Il numero uno di Hamas (che al momento
risiede in Qatar da dove ha diffuso un video che lo ritrae mentre prega il suo
Dio ringraziandolo per l'avvenuto massacro di israeliani da parte dei suoi) si
chiama Ismail Haniyeh ed è nato nel 1962, il mio stesso anno di nascita.
-
di Vito Mancuso
-
Il numero due di Hamas (che al momento è
nella Striscia di Gaza e che per gli israeliani è un uomo già morto) si chiama
Yahya Sinwar ed è nato anch'egli nel 1962. Avrei potuto essere loro compagno di
classe, seduto nello stesso banco, giocare insieme al pallone. Solo sulla
carta, ovviamente, perché in realtà, mentre io sono nato in un operoso paese
della Brianza parte di uno Stato nazionale relativamente prospero, essi sono
nati entrambi in un campo profughi della Striscia di Gaza privi di uno stato
che rappresenti la loro nazione (non a caso ho dovuto scrivere
"Striscia", non Stato). Cosa significa nascere in una Striscia? Cosa
significa nascere e crescere in un campo profughi di persone cacciate dalle
loro case ed espulse dalla loro terra, e senza nessuna credibile prospettiva di
poter superare quella condizione avendo finalmente uno Stato nazionale e
riavendo una casa? Significa crescere a pane e odio. A volte può persino
mancare il pane, l'odio però mai; anzi, di sicuro esso viene accresciuto dalla
mancanza del pane.
Sarà per il medesimo anno di nascita, ma io
non posso fare a meno di chiedermi che cosa avrebbe rappresentato per me
crescere in quelle condizioni. Che cosa sarei diventato io, venuto al mondo
nello stesso anno del numero 1 e del numero 2 di Hamas, se fossi nato lì, da
genitori cacciati dalle loro case e dalla loro terra, e vedendo che le speranze
di ristabilire un minimo di decenza delle mie condizioni vitali invece di
crescere diminuiscono giorno per giorno fino a risultare inesistenti?
Non pensi il lettore che questo mio discorso
sia teso a giustificare o anche solo a giudicare con minore severità il
massacro del 7 ottobre perpetrato dai militanti, o meglio terroristi, di Hamas.
No, nessuna giustificazione di nessun tipo. Sono convinto però che non si debba
deporre l'intelligenza che ricerca le cause perché solo così si va alla vera
radice dei problemi. Ha scritto uno dei più grandi pensatori ebrei di tutti i
tempi, Baruch Spinoza, che citerò molto in questo articolo: «Mi sono impegnato
a fondo non a deridere, né a compiangere, né tanto meno a detestare le azioni
degli uomini, ma a comprenderle» (Trattato politico, I, 4). Comprendere: di
questo si tratta, e quindi la domanda è: il massacro di Hamas è riconducibile
alle condizioni in cui i palestinesi versano dal 1948 a oggi, diventate via via
sempre più intollerabili? "Il più grande carcere a cielo aperto",
come è stata giustamente definita la Striscia di Gaza, e il continuo furto di
terreno da parte dei coloni israeliani nella Cisgiordania, possono
rappresentare la spiegazione sufficiente dell'odio assassino di Hamas? A tale
questione io rispondo di no.
Non dico che la situazione sociale e politica
del popolo palestinese non sia in gioco nella genesi di quell'odio; dico che
essa non basta a spiegare la ripetuta decapitazione di bambini ebrei, assunta
quale simbolo più tragico dell'enorme massacro. Se le inique condizioni di Gaza
fossero la ragione sufficiente, dovremmo logicamente concludere che gli oltre
due milioni di palestinesi della Striscia sarebbero disposti a compiere il
medesimo gesto: tutti pronti a sgozzare bambine e bambini indifesi.
