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venerdì 19 luglio 2024

RIPOSATEVI UN PO'


 

LECTIO: XVI DOMENICA

 DEL TEMPO ORDINARIO 

Lectio divina su Mc 6,30-34

Invocare
Dona ancora, o Padre, alla tua Chiesa, convocata per la Pasqua settimanale, di gustare nella parola e nel pane di vita la presenza del tuo Figlio, perché riconosciamo in lui il vero profeta e pastore, che ci guida alle sorgenti della gioia eterna. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
In ascolto della Parola 

30Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. 31Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po'». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. 32Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. 33Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero.
34Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.
  

Dentro il Testo

Domenica scorsa avevamo meditato sull’invio dei Dodici per fare ciò che Gesù stesso ha fatto. Ora “Gesù accoglie i suoi tornati dall'annuncio di domenica scorsa. Sono entusiasti ma stanchi, pieni di gioia e di luce negli occhi. Li ascolta col sorriso, perché Gesù ama il successo dei suoi subalterni, è felice delle nostre gioie, non è un Maestro che adora essere adorato” (Paolo Curtaz). Qui affronterà quali sono i veri e i falsi pastori, i veri e falsi profeti.
Sullo sfondo del Vangelo troviamo l’immagine del Pastore Buono, che gioisce perché le sue pecore lo ascoltano, ed Egli ne ha una profonda conoscenza, ed esse lo seguono dovunque Egli vada.
L’evangelista Marco sembra darne una struttura diversa, suggerendo questo titolo: “il ritorno dei discepoli”. Infatti, viene descritto, quasi per istinto, come i Dodici ritornano da colui che li aveva inviati in missione.

Il brano è un continuo invito al servizio ma allo stesso tempo a fermarsi per trovare se stessi. In questa sosta per rinfrancare il cuore, troveremo un compagno ideale: il verbo “compassione”.
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)

v. 30: Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato.

Quest’introduzione ci riallaccia a quanto abbiamo già ascoltato in precedenza sull'invio dei Dodici (cfr. vv. 7-13). Un particolare emerge in questo versetto. L’incarico che Gesù affidò era di proclamare il bisogno di emendarsi, scacciare i demoni, e, come complemento, guarire, ungendo con olio, fomentando così la speranza della restaurazione nazionale, senza tener conto dell’alternativa del Regno. I Dodici però aggiungono una novità: “quello che avevano insegnato” attività che non solo non era stata affidata loro da Gesù, ma che in questo Vangelo è esclusiva di Gesù e che egli esercita solo con ascoltatori giudei (insegnare = proporre il messaggio partendo dall’AT: 1,21b;2,13;4,1;6,2 ecc.).

Questi non erano pronti a questo tipo di attività, perché non avendo assimilato l’insegnamento di Gesù, il loro insegnamento è legato alla nazione giudaica più che a un messaggio particolare. Ma forse è il caso di scoprire un nuovo volto che conduce ovunque.
v. 31: Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po'». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare.

Il versetto è consequenziale. L’evangelizzazione richiede una verifica, un riposo, un discernimento. Per scoprire un nuovo volto non occorre l’euforia ma l’interiorità, uno stare in disparte. Gesù invita a vivere questo tempo nel silenzio, lontano. È il tempo della meditazione, per far luce, far entrare la Luce. Il luogo deve essere deserto. Il termine greco che allude anche al deserto è per eccellenza un orizzonte di silenzio e di solitudine; è il luogo dell'intimità con Dio (cfr. Os 2,16).
Il verbo “riposare” viene usato nei LXX in Is 14,3 per significare la liberazione da parte di Dio dalla schiavitù di Babilonia; Marco allude a quel passo per indicare che Gesù vuole liberarli dalla ideologia che li domina e impedisce loro la sequela.
Gesù sta impedendo che i cuori dei Dodici si riempia di euforia per il bisogno che li circonda, fino al punto che non hanno tempo per mangiare e per stare con Lui e accogliere l’essenziale.
v. 32: Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte.
Qui abbiamo due immagini: una barca e il luogo deserto. Una barca fa pensare alla sua navigazione in mare tra i suoi flutti. Rappresenta anche una “navigazione nel mare della vita”. Per questo in essa troviamo anche il simbolo della Chiesa, piena di speranza, in cammino verso l’eternità. Tutti ci ritroviamo in questa barca: fragili e disorientati, ma anche importanti e necessari in quanto chiamati a remare insieme in questa vita.

