio. Putin che, mentre discute di pace con Trump, continua a mandare missili sulle città ucraine. Netanyahu che, senza dare ascolto ai tanti appelli, prosegue l’orrenda opera di distruzione di Gaza ridotta a un ammasso di macerie. 

 Al punto in cui siamo, non tratta più di stabilire chi abbia torto e chi abbia ragione. Il problema è che ogni soglia viene superata. Non c’è più distinzione tra combattenti e innocenti, obiettivi militari e popolazioni civili, adulti e bambini. La crudeltà è praticata alla luce del sole, quasi esibita. E a trionfare è il superamento di ogni limite. Tutto sembra permesso. Il codice bellico ormai diventato parte del linguaggio di tutti i giorni. 

Con evidenti effetti di disumanizzazione: il nemico è sempre ridotto a meno-di-uomo. 

In mezzo a tutta questa oscurità, uno squarcio di luce arriva da Gerusalemme. La decisione del patriarca latino, Pierbattista Pizzaballa, e di quello greco ortodosso, Teofilo, di non lasciare Gaza nonostante Israele abbia annunciato di occupare l’intera Striscia introduce un elemento dirompente rispetto alla logica bellica. 

Rifiutando di abbandonare le loro comunità, i due patriarchi lanciano una provocazione profetica: restare là dove la vita è ferita. Non per alimentare lo scontro, ma per custodire una presenza diversa. Restare, quando tutto spinge a fuggire. Restare, quando il calcolo suggerirebbe di proteggersi. 

 Restare, per dire che non tutto è riducibile alla logica delle armi. Si tratta di scelta che ha un grande valore politico e umano perché dice che, al di là di quello che viene ripetuto all’infinito dai tamburi della propaganda, c’è sempre un’altra possibilità. Non siamo condannati a vivere solo sotto la legge della forza. 

Mettersi in mezzo. Non per restare neutrali, per non vedere o non scegliere. Ma per rifiutare di essere catturati dalla spirale violenza-contro-violenza. 

Mettersi in mezzo è affermare che, al di là delle ragioni e dei torti, c’è qualcosa che viene prima. Qualcosa di comune all’umano: la dignità di ogni vita. La possibilità del dialogo e la necessità dell’ascolto richiamate dal potente Appello interreligioso rivolto ieri alle Istituzioni italiane, ai cittadini e ai credenti in Italia «per favorire qualsiasi iniziativa di incontro per arginare l’odio». 

 Questa logica opposta alla violenza non è una fuga dalla realtà. È la sola alternativa realistica al disastro. Perché la forza può vincere una battaglia, ma non costruisce mai la pace. 

Solo il riconoscimento dell’altro, delle sue ragioni, può aprire un futuro diverso. La logica del mettersi in mezzo indica una via concreta. Invece di alimentare odio e aggressività, c’è sempre la possibilità di creare luoghi di incontro, ricostruire la fiducia reciproca, educare a riconoscere che la vita dell’altro vale quanto la nostra. 

Se la violenza ci trascina verso la chiusura, il sospetto, la contrapposizione, la scelta di mettersi in mezzo ci ricorda che esiste ancora un terreno comune. Fragile, certo. Ma reale. Siamo in un tempo di violenza, e sarebbe ingenuo negarlo. Ma proprio per questo, ogni gesto che rompe la logica della forza va valorizzato e moltiplicato. 

La decisione dei due patriarchi ‒ grande segno interconfessionale che dice di quello che i cristiani possono fare insieme ‒ è un atto concreto che dimostra che un altro modo di stare nel conflitto è possibile. 

 Mettersi in mezzo oggi è una sfida urgente. Non per nascondere le differenze, ma per affermare che prima di esse c’è la comune appartenenza all’umano. Solo da qui può ripartire la politica. Solo da qui si può sperare in un futuro che non sia consegnato alla barbarie.

 Avvenire 

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QUALE MEMORIA ?


 UNA PROPOSTA INDECENTE

Il piano di Gaza 

città del futuro?


-       di Marina Corradi

-        Quando sul web era comparsa, mesi fa, Gaza trasfigurata in una Malindi, con resort di cristallo, e statue di Trump in oro, e lo stesso Trump insieme a Netanyahu beati al sole in spiaggia, era sembrato uno scherzo di pessimo gusto.

Invece pare facciano sul serio.

Il Washington Post ha pubblicato parte di un documento riservato di 38 pagine, intitolato GREAT, Gaza Reconstitution, Economic Acceleration and Transformation.

Great, Grande, come tutto ciò che piace a Trump.

Una faccenda da 100 miliardi di dollari.

Gli ideatori farebbero capo alla stessa società che da mesi gestisce la distribuzione degli aiuti a Gaza.

Con i risultati, e il numero di morti, che leggiamo ogni giorno.

Ma il nuovo progetto va audacemente oltre il presente. Immagina una Gaza già sgomberata da due milioni di palestinesi.

E dove dovrebbero andare?

In Paesi del Terzo mondo già disastrati da guerre o fame.

Bella idea.

Quella resa nota dal Washington Post e, pare, già presa in considerazione da Trump, è però ancora migliore.

Una città del futuro, un ibrido fra la City di Londra e i palazzi di Dubai.

