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martedì 8 aprile 2025

IL DIRITTO ALLA SPERANZA

 


Il cardinale presidente della CEI invia un messaggio al convegno “La speranza cura: quale diritto nella malattia inguaribile?” tenutosi   presso il Complesso Monumentale di Santo Spirito in Sassia, a Roma

 


Vatican News

“Riflettere se ci sia, in questi tempi di cambiamento d’epoca e di guerre palesi e latenti, un diritto alla speranza”. Questo lo spunto alla riflessione offerto dal cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della CEI, ai partecipanti al convegno La speranza cura. Quale diritto nella malattia inguaribile?. L’appuntamento si svolge oggi, 4 aprile, nel Complesso Monumentale di Santo Spirito in Sassia, in occasione dei quindici anni dall’entrata in vigore della legge n. 38 del 2010 sulle cure palliative e la terapia del dolore e nell'ambito del Giubileo degli Ammalati e del Mondo Sanitario. 

L'ombra dell'eutanasia

In un messaggio letto durante i lavori e indirizzato ai relatori - medici, psicologi, avvocati, docenti di Diritto costituzionale – il cardinale parla di una doppia dimensione del diritto alla speranza: “La prima – scrive - nasce dalle relazioni umane, dalla vicinanza, dalla solidarietà, quella per cui nessuno deve mai essere lasciato da solo”. Zuppi cita le parole di un discorso del 2018 di Papa Francesco – quello ai partecipanti al IV Seminario sull’Etica nella gestione della salute: “Stiamo vivendo quasi a livello mondiale una forte tendenza alla legalizzazione dell’eutanasia. Sappiamo che, quando si fa un accompagnamento umano sereno e partecipativo, il paziente cronico grave o il malato in fase terminale percepisce questa sollecitudine. Persino in quelle dure circostanze, se la persona si sente amata, rispettata, accettata, l'ombra negativa dell'eutanasia scompare o diviene quasi inesistente, poiché il valore del suo essere si misura in base alla sua capacità di dare e ricevere amore, e non in base alla sua produttività”.

Ecco, scrive il presidente della Conferenza Episcopale italiana, “questa è vera speranza e a questa tutti hanno diritto. E una terapia umana integrale. Si nutre di relazione e di cura. È lo sguardo della persona malata sulla propria malattia, cui si unisce la prospettiva sia del curante sia della comunità tutta”.

"Non siamo soli nella speranza"

L’altra dimensione del diritto alla speranza, “nasce dalla Croce e dalla Risurrezione di Cristo”, assicura il cardinale Zuppi. “La speranza è un rapporto di cooperazione tra noi, tra ciascuno di noi, e il Signore della Vita. Non siamo soli in questa speranza: questa è virtù teologale perché impregna il nostro agire e il nostro pensare, impregna positivamente la nostra esistenza. Ci allontana dai nostri egoismi impegnandoci nella costruzione di società fraterne. Questa speranza è un diritto che non è sancito da una qualche umana convenzione, o carta valoriale, ma da un impegno già compiuto da parte di Dio”. Da qui un invito conclusivo: “Lasciamoci inserire in questo cammino giubilare di speranza”.

 Vatican News

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giovedì 3 aprile 2025

UNA VOCE FLEBILE E POTENTE

 


Così il Papa

 ci sta semplicemente

 insegnando a vivere


Con la sua voce flebile, ma più potente delle altre,  Francesco è l'unico che "canta un'altra canzone". Che apre un varco in una contemporaneità fatta di ipocrisia e di incapacità di incontrare la sofferenza dell'altro. La minuscola bellezza di un mazzo di fiori gialli sta aprendo un varco nel mondo

di Doriano Zurlo

Viviamo in un mondo di mostri. C’è uno che vuole la Groenlandia, un altro che vuole l’Ucraina, un altro che vuole Taiwan, un altro ancora che, se a Gaza crepano duecento bambini in più o in meno, ma chissenefrega, tanto da grandi sarebbero diventati tutti terroristi, no? 

Poi c’è quella che ha sparato al cane, una vera dura, labbra siliconate, rolex d’oro e nessuna vergogna; si mette in posa davanti all’umanità deportata, reclusa, umiliata, un monito per tutti i disperati del mondo: portate la vostra disperazione altrove, soffrite, morite, non ci interessa. E che dire di quello che ammazza curdi da anni e adesso ha avuto la bella idea di mettere in prigione il suo oppositore politico?