Rimane quel luogo desertoin disparte. È il luogo dell’intimità tra Dio e l’uomo: lì Egli si fa incontrare, parla al suo cuore e gli indica la via vera da seguire. Proprio nella solitudine del deserto il cuore dell’uomo, staccato e libero da tutte le altre cose, si apre alla Parola di Dio e risponde con la preghiera, filiale e fiduciosa, e con la vita, rinnovata dalla grazia. “Dal deserto le cose si vedono meglio, con proporzioni più eterne” (Carlo Carretto). Il deserto è il luogo di purificazione; è il luogo formativo. È il luogo che fa da cerniera all’AT e al NT. Il deserto è il luogo dell’ospitalità: è la vita; ed è una necessità per chi vuol seguire Gesù. Egli è l’essenziale non il bisogno della gente. Ma, dall’altra parte, il deserto è anche il luogo e il simbolo per eccellenza della prova, dove il Tentatore, approfittando della fragilità e dei bisogni umani, insinua la sua voce menzognera, seduce con una voce alternativa a quella di Dio, lo rende sordo all’appello di Dio e muto nel rispondergli, e lo porta alla rovina. Il deserto ci permette di percorrere la strada suggerita dalla Parola di Dio, quella dell’amore, del perdono, del servizio.
v. 33: Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero.
In questo versetto accade la stessa cosa che accadde a Gesù. Dopo la sua prima giornata di missione non hanno goduto un po’ di pace pur andando in un luogo deserto. Ricordiamo Pietro che pose fine a questo isolamento avvertendolo: «Tutti ti cercano» (1,36)».
Questo fatto si ripete anche ai nostri giorni. Lo stare con Gesù non va inteso come un contatto esterno, sebbene familiare, con il Maestro; si tratta piuttosto di una progressiva condivisione interiore, profonda. Lo stare con Cristo equivale a essere come Cristo.
v. 34: Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.
La folla qui continua a frustrare Gesù e i discepoli. È tanta ed è formata da tanta gente, da diversi villaggi, che si era mossa via terra verso questo luogo (6,33) per incontrarsi con il gruppo.
Questa presenza commuove Gesù. La commozione di Gesù per la folla non è una commozione "umana", nel senso comune che noi diamo al termine. È una partecipazione sofferta ed intima; è un atteggiamento messianico!

La «compassione» di cui parla Marco (in ebraico rahàmìm = viscere), corrisponde al greco oiktrimoi (compassione manifestata) o splàgnon (connesso con splén = milza indica genericamente le viscere; più specificatamente può indicare il seno materno) ed indica un movimento degli intestini, nel senso che Gesù provò un forte turbamento nelle sue viscere come lo prova una madre per suo figlio (letteralmente «si sentì smuovere le viscere»; secondo l'antropologia biblica, le viscere sono sede della sollecitudine materna).
Il termine commuoversi (splanchnízomai) indica un comportamento tipico di Gesù e «caratterizza la divinità del suo agire». Matteo spiega più chiaramente in qual modo ebbe compassione di loro, dicendo: “Ebbe misericordia della folla e risanò i loro ammalati” (Mt 14,14).
Nell’evangelista Luca ritroviamo il verbo con la parabola del padre misericordioso (Lc 15,20) e del samaritano che soccorre il malcapitato (Lc 10,33).

Nella Bibbia la compassione, la misericordia è una caratteristica di Dio (Lc 1,50; cfr. Sal 86,15; 111,4; 112,4; 145,8).

Ciò che commuove Gesù è il fatto che la folla era come pecore senza pastore (cfr. Ger 23,2-4), brancolante nel buio, abbandonata, disorientata, senza un senso per la propria vita.
La similitudine viene tratta dall'AT; in modo particolare ricorda due testi: Nm 27,17 ed Ez 34,5.8.31 (ma anche 1Re 22,17; Zc 10,2; 13,7; ecc.) ed esprime molto bene la condizione di smarrimento.
Gesù assume il ruolo di pastore di Israele e il suo primo obiettivo è dare nutrimento alle persone. L’umanità senza pastore abita il cuore di Dio. Marco non espone concettualmente il contenuto dell’insegnamento, ma lo spiega per mezzo dell’azione di Gesù.

L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Mi lascio condurre in disparte da Gesù per vivere il ministero della compassione per la folla stanca e smarrita, senza dimenticare che il Vangelo è Gesù!