Una città naturalmente “intelligente”, irta di grattacieli obliqui, storti, o puntuti di guglie – insomma, design da archistar.

E metropolitane, e hotel a sette stelle, e un’isola artificiale, e un porto – per gli yacht naturalmente – e, dietro la spiaggia candida, tanto verde.

Perché è molto green, Gaza Beach.

E certo tutto funzionerà a energia solare, pulita, pulitissima.

Insomma, tutto “sostenibile” - qualsiasi cosa voglia dire questa parola ormai infinitamente ripetuta, come un mantra.

La cosa insostenibile di Great, è il passo prima: la deportazione di massa degli abitanti di Gaza, incentivati con una buonuscita di 5.000 dollari a testa e una manciata di altri “benefit”.

Difficile dire se l’idea è più indecente, o assurda.

Assurda certo, quella cittadella di ori installata con la forza su una terra di guerra e carestia.

Ma, più ancora, Great è una proposta indecente.

Umanamente indecente: le ruspe che andassero a scavare le fondamenta dei grattacieli affonderebbero le benne in una terra piena di morti, cadaveri ancora abbracciati nelle macerie delle case.

Una città eretta sui morti insepolti: quasi una sfida alla pietà.

O forse, nemmeno questo: semplicemente, indifferenza.

Gaza è distrutta al 90 per cento, quindi il grosso del lavoro è già fatto.

Nel progetto si dice di volersi ispirare alla Parigi di Hausmann, cioè la Parigi dei grandi boulevard. Per costruire quei sontuosi viali vennero spianati interi quartieri.

A Gaza, invece, ridotta a una tavola di rovine, questo è già stato fatto.

Già si potrebbero aprire i cantieri.

Non lo faranno, è impossibile lo facciano davvero, ti dici.

Eppure che se ne parli, e quei disegni di palazzi, viali, e i preventivi, sono qualcosa che turba.

La guerra è guerra, e da sempre feroce e spregiante la vita.

Ma tirar su una città non è guerra. Questa città però reca in sé il marchio di una guerra estrema: vorrebbe installarsi sui dimenticati insepolti, sul vuoto lasciato da un popolo cacciato.

Torri di cristalli e marmi, come un tempio a un dio pagano: il dio dei soldi.

Nell’assoluta indifferenza.

C’erano uomini qui, e bambini?

Non importa.

Negli ascensori silenziosi e velocissimi verso i roof garden, all’ora dell’aperitivo, non verrebbe in mente agli abitanti di Great.

Con quel tramonto sul mare davanti agli occhi, poi.

Mojito e Campari, il tinnio del ghiaccio nei bicchieri, i sorrisi delle signore.

La vita perfetta, sopra alla morte.

Io non ci credo, che lo faranno veramente.

Ma forse noi uomini e donne del Novecento fatichiamo ad aggiornarci.

I lager almeno sono rimasti uguali, e ci mandiamo le scolaresche, per non dimenticare.

Dopo la ferocia, almeno la memoria.

Il Terzo Millennio invece sembra davvero un Mondo Nuovo, straniato e straniero, come lo immaginava Huxley.

Si progettano skyline di archistar sul luogo di una carneficina, spensieratamente.

La memoria? Di cosa?

Ha un prezzo la memoria? Allora, non serve.

 www.avvenire.it

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mercoledì 27 agosto 2025

DIO A GAZA ?

 


ANCHE A GAZA 

ESISTE UN DIO 

E CHI CREDE 

NON PUÒ TACERE

 Nei giorni scorsi, suor Giovanna della Piccola famiglia dell’Annunziata in Giordania ha ribadito: “Non può mai esserci neutralità davanti a un genocidio”

 

-       di Tomaso Montanari 

 

Mi sono chiesto a lungo perché papa Francesco ogni giorno chiamasse Gaza. Certo: per essere lì, per confortare, per condividere la prova, per portare nel modo più visibile la presenza della Chiesa. Ma nel vecchio papa che, in punto di morte, parla ogni giorno con questo enorme campo di sterminio dove è in corso un genocidio – un genocidio perpetrato anche dagli stati occidentali che si dicono cristiani, anche dall’Italia – c’è qualcosa di più. E io credo che fosse questo: Francesco sentiva che Dio è a Gaza.

Non solo nella parrocchia di Gaza: in tutto quel popolo. Mentre l’Occidente ricco e potente attraversa una lunga notte di Dio, mentre Dio sembra non farsi trovare nemmeno nelle nostre chiese, a Gaza con ogni evidenza Dio c’è. Nella passione e morte di Gaza, c’è il Dio dei vivi. Il Dio giusto giudice. Il principe della pace. Le parole di Giovanna, monaca della Piccola famiglia dell’Annunziata del Monastero di Ma’ in, in Giordania, risuonano in questa direzione: “Mi addolora profondamente vedere una Chiesa quasi silente.

Neutralita’?

