Israele, la “società aperta” e i suoi nemici
- di Giuseppe Savagnone*
Il disprezzo verso le “società aperte”
Tra le ragioni che hanno spinto la quasi
totalità degli esponenti politici e degli osservatori occidentali a schierarsi
senza esitazione dalla parte di Israele, nella crisi scatenata dall’attacco di
Hamas contro lo Stato ebraico, una di quelle più spesso sottolineate è che
siamo davanti allo scontro fra una democrazia e un gruppo fondamentalista, che
ignora, anzi rifiuta, le più elementari conquiste legate ad una prospettiva
politica democratica.
Lo hanno continuamente ripetuto i quotidiani
della destra, col loro inconfondibile stile, ma questa è stata la linea anche
di opinionisti seri e autorevoli, come Sergio Fabrini, che, sul «Sole24ore» del
15 ottobre scorso – anticipando quasi alla lettera quanto avrebbe detto,
qualche giorno dopo, il presidente americano Biden nel suo messaggio alla
nazione – ha messo in rapporto l’aggressione all’Ucraina da parte di Putin e
quella ad Israele da parte di Yahya Sinwar (il leader operativo di Hamas a
Gaza).
Secondo lui, il vero obiettivo di entrambi
non è, per il primo, la protezione dei russofoni del Donbass e, per il secondo,
la creazione di uno Stato palestinese, ma l’eliminazione di due democrazie che
li sfidano proprio ai loro confini.
«Putin e Siwar», nota Fabrini, «condividono
il disprezzo per le società aperte, dove gli individui sono protetti da diritti
inalienabili rispetto a chi detiene il potere (secolare e religioso) (..).
Ucraina e Israele sono democrazie, seppure imperfette, che sono l’opposto dei
regimi autocratici (sia secolari che religiosi) che quei leader rappresentano».
Da qui la conclusione: «Se la democrazia è la
posta in gioco delle due aggressioni militari, allora è evidente che le altre
democrazie non possono che sostenere Kiev e Tel Aviv».
Non c’è dubbio che in questa analisi ci sono
molti elementi di verità. Il gruppo armato che dal 2006 ha il controllo della
Striscia di Gaza, pur avendo conseguito questo risultato con libere elezioni,
ha dei caratteri che lo rendono molto diverso da qualunque partito politico
occidentale, se non altro per il ruolo che hanno in esso la dimensione militare
e il fanatismo religioso. Due fattori la cui fusione è alla base di uno stile
di violenza, che ha avuto la sua manifestazione più estrema ed atroce nel massacro
e nel rapimento di inermi civili durante l’attacco dello scorso 7 ottobre.
Anche nella gestione dei territori di cui
legittimamente ha assunto il governo nel 2006 (senza peraltro indire, dopo
allora, libere elezioni), Hamas ha mostrato di condividere lo stile tipico del
fondamentalismo islamico nei confronti degli oppositori interni – a cominciare
dai sostenitori dell’Autorità nazionale palestinese, espulsi con la violenza da
Gaza dopo le elezioni – e delle donne, costrette a subire (come in Iran e in
Afghanistan) una discriminazione che le mette al margine della società.
Da questo punto di vista, è evidente perché
sia Israele che l’Occidente abbiano sempre considerato unico interlocutore
affidabile il movimento laico dell’OLP (Organizzazione per la liberazione della
Palestina), con cui sono stati stretti nel 1993 gli accordi di Oslo tra Yasser
Arafat e Yitzhak Rabin, che portarono al riconoscimento, da parte del governo
di Tel Aviv, dell’Autorità nazionale palestinese. E a quest’ultima, infatti, nel
2005, il leader israeliano Ariel Sharon aveva consegnato la striscia di Gaza,
precedentemente occupata dall’esercito israeliano.
La crisi di un progetto moderato
Ma il progetto moderato è stato frustrato
irrimediabilmente dalla inaspettata vittoria elettorale di Hamas, l’anno dopo,
e dalla decadenza dell’Autorità palestinese, la quale, rimasta al potere nel
territorio della Cisgiordania, sotto la presidenza di Abu Mazen è stata sempre
più screditata dalla corruzione ed è apparsa – come riconosce Fabrini – «preoccupata
della propria sopravvivenza e non di quella dei palestinesi». Da qui la
paralisi dei negoziati per arrivare alla realizzazione di uno Stato
palestinese, accanto a quello di Israele, in ottemperanza alla risoluzione
dell’ONU del 1947.
Secondo l’opinionista, è frutto di
unilaterale pregiudizio dare la colpa di tutto questo a Israele, che pure
sicuramente, al suo interno, sconta «la crescita della destra radicale» e «la
degenerazione personalistica del Likud, divenuto ostaggio di un leader (Benjamin
Netaniahu) preoccupato del proprio potere e non della sicurezza di Israele», ma
che rimane comunque il baluardo della democrazia, sulla cui sopravvivenza «si
gioca il futuro delle nostre società aperte. Società piene di difetti ma dotate
della libertà per correggerli».
Il “muro”
Ho voluto citare ampiamente questo editoriale
per la stima che nutro nei confronti del suo autore e per la sua chiarezza,
rispetto a tanti altri interventi che dicono, con meno lucidità, cose analoghe.
Tuttavia, il quadro che emerge dalla narrazione di Fabrini mi sembra vero solo
a metà. Lo è quando illustra i motivi di critica radicale nei confronti di
Hamas, molto meno quando propone Israele come modello su cui «si gioca il
futuro delle nostre società aperte».