Meditare la Parola

 

mercoledì 17 aprile 2024

UN SAPERE CHE ILLUMINA


AL DI LA’ DELLA BUROCRAZIA

 E DELLA RIPETIZIONE

 

-         di Massimo Recalcati

-          

L’annuale riapertura delle scuole, che avverrà il prossimo settembre, appartiene ad un rituale sociale di cui tendiamo ad ignorare l'importanza assimilandolo a un fenomeno della natura come fosse il ciclo inesorabile delle stagioni. A rafforzare questa assimilazione è la dimensione della Scuola come un dispositivo burocratico sempre più lontano dalla vita vera. Le norme grigie che strutturano il tempo scolastico (calendari, riunioni, programmi, valutazioni, ecc.) favoriscono la sua rappresentazione come una istituzione condannata a una ripetizione senza sorpresa. 

Un peso al collo o una condanna nel vissuto di molti studenti.

Una incombenza necessaria in quello di molti insegnanti. Il processo di istituzionalizzazione della Scuola tende infatti a consumare anche i migliori.  È quella che ho definito altrove l'anima grigia dei dossier, il feticismo del numero, l'assillo della quantificazione. Il suo prodotto è sotto gli occhi di tutti. Dal lato degli allievi e degli insegnanti troviamo egualmente apatia, delusione, noia, frustrazione. A conferma che il sapere scolastico è un sapere separato dal mondo reale, un cumulo di informazioni astratte, fine a se stesse, una passione triste. Questa riduzione del sapere a un sapere morto scoraggia l'entusiasmo dell'apprendimento e ribadisce la sua separazione dalla vita.

Apprendere, perché?

A cosa serve apprendere, studiare, sapere se poi l'impatto con la vita ne rivelerebbe fatalmente l'inutilità? La formazione scolastica sarebbe allora una perdita di tempo, un ritardare inutilmente l'inizio dell'attività lavorativa, come sostengono anche noti imprenditori del nostro paese?  Dovremmo sempre, oggi più che mai, contro discorsi simili, ricordare la centralità della scuola non tanto come luogo di accumulo di informazioni, ma come luogo insostituibile di formazione. L'esperienza della Scuola non è solo esperienza di una routine mortifera, ma anche della luce del sapere: il sapere non è un libro morto, ma un libro vivo, non è una passione triste ma una passione erotica.

Testimoni di luce

Ma questa luce deve essere testimoniata da chi insegna. Il che dovrebbe significare che non c'è separazione tra gli effetti educativi di una formazione e quelli cognitivi di una istruzione, che educazione e istruzione, nella pratica didattica, sono due facce della stessa medaglia.  Mentre il discorso cinico contemporaneo sostiene che la vera vita sia fuori dalla Scuola, che essa non abbia alcun rapporto con il sapere, il lavoro dell'insegnante dovrebbe essere quello di mantenere il sapere strettamente legato alla vita. Perché, come ricordava Wittgenstein, sono i limiti del mio linguaggio a significare i limiti del mio mondo. Dunque, più il desiderio di sapere si irrobustisce, acquista forza, energia, slancio, più l'apertura del nostro mondo si allarga. Tuttavia, garantire questa testimonianza non è una impresa facile. Come si resiste all'usura della ripetizione che inevitabilmente ogni insegnamento scolastico porta con sé? Come si fronteggia il processo di istituzionalizzazione in modo tale che il sapere trasmesso resti un sapere vivo e non morto? Problema reso ancora più complicato dal fatto che le nuove generazioni tendono ad allontanarsi dalla pratica della lettura e dallo sforzo che comporta uno studio sistematico.

Erosione del desiderio

La distrazione non è solo una qualità psicologica sempre più diffusa tra gli allievi, ma una tendenza più generale che esprime una cifra di fondo del nostro tempo. Distrarsi è l'effetto di una erosione del desiderio che impedisce di restare prossimi alla cosa. In certi casi la distrazione può essere una difesa da un sapere che viene proposto senza alcun desiderio. In quel caso è una legittima difesa. Ma non può distrarsi chi suona un brano musicale o chi studia un libro di matematica. Non può distrarsi chi spiega le strutture grammaticali di una lingua o la deriva dei continenti. L'esperienza della luce richiede sempre dedizione, cura, attenzione. È quella che molti hanno avuto la fortuna di incontrare nei propri maestri. Diversamente, la distrazione svia da ogni possibile cura. Significa passare da una cosa all'altra svuotandole in egual misura di valore. È la dimensione anti-epistemica della curiosità senza spessore che oggi spopola sui social. Ma la distrazione non deve essere vista semplicemente come un atteggiamento soggettivo colpevolmente svagato, ma come l'effetto dell'inclinazione iperattiva di fondo del nostro tempo.