…Ma non può esserci neutralità davanti a un genocidio. O si è complici, o si sceglie la verità. E oggi, la verità urla dalle macerie di Gaza. Decine di migliaia di morti, bambini mutilati nel corpo e nell’anima, ospedali distrutti, famiglie cancellate. Tutto questo accade nel silenzio – o nella complicità – di molti poteri, anche religiosi. Non basta più dirsi ‘in preghiera’. Non basta condannare ‘la violenza in generale’. Dove siamo noi, mentre un popolo viene annientato? Dove sono le nostre comunità, le nostre diocesi? Dove sono le parole profetiche? Dove sono i gesti concreti? … E ancora vi ripropongo quello che da mesi mi sembra l’unico gesto possibile: radunare un centinaio tra religiose e religiosi, e andare a Roma, davanti al Quirinale, a pregare giorno e notte, a leggere i Salmi e il Vangelo. A chiedere con la forza mite della preghiera che il governo italiano interrompa ogni vendita di armi ad Israele, che si rompano i legami economici con chi porta avanti un’opera di annientamento. E poi, andiamo anche in piazza San Pietro, con cartelli semplici, diretti, che chiedano al Papa di muoversi: – di andare a Gaza;
- di condannare pubblicamente Israele;
- di lanciare appelli incessanti perché i Paesi occidentali si mobilitino per fermare il genocidio”. Sono parole che hanno due chiavi di lettura. Quella, urgente, di una mobilitazione piena della Chiesa nel mondo. Una mobilitazione che non c’è. Ma ne hanno anche un’altra, per così dire anagogica. Una chiave che porta in altro lo sguardo. Il senso spirituale di queste parole è: dobbiamo convertirci. Lo sguardo verso Gaza è uno sguardo di conversione. Uno sguardo di metanoia: di capovolgimento totale delle nostre convinzioni profonde, delle nostre priorità, del nostro modo di sentire e vedere. Gaza è il margine, la pietra scartata dal costruttore, la pietra d’inciampo. Cristo è a Gaza.

  Convertirsi

Scrive Gustavo Gutiérrez in Teologia della liberazione: “Convertirsi è sapere ed esperimentare che, contrariamente alle leggi della fisica, si sta in piedi, secondo l’evangelo, solo quando il nostro baricentro cade fuori di noi”. Ecco, il nostro baricentro non è a Roma: è a Gaza. Ecco perché papa Francesco, guidato dallo Spirito di profezia, chiamava Gaza; voleva andare a Gaza; non essere separato da Gaza.

Trovare Dio ad Auschwitz sembrò impossibile. Eppure, c’era. Fare teologia ad Ayacucho (dove la povertà assoluta è solo morte), pareva impossibile. Eppure, si è fatta. Oggi, una Chiesa che voglia riuscire ad annunciare la speranza a un mondo disperato, deve farlo da Gaza. Il teologo della speranza, il protestante Jürgen Moltmann, ha scritto che “se Paolo chiama la morte ‘l’ultimo nemico’, bisogna d’altra parte proclamare che il Cristo risorto, e con lui la speranza della risurrezione, sono i nemici della morte e di un mondo che vi si adatta. Pace con Dio significa discordia con il mondo, poiché il pungolo del futuro promesso incide inesorabilmente nella carne di ogni incompiuta realtà presente… Questa speranza fa della comunità cristiana un elemento di perenne disturbo nelle comunità umane. Essa fa della comunità la fonte di impulsi sempre rinnovati tendenti a realizzare il diritto, la libertà e l’umanità quaggiù, alla luce del futuro che è stato annunciato e che deve venire”. Non parlare di Gaza, in tempo opportuno e in tempo non opportuno (per usare le parole di Paolo); non essere a Gaza continuamente con il cuore; non desiderare andare a Gaza: questo significa peccare contro la speranza, cioè adattarsi al mondo com’è. Se abbiamo speranza, allora dobbiamo predicare che il Risorto è nemico del genocidio di Gaza: è irriducibile a questo scandalo di una morte violenta inflitta dai potenti sugli inermi, di questa strage di massa, di questo satanico trionfo del male. “Non è tanto il peccato che ci conduce alla perdizione – diceva Giovanni Crisostomo – quanto piuttosto la mancanza di speranza”. 

Ecco perché Francesco chiamava Gaza, ogni giorno.

 Il Fatto

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venerdì 15 agosto 2025

IL SANGUE DEGLI INNOCENTI


Pizzaballa: 

il sangue di ogni innocente 

a Gaza 

e nel mondo

 non è dimenticato


Il Patriarca di Gerusalemme dei Latini celebra la Messa dell'Assunzione nel monastero benedettino di Abu Gosh. Rileggendo il brano dell'Apocalisse, ammette che “questi mesi carichi di dolore” non consentono discorsi sulla pace "edulcorati e astratti, e perciò non credibili". Con realismo invita a considerare che il potere di Satana sarà sempre all'opera; compito del cristiano è continuare a seminare vita, a restare sotto il manto protettivo di Dio, affinché il "drago" non abbia l'ultima parola.

 -Antonella Palermo - Città del Vaticano

 Il dolore di questo tempo, osserva il cardinale Pierbattista Pizzaballa, "non ci permette di fare discorsi sulla pace edulcorati e astratti, e perciò non credibili, né di limitarci alle ennesime analisi o denunce. Piuttosto - insiste -, si tratta di stare da credenti dentro questo dramma, che non è destinato a finire così presto". Nell'omelia della Messa celebrata dal patriarca di Gerusalemme dei Latini nella abbazia benedettina di Abu Gosh, nella Solennità dell'Assunzione, una meditazione sul testo dell'Apocalisse, brano che, dice, ha accompagnato la comunità dei cristiani ed è stato all’origine delle riflessioni più volte, "in questi mesi carichi di dolore". 

