e dell’insegnamento
della storia
- di Fabrizio Foschi
Nel primo libro de La guerra del Peloponneso, il grande storico greco Tucidide (V sec. a.C.) confessa che «i fatti concreti degli avvenimenti di guerra non ho considerato opportuno raccontarli informandomi dal primo che capitava, né come pareva a me, ma ho raccontato quelli a cui io stesso fui presente e su ciascuno dei quali mi informai dagli altri con la maggiore esattezza possibile» (Volume primo, libro I, 22). Con queste parole è indicato in via di una prima approssimazione il ruolo della storia (o meglio della storiografia): ricostruire il passato. E nello stesso tempo è indicato il compito dello storico: collocarsi il più possibile vicino all’origine dei fatti per raccontarli. Da una parte abbiamo un passato che chiede di essere ricostruito e dall’altra un soggetto, lo storico, che è investito del compito di dire la verità sul passato. Non ci sarebbe storia (anche in questo caso è meglio usare il termine storiografia) se non ci fosse coscienza del passato; allo stesso modo non ci sarebbe storiografia se non ci fosse amore per la verità.
La differenza tra la storia e il romanzo storico, ci insegna Aristotele, prima ancora di Manzoni, è che la storia si occupa di fatti realmente accaduti, mentre il romanzo storico si occupa di fatti o situazioni inventate (in gran parte) dalla genialità del romanziere. Chi si accinge a fare storia, a insegnarla o semplicemente chi intende occuparsene per quanto episodicamente, prendendo in mano un bel libro di storia o appassionandosi a un periodo storico, non può, prima o poi, volente o nolente, non imbattersi nelle seguenti domande: come si raggiunge un passato che non c’è più? Come si può adeguatamente rimettere in sesto il passato in modo che la ricostruzione sia convincente? E soprattutto quale passato tentare di ricostruire in prima istanza? Prendiamo spunto dall’ultimo interrogativo (quale passato?) e riflettiamo sulla situazione degli studi storici in Italia, affidati alle università o agli enti di ricerca. Sul sito di un importante dipartimento italiano di discipline storiche (Università di Bologna) si leggeva fino a qualche tempo fa questo programma: «La storia raccoglie sistematicamente, classificando e raggruppando, i fatti del passato, in funzione dei suoi bisogni presenti. Solo in funzione della vita essa interroga la morte…
Organizzare il passato in funzione del presente: tale si potrebbe definire la funzione sociale della storia» (Lucien Febvre). N ©Hartmut Steckert (Kanichfeld/Thüringen/Germany). Cerchiamo di contestualizzare questa citazione. Febvre, insieme a Marc Bloch, fu tra i fondatori della scuola delle Annales che si prefisse il compito di smontare la storia di stampo positivistico facendola dialogare con le scienze sociali e trasfondendo in essa i metodi della psicologia, della sociologia e dell’economia. Eppure questo avvenne non senza che nuovi problemi epistemologici si aprissero. Una storia fossilizzata nei particolari non piaceva ai nuovi storici e non piace neppure a noi.
Collocare gli eventi. Nell’approccio a qualunque argomento storico preferiamo indubbiamente la collocazione degli eventi entro grandi spazi temporali e geografici. Eppure, se perdiamo di vista gli avvenimenti, pur godendo di un “piatto storico” più ricco, rischiamo di ridurre la storia alla dimensione epistemologica della nostra domanda e del nostro orizzonte. In altri termini, dalla unilaterale esaltazione dell’oggetto dell’impostazione positivistica, si passa ad una altrettanto unilaterale esaltazione del soggetto della conoscenza storica, inteso come individuo, isolato da qualunque tipo di tradizione e sapienza pregressa. In effetti, la quasi totalità della ricerca storica attuale legge il passato in funzione del presente. Il presente non è più, in quest’ottica, il risultato di radici che affondano nel passato, ma al contrario è il passato che viene scrutato con una lanterna che si accende nel presente e che brucia il combustibile dell’oggi. Allora la ricerca storica (e di conseguenza la manualistica scolastica) tende a riprodurre nel passato gli stessi antagonismi del presente e a distribuire tra gli attori del passato le stesse parti che si intravedono nel presente. Gli imperi in questo modo diventano costruzioni imperialistiche, i ceti diventano classi, i missionari colonizzatori o colonialisti.