Riflettere, non consumare

Consumare le informazioni senza dedicare tempo alla riflessione, distruggere la possibilità dell'esperienza attraverso il moltiplicarsi delle impressioni. Ecco la testimonianza difficile a cui sono tenuti i nostri insegnanti. Dare prova di una concentrazione che non sia una forma ottusa del rigore, ma una cura. Essere concentrati sulla propria pratica è, del resto, la sola salvezza possibile per non cadere in una ripetizione scolastica del sapere che stroncherebbe anche gli spiriti più nobili. È la solitudine inevitabile che accompagna ogni insegnante: restare concentrati sul proprio lavoro, restare prossimi alla cosa, non lasciarsi distrarre dai rumori del mondo.

 

 Iimmagine


mercoledì 11 maggio 2022

LUNANA: A YAK IN CLASSROOM

 


Qualunque sia la condizione che viviamo nella scuola, il suo centro è un io che, in un modo o nell’altro, è messo di fronte a se stesso

UN FILM CHE FA RIFLETTERE

 - di Elisabetta Valcamonica

Il giorno in cui Ugyen avrebbe dovuto tenere la sua prima lezione nel villaggio a cui era stato assegnato, viene svegliato dalla capoclasse che gli dice con estrema gentilezza che i suoi alunni lo stavano aspettando. Un po’ sorpreso, Ugyen si prepara, ma i pensieri che attraversano il giovane maestro nel tragitto che compie dalla sua casa alla scuola non devono essere stati molto diversi da quelli che aveva avuto nei lunghi otto giorni di cammino che aveva compiuto per raggiungere Lunana; quella mattina i suoi pensieri erano anzi aggravati dall’impressione della sera prima quando, guardando le pareti spoglie della sua nuova aula e immaginando le condizioni di vita che lo avrebbero aspettato nei mesi successivi, aveva deciso che lui, lì, non sarebbe riuscito a stare; che non ci voleva stare.

Aveva quindi chiesto al capo del villaggio e all’uomo che lo aveva accompagnato per le montagne di riportarlo indietro. Era questione di giorni, gli asini avrebbero riposato e poi, lasciando certamente gli abitanti un po’ delusi soprattutto per la grande aspettativa con cui avevano atteso il suo arrivo, si sarebbe liberato di un peso e avrebbe potuto continuare a dedicarsi al suo più grande sogno: smettere di fare l’insegnante e costruirsi in Australia una brillante carriera musicale. Era questo, il motivo per cui lo avevano assegnato a Lunana: a causa degli scarsi rendimenti professionali del suo ultimo periodo, occupato per lo più a procurarsi il visto per uscire dal paese, i superiori lo avevano assegnato alla scuola più remota dello Stato e forse dell’intero pianeta.

Sono questi i primi connotati della storia raccontata dal film del buthanese Pawo Choyning Dorji, che esordisce con questa pellicola come regista. Lunana: a yak in the classroom, candidato all’Oscar come miglior film internazionale e distribuito nelle sale italiane con il titolo Lunana. Il villaggio alla fine del mondo racconta la rivoluzione che avviene nell’animo del suo protagonista, richiamando a chi insegna oggi nelle scuole di tutto il mondo (non necessariamente così sperdute) il cuore del compito a cui è chiamato.

Il villaggio in cui viene mandato Ugyen è un villaggio di 56 abitanti a 5mila metri di altitudine, sulle montagne dell’Himalaya al confine tra Buthan e Tibet. Durante l’inverno la neve rende Lunana irraggiungibile. I suoi abitanti sono pastori di Yak, non usufruiscono dell’elettricità e anche i bambini, per giocare, si accontentano di poco. Quando nel suo primo giorno di lezione Ugyen chiede loro cosa vorrebbero fare da grandi si aspetta poco di diverso dall’unica prospettiva che offre loro la valle, la pastorizia. Sorpreso dalle risposte che gli danno, reagisce in prima battuta con manifesto cinismo, buttando lì la prospettiva che per realizzare ciò che desiderano devono lasciare il loro povero villaggio. Ma c’è uno dei loro sogni che inizia a scavargli nell’animo: uno tra i più grandi dei suoi alunni aveva confessato che avrebbe voluto fare il maestro, “perché i maestri toccano il futuro”. Pian piano, nell’animo di Ugyen, attraverso gli incontri che fa con gli abitanti del villaggio, queste parole si fanno strada. Decide di non ripartire, di rimanere a Lunana fino al termine del suo mandato, scoprendo in quel periodo della sua esistenza che è possibile essere felici anche nel qui e nell’ora, di una felicità che è fatta anche della riscoperta della passione per il suo lavoro e che si manifesta in una creatività anche pratica per rendere più bella la scuola del paese e fornire ai suoi alunni la strada verso il futuro.