Consapevoli che il male continuerà a operare nel mondo

Pizzaballa condivide con realismo ciò che si evince per l'oggi dalla lettura del testo; in particolare si sofferma sul potere di Satana, raffigurato come il drago, Satana, che "non cesserà mai di affermarsi e accanirsi sul mondo, in modo particolare 'contro quelli che custodiscono i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù'. Noi tutti vorremmo che il male fosse sconfitto quanto prima - ammette -, che scomparisse dalla nostra vita", ma non è così. "Lo sappiamo, ma dobbiamo sempre di nuovo imparare a convivere con la dolorosa consapevolezza che il potere del male continuerà ad essere presente nella vita del mondo e nella nostra. Noi non potremo con le nostre sole forze umane sconfiggere il potere enorme di quel drago. È un mistero, per quanto duro e difficile, che appartiene alla nostra realtà terrena. Non è rassegnazione. Al contrario - precisa -, è presa di coscienza delle dinamiche della vita del mondo, senza fughe di alcun genere, ma anche senza paura, senza condividerle ma anche senza nasconderle".

In Terra Santa sembra ci sia la più alta manifestazione di Satana

Tuttavia, sottolinea ancora il cardinale alla luce della Solennità odierna, "sul seme di vita, frutto di amore, il drago non può prevalere". Ed evidenzia che nella Bibbia il deserto non è luogo di assenza, ma luogo in cui Dio provvede. "Nella nostra esperienza attuale, così dura e difficile, Dio continua a provvedere a noi, avvertendoci innanzitutto della forza del male, del potere mondano che in questa Terra e in questo tempo sembrano davvero prevalere", prosegue. È molto chiaro Pizzaballa quando afferma che "non dobbiamo farci illusioni". La fine della guerra, avverte, non segnerebbe comunque la fine delle ostilità e del dolore che esse causeranno. "Dal cuore di molti continuerà ancora ad uscire desiderio di vendetta e di ira. Il male che sembra governare il cuore di molti, non cesserà la sua attività, ma sarà sempre all’opera, direi anche creativo. Per molto tempo ancora avremo a che fare con le conseguenze causate da questa guerra sulla vita delle persone. Sembra proprio che questa nostra Terra Santa, che custodisce la più alta rivelazione e manifestazione di Dio, sia anche il luogo della più alta manifestazione del potere di Satana. E forse proprio per questo, perché è il Luogo che custodisce il cuore della storia della salvezza, che è diventato anche il luogo nel quale 'l’Antico Avversario' cerca di imporsi più che altrove".

Pochi, mai allineati, "fastidiosi", saremo il rifugio di Dio

Di fronte a un contesto di morte e distruzione, il patriarca incoraggia ad avere fiducia, a confermare l'alleanza con chi desiderare e semina il bene, e "creare con essi contesti di guarigione e di vita". Amaramente consapevole che il male continuerà ad esprimersi, Pizzaballa invita a essere luogo di vita, così che il 'drago' non avrà l'ultima parola. "Non saremo dunque il centro della vita del mondo. Non seguiremo la logica che accompagna buona parte della vita dei potenti. Saremo probabilmente pochi, ma sempre diversi, mai allineati, e forse per questo diventeremo anche fastidiosi. Saremo comunque il luogo dove Dio provvede, un rifugio custodito da Dio. Meglio ancora, siamo chiamati a diventare noi rifugio per quanti vogliano custodire il seme di vita, in tutte le sue forme".

Il sangue degli innocenti non è dimenticato

Proseguendo ancora conl a metafora biblica, il cardinale è convinto che prima o poi il drago cederà, ma che ora bisogna sopportare, che il sangue degli innocenti, non solo in Terra Santa, a Gaza come in qualsiasi altra parte del mondo, "non è dimenticato". Il sangue "non è buttato via in qualche angolo della storia", scorre sotto l’altare, "mischiato al sangue dell’Agnello, partecipe anch’esso dell’opera di redenzione al quale siamo associati. Lì noi dobbiamo stare. È quello il nostro luogo, il nostro rifugio nel deserto". La vita cristiana, capovolge i criteri del mondo, conclude il cardinale Pizzaballa ricordando anche la testimonianza di santa Francesca Romana, ostacolata da Satana nel suo desiderio di vivere per Dio ma che, alla fine, ha compiuto l’opera di Dio. Il modo di operare di Dio è proprio questo con chiunque: entra e rovescia. 

Guardare dunque al mistero dell’assunzione di Maria Vergine, alla cui intercessione Pizzaballa infine affida tutti, come anticipo della redenzione eterna.

 Vatican News

 

LA TERRA DIMENTICATA

 


La terra dimenticata che smentisce Israele


- di  Giuseppe Savagnone 


Gli insediamenti illegali in Cisgiordania

Non ha sorpreso l’annuncio del ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich, che è anche responsabile della gestione civile in Cisgiordania, di aver approvato un nuovo piano di insediamento che prevede la costruzione di 3.400 unità abitative per i coloni.