Didattica della storia. Oggi, per esempio, è invalsa una certa didattica della storia che legge il passato in chiave globale, secondo formule tratte dal presente, come la dialettica tra un Nord del mondo ricco e un Sud povero e sfruttato. Si dimentica che per secoli il confronto che ha dominato la scena del mondo è stato non solo di tipo economico e militare, ma anche culturale, e che antichi imperi vasti tre volte tanto l’Impero Romano si sono estinti non solo per cause esterne, ma proprio per una sorta di mancanza interna di risorse spirituali. Ma tant’è, l’organizzazione del passato in funzione del presente è anche un potente catalizzatore di argomenti sui quali spendono le loro energie i giovani laureandi o dottorandi, impegnati sistematicamente in ricerche il cui titolo fa riferimento alle classi sociali o ai rapporti di potere nei vari periodi dell’antichità.
La cosiddetta “cancel culture” è, pari pari, figlia di questa visione distorta, a voler essere generosi. C’è tuttavia un’altra prospettiva con cui si può guardare al rapporto col passato, quella per esempio indicata da Hannah Arendt quando afferma che «padroneggiare il passato è possibile solo nella misura in cui si racconta ciò che è accaduto» (L’umanità in tempi bui, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2006, p. 78). Qui il passato non è da indagare a partire dal presente, ma in virtù del fatto che è possibile leggerne le tracce proprio in quanto passate. Nel caso della lettura del passato a partire dal presente avremo lo storico che con logica ferrea (o quasi) sottopone il passato al tribunale del presente; nel caso dello storico che si impegna a raccontare ciò che è accaduto, avremo lo storico che - a mo’ di Sherlock Holmes - prende in considerazione tutte le tracce, tutte le impronte, tutte le prove per individuare in esse un filo, una impostazione, una motivazione. La motivazione che regge le azioni.
Le ricerche archeologiche. Per fare un esempio di questo argomento potremmo fare riferimento alle ricerche archeologiche (l’archeologia è una delle madrine della storia) che hanno dato peso ai racconti sul diluvio universale presenti in molte culture antiche (compresa quella biblica). Fino a qualche tempo fa prevaleva tra gli storici accademici l’opinione che quei racconti fossero favole, leggende da trascurare. Oggi invece, come mostra per esempio la vasta esperienza di ricerca legata alla équipe dell’archeologo Giorgio Buccellati che ha indagato a fondo la Mesopotamia e il Medio Oriente, molti le interpretano come memorie o metafore di disastri locali effettivamente verificatisi. Questa seconda linea, che ha dato peso e credibilità alle tracce dell’uomo, si dimostra più proficua dell’altra, perché spiega per esempio il rapporto con l’acqua presente in molte civiltà antiche. Nella citazione della Arendt («padroneggiare il passato è possibile solo nella misura in cui si racconta ciò che è accaduto») c’è un altro fattore che deve interessarci in funzione della seconda domanda che ci siamo posti (come ricostruire adeguatamente il passato?), ed è la questione del racconto o della narrazione. Raccontare il passato non è più di moda: non facciamoci illudere dai facili racconti pseudo-storici che costituiscono la trama di tante produzioni filmiche o serie televisive più o meno romanzate e comunque da non disprezzare.