Quello che ci insegna Ugyen è che qualunque sia la condizione che viviamo nella scuola, il suo centro è un io che si ritrova e per questo non si dà per vinto, arrivando a fare del dono di sé l’albero maestro della sfida educativa. Inizia a scrivere sulle pareti dell’aula, Ugyen; poi si fa costruire una lavagna di legno, fa arrivare dalla città libri e quaderni e, quando finiscono i fogli, si priva silenziosamente della carta tradizionale che nella sua abitazione era stata messa alle finestre per ripararsi dal freddo. Fa lezione con la sua chitarra, si lascia toccare dalle vite dei bambini e delle bambine che gli è dato incontrare in quella remota parte del mondo, e quando lascia Lunana è più ricco, certamente, di prima.

Alla fine del film Ugyen partirà, riuscirà ad andare in Australia. Dal suo ritorno da Lunana al palcoscenico del bar di Sidney dove lo si vede nell’ultima scena il regista lascia un vuoto narrativo. Non sappiamo quello che accade in mezzo. Sappiamo solo che durante un attimo di desolazione per gli avventori distratti del locale per cui la sua presenza è solo un sottofondo musicale del loro momento di svago, Ugyen interrompe la sua canzone e intona un canto tradizionale di Lunana.

Quello che è vero, nella vita come nella scuola, rimane. Ed è per questo che, nel momento storico in cui ci troviamo, la visione di questo film può aprire tracce di riflessione, sostegno e speranza in chi nella scuola lavora nella ricerca di ciò che gli è essenziale.

 Il Sussidiario

 

 

sabato 17 luglio 2021

NON UN LUOGO MA UN TEMPO


+ Dal Vangelo secondo Marco - Mc 6,30-34

In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.

 

Finché c’è compassione il mondo può sperare

 Partiti a due a due, i discepoli tornano carichi d’umanità toccata e guarita. E attorno a loro così tanta gente che non avevano più il tempo per mangiare, per vivere.

Tutto questo può essere esaltante, può sembrare la benedizione di Dio sulla missione. Invece Gesù vede più lontano.

Il successo non lo esalta, l’insuccesso non lo deprime: queste cose sono solo la superficie mobile delle onde, e non la corrente profonda degli eventi.

E allora si preoccupa di riportare i suoi all’essenziale: venite in disparte! Riposatevi un po’. Parola bella come un miracolo, filo saldo che corre nel racconto: è in ansia per i suoi amici!
C’è tanto da annunciare, c’è tanto da guarire. Israele è pieno di vedove di Naim che piangono figli morti, e di pietre pronte a lapidare adultere prostrate. E Gesù, invece di lanciare i discepoli dentro il frullatore dell’apostolato, li porta via con sé, in disparte.

Quasi a perdere tempo.

Ma nella Bibbia, il deserto vuole sempre e solo parlare al cuore (Osea 2).
A Lui interessa ciò che sei, non ciò che fai. Non chiede ai dodici di pregare affinando il metodo per nuove missioni, ma di prendersi del tempo per essere. È il gesto d’amore di chi ti ama e ti vuole felice.  C’è un tempo per agire e un tempo per ritrovare i motivi del fare. Se vuoi fare bene tutte le cose, ogni tanto smetti di farle (S. Ambrogio).

E come loro anch’io ho il dovere di accogliere il mio bisogno di riposo e di attenzioni, quando si affaccia sulla mia fatica.

Stare “in disparte” è molto di più che riprendere fiato. È rivivere il giorno del Signore quando vide che tutto era bello, e si riposò. La vera terra promessa non è un luogo, ma un tempo, e questo tempo è il settimo giorno. Là Egli parlerà al cuore, lo attirerà a sé: sarà rivelazione e presenza. Sbarcando tra la folla, si commosse per loro. Gesù è preso fra due compassioni in conflitto: la stanchezza degli amici e lo smarrimento della folla. E sceglie di insegnare agli apostoli, e a noi, l’arte difficile del dimenticarsi.