La sua realizzazione, ha spiegato con soddisfazione Smotrich, dividerà in due il territorio originariamente destinato, secondo la risoluzione dell’ONU del 1947, ad una entità politica parallela a quella ebraica, e così «seppellirà l’idea di uno Stato palestinese», proprio mentre ormai un numero crescente di paesi occidentali  dichiara di avere intenzione finalmente, di riconoscerlo. È chiaro che la mossa dl governo di Tel Aviv è una risposta a queste prese di posizione.

Del resto, già il 29 maggio Israele aveva varato la creazione di ventidue nuovi insediamenti ebraici in quelli che anticamente erano la Giudea e la Samaria – oggi Cisgiordania – , con una decisione che lo stesso Smotrich aveva definito «storica».

Ma anche subito prima e subito dopo il 7 ottobre, altri insediamenti erano stati creati, a spese degli abitanti arabi del territorio, cacciati dalle loro case. La più frequente delle strategie utilizzate dalle istituzioni israeliane per occupare questi terreni, facendo evacuare i villaggi e spianando le case con i bulldozer, è la loro trasformazione in aree di addestramento per l’esercito israeliano.

Il documentario No Other Land, premio Oscar del 2025 –  i cui registi sono un arabo e un israeliano – narra il caso di Masafer Yatta, un gruppo di villaggi nel sud della Cisgiordania a cui è stata riservata questa sorte.

Infine, in Cisgiordania, i coloni e le autorità israeliane utilizzano anche il controllo dell’acqua come un’arma. Oggi, Israele controlla circa l’80% delle riserve idriche della regione e l’estrazione di acqua da qualsiasi nuova fonte richiede i permessi del governo israeliano, quasi impossibili da ottenere.

La compente religiosa

Questo processo, con fasi alterne, dura dal 1967, a partire dalla strepitosa vittoria israeliana nella guerra dei Sei giorni. Una storica ebrea, Anna Foa, nel suo recente libro «Il suicidio di Israele», scrive che da questo momento «il sionismo subiva una vera e propria metamorfosi e si diffondeva un diverso tipo di israeliano, un sionista religioso aggressivo e ispirato da Dio a colonizzare tutta la terra di Israele. 

Sebbene al governo fossero i laburisti, a partire dal 1967 iniziava nella West Bank occupata il fenomeno degli insediamenti da parte dei gruppi estremisti messianici». 

Significativo che due anni dopo, nel 2018, sia stata introdotta la Legge Fondamentale su Israele Stato-Nazione del popolo ebraico, di cui un paragrafo recita: «Lo Stato considera lo sviluppo dell’insediamento ebraico come un valore nazionale, e agirà per incoraggiare e promuovere il suo sviluppo e consolidamento». 

Ed è nella logica del sionismo messianico che queste operazioni di conquista sono state e continuano ad essere compiute. Alla radice remota ci sono le parole di Ben Gurion, venerato in Israele come il “padre della patria”, il quale, contestando il concetto stesso di “Mandato britannico per la Palestina”, istituito dopo la Prima guerra mondiale, aveva dichiarato: «A nome degli ebrei, dico che la Bibbia è il nostro Mandato, la Bibbia che è stata scritta da noi, nella nostra lingua, in ebraico, proprio in questo Paese. Questo è il nostro Mandato. Il nostro diritto è antico quanto il popolo ebraico».

Ben Gurion non era un ebreo religioso, ma la Bibbia era il suo punto di riferimento e in particolare considerava il libro di Giosuè il modello storico per la conquista della Terra da parte del popolo ebraico, allora come adesso. Egli, scrive Anna Foa, era un «laico convinto», ed era persuaso che la religione si sarebbe presto estinta. 

«In realtà è successo il contrario. I sionisti religiosi, fanatici della grande Israele data da Dio al popolo ebraico, si sono moltiplicati grazie al gran numero di figli, così come si sono moltiplicati gli ultra-ortodossi».

Non a caso, in queste occupazioni, si registrano come un dato costante le violenze di coloni fanatici che si lanciano contro i residenti accusando loro, che ci vivono da secoli, gli occupanti abusivi, rivendicando la loro proprietà della “terra promessa” data da Dio ai loro avi.

L’attività di occupazione israeliana è stata più volte condannata come illegale e contraria al diritto internazionale dalle Nazioni Unite, ma né il governo di Tel Aviv né i paesi occidentali hanno mai appoggiato queste denunzie, anzi il 18 novembre il segretario di stato nel primo governo Trump, Mike Pompeo, ha dichiarato che gli insediamenti israeliani in Cisgiordania non violano il diritto internazionale.

La Cisgiordania non è Gaza

Le vicende della Cisgiordania (o West Bank, come anche viene comunemente chiamata) solo ora stanno cominciando a venire in piena luce. Finora tutta l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale si è concentrata sulla guerra nella Striscia di Gaza e sulla reazione di Israele all’attacco del 7 ottobre.

Il punto è che con Hamas e con quell’attacco i palestinesi della Cisgiordania non hanno nulla a che fare, perché il territorio sarebbe se mai sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese, gestita dall’OLP, in rottura radicale con Hamas – tra le due organizzazioni c’è stata addirittura uno scontro armato – e che, a differenza di Hamas, ha da tempo riconosciuto lo Stato ebraico.