«Aperta» verso chi? Se c’è un elemento
costante nella politica del governo israeliano, è stato, da moltissimi anni, la
“chiusura”. L’esempio più clamoroso è stata la costruzione, a partire dalla
primavera del 2002, del muro – la «Barriera» – lungo 730 km e alto 8 metri che
ha spaccato il territorio, le famiglie (arabe), l’intero tessuto sociale,
inglobando tra l’altro nella parte israeliana la quasi totalità dei pozzi
d’acqua. In un rapporto dell’Onu del 2005 si legge: «E’ difficile esagerare
l’impatto umanitario della Barriera. Il percorso dentro la Cisgiordania separa
comunità, l’accesso delle persone ai servizi, mezzi di sostentamento e servizi
religiosi e culturali».
Per quanto riguarda l’aspetto giuridico, il 9
luglio 2004, la Corte internazionale di giustizia, investita della questione
dall’Assemblea generale dell’ONU, ha emesso il suo parere: «L’edificazione del
Muro che Israele, potenza occupante, è in procinto di costruire nel territorio
palestinese occupato, ivi compreso l’interno e intorno a Gerusalemme Est, e il
regime che gli è associato, sono contrari al diritto internazionale».
Nella decisione si precisa anche che gli
Stati «sono ugualmente obbligati a non prestare aiuto o assistenza al
mantenimento della situazione creata da questa costruzione»
Gli israeliani hanno semplicemente ignorato
la sentenza. Motivi di sicurezza, hanno spiegato. E non risulta che i loro
alleati occidentali – in particolare i più importanti e fedeli, gli Stati Uniti
– abbiano fatto nulla per convincerli a modificare minimamente il loro
progetto. Siamo sicuri che sia questa la «società aperta» che la democrazia
propone?
Gerusalemme e gli insediamenti di coloni
israeliani in Cisgiordania
Analoga situazione si è creata per quanto
riguarda Gerusalemme. La risoluzione dell’ONU del 1947, prendendo atto che
questa è la “città santa” per ebrei, cristiani e musulmani, e deve dunque
restare “aperta” a tutte queste componenti, la poneva sotto il controllo
internazionale.
Ma nel 1980 una «legge fondamentale» del
parlamento israeliano ha proclamato Gerusalemme capitale «unita e indivisibile»
dello Stato di Israele, escludendo cristiani e musulmani dal controllo di essa
e dei loro rispettivi luoghi santi. Inoltre, ai circa 300 mila palestinesi che
abitano nella città non è riconosciuta la cittadinanza israeliana, ma solo uno
status di «residenti permanenti».
Non è servito a nulla un nuovo pronunciamento
di condanna dell’ONU. E la città è stata riconosciuta nel dicembre del 2017
come capitale di Israele dagli Stati Uniti, che hanno spostato lì la loro
ambasciata. Siamo sicuri che sia questa la «società aperta» che la democrazia
propone?
Infine, in questi anni si è sempre più
diffuso il fenomeno degli insediamenti abusivi di coloni israeliani, col
consenso del governo, sui territori della Cisgiordania che la risoluzione
dell’ONU assegnava ai palestinesi e che dovrebbero essere il cuore del loro
futuro Stato. Oggi 500.000 coloni ebrei si sono installati su queste terre,
costruendo cittadine e villaggi.
Proprio poco prima dell’attacco di Hamas del
7 ottobre, Netanyahu aveva annunciato una nuova ondata di questi insediamenti,
suscitando questa volta perfino la reazione negativa di Biden, che gli ha
chiesto – ma senza alcun esito – di sospendere. Siamo sicuri che sia questa la
«società aperta» che la democrazia propone?
Anche la reazione di Israele all’attacco di
Hamas ha avuto una connotazione inquietante. C’è modo e modo di difendersi. C’è
anche modo e modo di vendicarsi. Farlo togliendo elettricità, acqua e cibo a
due milioni e mezzo di persone che – secondo gli stessi israeliani – non sono
colpevoli di quanto è accaduto, è stato disumano. E forse ancora più disumano è
stato dare un ultimatum perentorio che costringeva più di un milione di persone
ad abbandonare, entro 24 ore, le loro case – perché questa terra è la loro! – ,
col solo diritto che viene dall’essere più forti.
Per non parlare delle centinaia di palazzi
distrutti dai raid israeliani- secondo l’ONU, il 25% delle abitazioni civili –
e dell’uccisione dei loro inermi abitanti, di cui 500 bambini. Siamo sicuri che
sia questa la «società aperta» che la democrazia propone?
Israele ha il diritto di esistere e questo
diritto deve essere difeso, contro la cieca furia distruttiva di Hamas, per cui
vale tutto quel che si è detto prima. Ma, se si continua ad ammonire lo Stato
ebraico di non superare i limiti – come hanno fatto e fanno in questi giorni
coloro che lo appoggiano -, si nasconde il fatto che da troppo tempo li ha già
superati e ci si rende complici delle sue continue violazioni dei diritti umani
e delle regole internazionali.
No, questa non è la democrazia. Con una
caduta di stile che, come suo estimatore, mi è dispiaciuta, anche Fabrini
ripete due volte nello stesso articolo quello che si sente oggi spesso si sente
dire, e cioè che chi non è d’accordo con il sostegno incondizionato ad Israele,
“senza se e senza ma”, «è ignorante o è in malafede». Lascio al lettore il
compito di stabilire in quale delle due categorie collocarmi. Perché io non
sono d’accordo.
*Scrittore
ed Editorialista. Responsabile del sito della Pastorale della Cultura
dell'Arcidiocesi di Palermo, www.tuttavia.eu
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