Partiti per restare soli, i Dodici imparano ad essere a disposizione dell’uomo, sempre. Gesù dice: prenditi del tempo. E subito aggiunge: ma il tuo tempo non è per te, è per l’uomo! E cambia i suoi programmi, insegnando loro molte cose, e partendo dalla compassione per il dolore del mondo.

Il tesoro

Il tesoro che i Dodici porteranno con sé dalla riva del lago è lo sguardo di Gesù che si commuove e non lo nasconde. Stai con Gesù, lo guardi e impari a guardare, prima ancora di agire. Come fa ogni cucciolo osservando la madre vivere.  Poi, solo dopo, le parole verranno e sapranno di cielo. Lo saranno quando saprai commuoverti, lasciando così il mondo innestarsi nella tua anima.

Gesù sa che ad annullare la speranza non è il dolore, ma l’essere senza conforto. Sa che l’arcobaleno della compassione è un ponte lanciato nel cielo.

 

AUTORE: p. Ermes Ronchi FONTE: Avvenire PAGINA FACEBOOK

 

sabato 1 agosto 2015

CHE LE VACANZE SIANO BUONE E FECONDE!!!!

VACANZA … 
un tempo per svuotarsi dall'effimero e riempirsi del duraturo

            Non c’è dubbio che l’ideale di vacanza è quello di evadere dalla rete del quotidiano, recuperando il tempo del disimpiego, per evadere (se possibile) dall’obbligo.
                  La parola vacanza non ha una bella etimologia, proviene dal verbo latino “vacare”, nel suo significato di vuoto, di ozio. L'aggettivo “vacus”, infatti, distingue una persona senza preoccupazioni, senza amore, quasi indifferente. La vacanza, molto spesso, è proprio così, avvolta nell'indifferenza: si guarda a se stessi, senza pensiero per tutto ciò che succede attorno.
            Ma vorremmo dare un significato diverso “allo svuotarsi”, che non è dall’impegno o dalla responsabilità, ma esattamente al contrario; è recuperare lo spazio del tempo interiore per stare con noi stessi, riscoprire  la dimensione del CUORE; che nella cultura biblica non è un muscolo e neanche il luogo metaforico dell’innamoramento, ma il cuore è la coscienza, è il centro della persona, il  luogo della libertà e dell’intimità, dove tutte le nostre facoltà si incontrano nella libertà di scelta.
       Vacanza in questo senso rende bello quello che facciamo, uno svuotarsi dall’effimero per riempirsi del duraturo, un allontanarsi dall’apparenza per gustare fino in fondo il sapore della sostanza, una sostanza che può essere illuminata dalla luce della verità e dell’amore. Vacanza diventa quindi ritrovare il gusto del fermarsi a riflettere … ritrovando il coraggio di pensare, per aprirci ad un dialogo profondo con l’altro e con l’Alterità.
       Benediciamo quindi questo tempo, e giunga a tutti voi una benedizione antica. Questa Benedizione è  racchiusa in una Poesia, che viene da una voce sconosciuta dalle “terre di Nairi”, dal paese d’Armenia, l’antico altopiano sotto il monte Ararat, dove secondo la leggenda si posò l’arca di Noè.
          E’ un canto di saggezza, parole di un dotto e dolce contadino-veggente che fu un grande poeta, e fu ucciso a trent’anni, nel fiore del suo genio.

ANTASDAN
(Benedizione per i campi dei quattro angoli del mondo)
Nelle plaghe d’Oriente sia pace sulla terra…..
non più sangue, ma sudore irrori le vene dei campi,
e al tocco della campana di ogni paese sia un canto di benedizione.
Nelle plaghe dell’Occidente sia fertilità sulla terra….
Che da ogni stella sgorghi la rugiada e ogni spiga si fonda in oro,
e quando gli agnelli pascoleranno sul monte germoglino e fioriscano le zolle.
Nelle plaghe dell’Aquilone sia pienezza sulla terra…..
Che nel mare d’oro del grano nuoti la falce senza posa,
e quando i granai s’apriranno al frumento si espanda la gioia.
Nelle plaghe del Meridione sia ricca di frutti la terra….
Fiorisca il miele degli alveari, trabocchi dalle coppe il vino,
e quando le spose impasteranno il pane buono sia il canto dell’amore.
Pubblicata nel 1914 in R. Zartarian, Meghaked (libro di letture per le scuole medie). Traduzione di Boghos Levon Zekiya.

Da un messaggio della presidenza del MASCI