Molti, pur perplessi di fronte alla reazione israeliana al 7 ottobre, si sono chiesti che cosa avrebbe potuto fare di diverso il governo di Tel Aviv. A dare una valutazione critiche risponde a questa domanda è Anna Foa, che racconta: «Invece di tirare dalla sua parte i palestinesi della West Bank e di prospettare la creazione dello Stato, mossa che avrebbe potuto dividerli da Hamas, il governo appoggiava le aggressioni contro i palestinesi (…) nei territori dell’autorità Palestinese».

In realtà, spiega la Foa, a Israele non interessava affatto rafforzare il suo rapporto con quella parte del popolo palestinese a cui non poteva rimproverare di volerlo distruggere e che quindi avrebbe avuto le carte in regola per formare uno Stato palestinese. Paradossalmente, il suo fine era lo stesso di quello di Hamas: «sabotare la soluzione dei due Stati».

È in questa logica che lo Stato ebraico ha sempre cercato di impedire la sostituzione, al vertice dell’Autorità Palestinese, del vecchissimo e corrotto Abu Mazen, tenendo in carcere – anzi gli ultimi due anni in isolamento – Marwan Barghouti, un leader della lotta per l’indipendenza della Palestina che non fa parte di Hamas ed èmolto popolare tra i palestinesi, al punto da essere da molti considerato un potenziale successore di Abu Mazen.

I palestinesi chiedono da tempo la sua liberazione, ma Israele si è sempre opposta e, proprio in questi giorni, ha fatto circolare un video dove viene contestato e deriso, nella sua cella, da Ben Gwir, che insieme a Smotrich rappresenta l’ala estremista del governo di Netanyahu.

La moglie di Barghouti, Fadwa, che guida una campagna internazionale per ottenere è il suo rilascio, ha dichiarato di non riuscire a riconoscere il marito nel video. «Forse una parte di me non vuole ammettere tutto ciò che il tuo viso e il tuo corpo esprimono, e ciò che tu e gli altri prigionieri state sopportando» ha detto.  Drammatico parallelismo con quello che dicono i parenti degli ostaggi di Hamas davanti ai video dei loro cari.

La smentita di una narrazione

Tutto questo getta un’ombra pesante sulla narrazione del governo israeliano, accettata e difesa da tutti suoi sostenitori, dopo il 7 ottobre, per giustificare la sua politica verso i palestinesi.

Le occupazioni e le violenze dei coloni, sostenuti dall’esercito, non possono essere in alcun modo giustificate con il mantra «Israele ha il diritto di difendersi», che ha a lungo coperto i massacri di civili nella Striscia. Neppure ha posto il motivo della vendetta. Nella West Bank non ci sono terroristi, responsabili della strage di ebrei,  che  si fanno scudo dei civili e, se questi vengono aggrediti e uccisi, non è certo per  difendersi o vendicarsi. È per cacciarli o distruggerli e prendersi la loro terra.

È guardando ai palestinesi della Cisgiordania che trova una irrefutabile conferma l’accusa di un genocidio, sia pure finalizzato alla pulizia etnica, rivolta sempre più frequentemente ad Israele a proposito della guerra di Gaza.

Siamo davanti a un evidente progetto di sostituzione etnica che non riguarda in alcun modo la sopravvivenza di Israele, ma minaccia piuttosto quella degli altri.

Appaiono del tutto unilaterali e fuorvianti, in questo quadro, gli inviti di Noemi Di Segni presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, che, nel gennaio 2024 – mentre già erano evidenti sia la spietatezza dell’offensiva nella Striscia sia la politica di conquista nella Cisgiordania – chiedeva accoratamente di «far cessare gli appelli umanitari diretti unicamente verso Israele, un paese che agisce secondo morale e non si è sottratto alle norme internazionali», bollando le critiche nei suoi confronti come un chiaro rigurgito di «antisemitismo», frutto «dell’ignoranza e dell’ottusità dilagante».

Come appaiono inaccettabili i silenzi e la complicità dei governi “democratici”, che hanno per anni assistito, senza battere ciglio, a questa progressiva realizzazione di un progetto ispirato ad un sionismo messianico e fanatico, e che tutt’ora esitano nel sospendere il loro appoggio politico e militare ad Israele.

Il rischio è che, a causa di questa colpevole inerzia, il progetto che sale a Ben Gurion sia ormai troppo avanti per essere fermato e che, con l’azione congiunta a Gaza e nella West Bank, si realizzi davvero, sulla pelle dei palestinesi, il Grande Israele, che, a questo punto nessuno potrà più essere rimesso in questione.

Anna Foa, racconta di un filosofo ebreo, Yeshayahu Leibowitz, detto «la coscienza di Israele» e vincitore nel 1993 del prestigioso Premio Israele, da lui rifiutato, il quale «negava ogni diritto divino degli ebrei alla terra di Israele e sosteneva che l’occupazione avrebbe avvelenato l’animo degli israeliani trasformandoli in “giudeo-nazisti”». Forse siamo assistendo, grazie ai nostri governi, alla nascita del primo Stato democratico-giudeo-nazista della storia.