Naturalmente io non posso sapere con sicurezza che non sia davvero così, ma la
mia ragione si rifiuta di procedere con queste generalizzazioni grossolane
perché il suo compito è strutturalmente un altro: la distinzione. Distinguere è
il lavoro per eccellenza del ragionamento debitamente condotto, e come
dall'aggressività e dal disprezzo della proprietà altrui da parte dei coloni
israeliani non è lecito inferire che tutti gli israeliani siano pronti a calpestare
il diritto internazionale, così allo stesso modo dal massacro di Hamas non è
lecito inferire che tutti gli abitanti della Striscia di Gaza siano pronti a
compiere i crimini inqualificabili di qualche giorno fa.
Ma se non bastano le condizioni sociopolitiche
a comprendere il massacro di Hamas, quali altri fattori occorre convocare? La
risposta non è difficile: l'odio. Non l'odio come vampata di ira più
incandescente del solito che in qualche momento può incendiare l'animo, no; ben
più radicalmente, l'odio quale persistente e sistematica ideologia che, a
freddo e totalmente in possesso delle sue facoltà, non pensa ad altro che al
nemico e alla sua eliminazione. L'odio quale carburante della vita di un essere
umano. Perché questo è il punto: che si può fare dell'odio la propria fonte di
energia, la propria sorgente vitale, la ragione del proprio esistere. L'odio
può conferire una sorta di macabra vitalità e lucidità alla mente.
Ha affermato Sami Modiano, sopravvissuto ad
Auschwitz: «Non è vero che l'odio è cieco, ha la vista molto acuta, quella di
un cecchino, e se si addormenta il suo sonno non è mai eterno, ritorna». E che
l'odio abbia la vista molto acuta lo dimostra l'accuratezza con cui Hamas ha
preparato e condotto il massacro.
Torniamo ai suoi capi. Si può nascere nello
stesso anno, nella stessa città o nello stesso campo profughi, persino nella
stessa famiglia, e avere vite diverse, addirittura opposte. Per fortuna o
sfortuna che sia, noi siamo esseri indeterminati. Per fortuna o sfortuna che sia,
la libertà esiste davvero. Ha scritto un altro sopravvissuto ad Auschwitz, lo
psicologo ebreo viennese Victor Frankl, riflettendo sulle condizioni nel campo
di sterminio: «Tutto ciò che accade all'anima dell'uomo è il frutto di una
decisione interna. In linea di principio ogni uomo, anche se condizionato da
gravissime circostanze esterne, può in qualche modo decidere cosa sarà di sé».
Si può leggere il Corano e trarne insegnamenti di odio e di violenza; lo si può
leggere e trarne insegnamenti di amore e di pace. Lo stesso vale per la Bibbia,
dove pure vi sono passi di odio infuocato e altri di amore luminoso. Perché
alcuni leggono il loro libro sacro nel primo modo e altri nel secondo? Lo
stesso vale per ogni altra lettura, a cominciare da quella più importante di
tutte, la nostra vita: perché alcuni la interpretano come odio e altri, a
parità di condizioni, come volontà di pace?
Dopo aver osservato con il più rigoroso
distacco le azioni umane nella loro genesi e nel loro sviluppo, Spinoza giunge
alla conclusione che «l'odio non può mai essere buono» (Etica IV, 45). Sono del
tutto d'accordo con lui. Mai vuol dire "mai", anche quando si tratta
di rispondere all'odio ricevuto. Soprattutto quando ad agire è lo Stato, come
Spinoza specifica: «Tutto ciò che appetiamo perché siamo affetti dall'odio è
turpe e ingiusto nello Stato». La caratteristica peculiare di un vero politico
è la capacità di affrontare il nemico con determinazione ma senza odio, perché,
come ha scritto sempre Spinoza, «ognuno che è guidato dalla ragione desidera
anche per gli altri il bene che appetisce per sé» (Etica, IV, 73). Desideri la
terra? Dai la terra anche al tuo nemico. Desideri l'acqua? Dai l'acqua al tuo
nemico. E così per ogni altro bene vitale. Dietro queste parole del più grande
filosofo ebreo, io rivedo il nobile volto di Yitzhak Rabin.
La Stampa
Nessun commento:
Posta un commento