L’indicazione della Arendt è da prendere molto sul serio. Anche qui un esempio tratto dalla vita quotidiana. Se un certo giorno io chiedessi ad un mio alunno di indicarmi il contenuto della giornata precedente, molto probabilmente egli mi fornirebbe l’elenco delle azioni che ha compiuto (ho fatto questo, poi questo, poi questo ancora). Nel linguaggio dello storico tale operazione si chiama cronologia. Se gli chiedessi di disporre quella giornata sul modello del racconto (qual è il soggetto? Forse l’io in azione? E quale la ragione del suo muoversi nell’ambito di quella giornata?) forse troverebbe un filo di senso, magari potrebbe individuare nell’arco della giornata l’incontro (con un amico, con qualcuno, con un fatto più o meno eclatante) che ha dato alla giornata un senso. Nel linguaggio dello storico questa si chiama ricostruzione storica. In che cosa, dunque, consiste propriamente la ricostruzione storica? Il grande filosofo ed epistemologo
Paul Ricoeur ha indagato sul fatto che la storia (la miriade delle azioni passate) diventa comprensibile, cioè umana, nella misura in cui viene dispiegata tramite la struttura del racconto (Tempo e racconto, La memoria, la storia, l’oblio). E un racconto presuppone un soggetto, delle azioni, delle finalità. Oggi nella storia che domina sulle pagine delle ricerche accademiche e dei manuali è scomparso il racconto ed è scomparso il soggetto. Non c’è l’Europa, non c’è la civiltà, non c’è la nazione. Prevale un generico mondo globale in cui tutto è indistinto. C’è bisogno invece di grandi raccontatori di storia, di storici che recuperino la profonda consonanza tra storia e racconto. Ovviamente, sempre tenendo presente la raccomandazione di Aristotele, che la storia si occupi di fatti realmente accaduti. L’appello di Aristotele ci spinge anche a rispondere alla prima questione nella quale ci siamo imbattuti: come si raggiunge ciò che è veramente accaduto nel passato?
I documenti. La risposta sembrerebbe ovvia: è con i documenti che si cattura il passato. L’analisi dei documenti che ci sono pervenuti ci offrirà una chiara percezione di ciò che si è verificato nel tempo più o meno lontano che ci precede. Ma attenzione, la domanda è: che cosa è “veramente” accaduto? In questo caso i soli documenti non bastano. Lo chiarisco con un ultimo esempio. Siamo nella Russia del 1920 e infuria la guerra polacco-sovietica. Gli eserciti polacco e sovietico si scontrano sulla Vistola e contrariamente alle previsioni i polacchi resistono e i sovietici si ritirano. La Polonia è salva, almeno fino al 1939. Che cosa è “veramente” accaduto? Alcuni storici si limitano ad esporre i fatti, altri riferendosi alla capacità dei polacchi di resistere e all’improvviso desistere dei sovietici parlano di “miracolo sulla Vistola”. Il miracolo sulla Vistola è una espressione che mette in rapporto il puro fatto con l’avvenimento di qualcosa di inaspettato e improvviso che accade, forse dovuto all’amore per la patria dei soldati polacchi, forse alla intelligenza di qualche generale polacco. Dunque, ciò che è “veramente” accaduto è qualcosa di inaspettato che lo storico può cogliere solo mettendo in rapporto il fatto con un orizzonte più ampio della pura e semplice cronaca. Il fatto, “quel” fatto, ha assunto per i contemporanei un significato profondo che lo storico può cogliere solo se si immedesima con questo significato; se il fatto non si può più ripetere, il significato resta però nella memoria e nella coscienza di un popolo, di una comunità: per sempre dunque si potrà parlare di “miracolo sulla Vistola”.
L’avvenimento fortuito è imprevisto, ma non estraneo alla storia, perché rientra nel gioco delle probabilità. È importante la prospettiva del significato dei fatti e c’è bisogno di storici che si mettano a disposizione di questa profondità. In conclusione, la storia si colloca in una posizione mediana tra l’arte e la scienza. Il metodo storico ha una sua particolarità, una sua specificità. Se si negano queste caratteristiche, ci si impedisce di conoscere il passato. E se non si tiene conto di queste caratteristiche non si può insegnare la storia in modo autentico.
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