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venerdì 8 agosto 2025

GAZA BRUCIA


 NEL FRATTEMPO

 GAZA BRUCIA

 

Il dibattito

 sullo Stato di Palestina

 

-di GIOVANNI SCARAFILE

 Il recente annuncio, da parte del governo canadese, dell’intenzione di riconoscere ufficialmente lo Stato di Palestina alla prossima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, si inserisce in una sequenza di dichiarazioni analoghe già pronunciate da Francia, Regno Unito, Spagna e Norvegia, a loro volta seguite da formule simili da parte di Australia e Nuova Zelanda. A questo elenco, in continua espansione, si sono già unite anche Irlanda e Slovenia, mentre la Germania, pur ribadendo la necessità che il riconoscimento giunga al termine di negoziati per una soluzione a due Stati, ha sottolineato che quel processo deve cominciare ora, assumendo così una posizione più aperta rispetto al passato.

Ma se si guarda con attenzione al contenuto effettivo di questi riconoscimenti, si scopre che il tempo verbale più adeguato a descriverli non è né il presente né il passato, bensì un futuro ipotetico, condizionato, differito.

Riconosceremo, sì, ma quando saranno stati compiuti alcuni passaggi istituzionali, quando si sarà fatto ordine tra le forze in campo, quando le condizioni saranno favorevoli, quando — infine — si potrà raccontare questa scelta come il frutto maturo di una storia che oggi appare ancora troppo confusa.

Nel frattempo, Gaza continua a bruciare. I corpi estratti dalle macerie si accumulano nei dati ufficiali, che al 30 luglio 2025 superano le sessantamila vittime, mentre l’Unrwa denuncia una carestia effettivamente in corso e blocchi sistematici degli aiuti umanitari da parte israeliana. Si tratta di fatti, non opinioni.

Eppure, proprio la forza innegabile di questi eventi sembra costringere molte istituzioni occidentali a uno slittamento semantico e temporale: non si nega ciò che accade, ma lo si sottopone a un rinvio sistematico di giudizio, come se il tempo, da solo, potesse metabolizzare il disordine, separare i colpevoli dalle vittime, semplificare le responsabilità fino a renderle presentabili.

Nel frattempo, Gaza continua a bruciare.

In questo clima, si fa strada una retorica assai familiare: “la storia ci giudicherà”. Lo si è letto nei comunicati delle organizzazioni internazionali, lo si è sentito pronunciare da leader democratici, e lo si è visto perfino su cartelli sollevati da studenti durante le manifestazioni universitarie. È la stessa espressione che Laurean Michele Jackson, in un lucido articolo pubblicato sul New Yorker, ha definito come la formula retorica del futuro anteriore: un appello al giudizio retrospettivo di una coscienza collettiva non ancora formata, che dovrebbe garantire — per il solo fatto di essere collocata in avanti, nel tempo — una maggiore imparzialità, una capacità di visione più alta, più giusta, forse perfino più umana.

Ma che cosa accade quando questa attesa della storia diventa l’alibi perfetto per la procrastinazione morale? Che cosa si produce, in termini antropologici, quando un’intera cultura democratica rinuncia al presente in nome della promessa che un giorno, col senno di poi, si sarà stati dalla parte giusta? La risposta, tutt’altro che rassicurante, è che ci si sottrae all’urgenza dell’azione; si trasforma il dovere in previsione, la responsabilità in narrazione futura, l’etica in forma retorica.

Nel frattempo, Gaza continua a bruciare.

Dietro l’apparente solennità dell’invocazione storica si nasconde, spesso, l’incapacità di sopportare l’asimmetria che ogni atto morale autentico comporta. Perché decidere oggi, con le informazioni che abbiamo e nella confusione che ci circonda, significa esporsi. Significa prendere posizione prima che sia possibile calcolarne le conseguenze. E questa esposizione, per chi detiene il potere simbolico e politico, è insopportabile. È preferibile, allora, restare in attesa di un tempo che, da solo, sistemerà tutto: i torti, le parole, i silenzi.

Ma il tempo, da solo, non salva nessuno.

Non è di una via d’uscita che abbiamo bisogno, ma del recupero di ciò che dovrebbe precedere ogni decisione: un’etica che non si accontenti di commentare il reale, ma sappia orientarlo. L’etica dell’immediatezza non è un’alternativa tra le altre, ma ciò che da troppo tempo abbiamo disattivato, relegandola a una funzione ornamentale, subordinata agli interessi o alle strategie. Eppure, se tornasse a essere una direttrice delle nostre azioni – principio generativo, non appendice – allora la politica, la diplomazia e il linguaggio stesso potrebbero riconnettersi al reale. Martin Luther King, nella Lettera da una prigione di Birmingham, scriveva che vi è una “strana e irrazionale convinzione che vi sia qualcosa, nel semplice fluire del tempo, che inevitabilmente guarirà tutti i mali”: ma non c’è nulla nel tempo che redima, se chi può agire decide di attendere. 

L’etica dell’immediatezza non chiede eroismi, ma responsabilità: quella di non voltarsi altrove quando ciò che accade – e accade ora – ci riguarda.

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venerdì 1 agosto 2025

I SONNAMBULI e LA PACE


 SIAMO ANCORA

 SONNAMBULI


Grande guerra e lezioni dimenticate



-di MARCO IMPAGLIAZZO


 C’è – tra gli storici – chi vede analogie tra il tempo che viviamo e quello che precedette la Prima guerra mondiale: una potenza in ascesa, una in declino, riarmo, tensioni, volontà di dominio. Tutto ciò portò, esattamente 111 anni fa, il 28 luglio 1914, a uno scontro locale destinato ben presto – già il 1° agosto – a trasformarsi in una conflagrazione continentale, e poi globale. Al di là dei confronti, sempre opinabili, benché suggestivi, è certo che il sonnambulismo che accompagnò l’inizio di quella guerra, l’accumulo di materiale bellico negli anni precedenti, la certezza di un conflitto breve e controllabile, la testarda caparbietà con la quale vennero condotte offensive per pochi metri di terra al prezzo di migliaia di morti, hanno qualcosa da dire al nostro tempo.

Sembra, infatti, che alcuni leader mondiali giochino con il fuoco, incuranti delle tragiche conseguenze che potrebbe avere il saldarsi dei tanti conflitti della “guerra mondiale a pezzi” in un quadro più unitario. Pare superato il multilateralismo imperfetto della Guerra Fredda, considerato inutile da Capi di Stato e di governo abituati a fare i conti unicamente con opinioni pubbliche plasmate dalle emozioni e dall’umoralità dei social.

Non tutti, in quegli anni, però caddero preda dell’ubriacatura da sangue. Anzi, l’immane macello della guerra di trincea diede l’avvio all’evoluzione del magistero cattolico davanti a ogni conflitto, un “ministero di pace” (così lo ha definito Andrea Riccardi), che è la grande eredità che i papi del XX e XXI secolo si sono consegnati l’un l’altro, fino a giungere all’appello di Leone XIV per una «pace disarmata e disarmante».

Tornando al secolo scorso, nel terzo anniversario della dichiarazione di guerra della Germania a Francia e Russia, il 1° agosto 1917, Benedetto XV scriveva la famosa lettera «ai capi dei popoli belligeranti», in cui definiva il conflitto in corso una «inutile strage», invitando tutti a deporre le armi, a disarmare, a trattare sulla base del diritto.

Scriveva: «Il mondo civile dovrà dunque ridursi a un campo di morte? E l’Europa, così gloriosa e fiorente, correrà, quasi travolta da una follia universale, all’abisso, incontro a un vero e proprio suicidio?». A leggere tali parole oggi – mentre ormai il Vecchio Continente non è che una delle tante facce del “poliedro” globale, e nemmeno una delle più vivaci o ascoltate – non si può che guardare con rispetto alla capacità di lettura della storia che il Papa manifestava. Quanto potente è l’impulso suicida degli Stati e delle civiltà se ancora in questo primo quarto del XXI secolo abbiamo visto e vediamo realtà nazionali o plurinazionali correre incontro al «fallimento della guerra», come ha detto più volte papa Francesco. Nell’“età della forza” in cui viviamo, in troppi si affidano alla spada pensando di esserne immuni.

Purtroppo, la spada oggi conta più della carta dei Trattati internazionali.

In un mondo cieco la saggezza della Chiesa vede la realtà per quella che è e la chiama per nome: «Siamo animati dalla speranza di giungere quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale – affermava Benedetto XV – ogni giorno di più, apparisce inutile strage».

Strage di civili a Gaza, strage di militari e bombardamenti incessanti in Ucraina, stragi in Sudan, nella Repubblica Democratica del Congo, in molti altri angoli del Pianeta. E tutto in nome di obiettivi il cui pieno raggiungimento si allontana sempre più. C’è tanto di tragicamente inutile nelle guerre di un mondo che avrebbe invece bisogno di unirsi per far fronte comune alle sfide globali, come il riscaldamento climatico, le ondate migratorie, gli squilibri demografici, l’epidemia di solitudine – di cui sono vittime principali gli anziani ma che attraversa tutte le generazioni –, le nuove frontiere della scienza, l’impoverimento culturale, lo smarrimento dei più giovani.

L’ appello accorato di Benedetto XV rimase inascoltato. Di lì a poco più di un anno, molti dei Paesi sconfitti nella guerra se ne sarebbero pentiti. Ma anche gli stessi vincitori del conflitto si sarebbero trovati alle prese con enormi problemi interni da affrontare, un’economia distrutta, la prospettiva evidente di una guerra futura – che arrivò in un ventennio – ancor più terribile.

Oggi, tanto negli ambienti governativi e diplomatici quanto in quelli che formano e indirizzano il dibattito pubblico si dice che non è il momento di trattare, si sostiene che “con quel nemico lì”, qualunque esso sia, non si può scendere a compromessi. La storia, la ragione, la speranza ci ricordano che tali prese di posizione sono miopi, illusorie, senza fondamento. Occorre ripeterlo con forza per non arrendersi al male: è ancora tempo per immaginare un ordine internazionale diverso in cui la pace sia al primo posto. Ed è più che mai un compito urgente e ineludibile per chiunque vive la responsabilità della guida dei popoli.

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