Poi ci sono nazioni dove andiamo tranquillamente a giocare i mondiali di calcio anche se appoggiano terroristi e schiavizzano operai. ci sono i mostri che rivendicano il diritto di dire “ritardato”, “idiota”, “mongoloide”, forse perché in queste parole riconoscono loro stessi.

Sui social dialoghiamo senza ascoltarci

E mostri siamo anche noi, incluso me che scrivo, mostri che vivono incollati ai loro piccoli mondi racchiusi nei device elettronici, zombie incapaci di intendere e di volere, soprattutto incapaci di incontrare il volto dell’altro, quel volto che, per dirla con Levinas, è il luogo dove la totalità, radice di ogni totalitarismo, scompare per lasciare il posto all’infinito, radice di ogni grazia. Ma noi non lo incontriamo più il volto dell’altro, incontriamo il nostro, di volto, ci facciamo i selfie.

Lo sappiamo: siamo mostruosi anche nel modo con cui dialoghiamo sui social, senza ascoltarci, senza cercare la verità, solo cercando la vittoria. Lo facciamo noi, lo fa chi abbiamo eletto, che è pur sempre espressione di noi. 

L’ipocrisia dell’Europa

Anche l’Europa è mostruosa. Sì, mi lascia la libertà di poterlo scrivere senza temere ritorsioni di alcun genere. Questo non è poco e va sempre, sempre riconosciuto. Chi odia l’Europa dovrebbe davvero trasferirsi a vivere sotto Putin, o Erdoğan, o Trump. Ma non c’è dubbio che anche l’Europa sappia essere mostruosa, anche se in modo meno diretto.
Affoga nell’ipocrisia. Difende l’aggredito quando si tratta di Ucraina – ed è sacrosanto – ma a Gaza si volta dall’altra parte, e di migranti poi non ne parliamo. Von Der Leyen e Meloni se la intendono alla grande, su questo fronte. Esternalizzare il problema. Tanto non sono esseri umani, si tratta di carico residuale, come dice quell’altro mostro di Piantedosi. Diamo soldi, tanti soldi. Teneteveli voi quegli straccioni, noi non li vogliamo.

La voce più flebile ma la più potente

Ora, in tutto questo, in mezzo a tutto questo marasma, dentro questa specie di inferno quotidiano che è diventato il nostro mondo contemporaneo – forse è sempre stato così, per carità, ma questo non cambia le cose – c’è una voce particolarmente flebile, addirittura quasi muta ormai, proprio un filo di voce a malapena udibile, che però a me pare la voce più potente, perché è l’unica che possiede un timbro diverso, l’unica che canta un’altra canzone, una canzone per la quale forse ci vogliono orecchie fini, altrimenti si rischia di non farci caso, di sottovalutarla, di annegarla nel chiasso generale, oppure, col cinismo acquisito in anni di “adesso usciamo dal mondo dei sogni e cerchiamo di essere concreti”, potremmo derubricarla, svuotarla, ritenerla sì graziosa e preziosa per un mondo ideale, ma del tutto irrilevante per il mondo reale.

È la voce di Papa Francesco. Lo dico, en passant, ai detrattori che ha all’interno del mondo cattolico, a quelli che lo ritengono troppo modernista: ragazzi, non avete capito niente. Di questo Papa si parlerà a lungo.

I fiori gialli

«Vedo questa signora con i fiori gialli, che brava». Io non so dirvi quanto mi ha colpito questa frase, e quanto mi abbia commosso, anche. La prima frase pronunciata in pubblico dopo un mese e più di silenzio quasi totale al Policlinico Gemelli. Sembra niente. Non parla di Dio, non parla di Gesù. Parla solo di fiori gialli e di una signora. Sembra niente. Eppure. Io credo che questa frase stia lavorando nel cuore di milioni di persone, in modo sommesso, come una melodia, per l’appunto, come un’altra canzone, come la “possibilità” di un’altra canzone. Non impartisce una lezione morale, non prescrive doveri, non sancisce divieti, non afferma una dottrina, non vezzeggia una parte politica, non fa nulla, sembra niente, e tuttavia è profondamente morale. Chi c’è, oggi, tra i potenti del mondo, che parla così? Voglio la Groenlandia! Annienteremo l’Ucraina! Deportiamo i palestinesi!

I fiori gialli. Una minuscola bellezza che si apre un varco nel mondo. Ed è la prima cosa che il Pontefice nota, affacciandosi al balcone. E poi c’è una brava signora, che con quei fiori gialli il mondo lo cambia. 

Il Papa ci insegna uno sguardo. In questa cordialità, in questo a tu per tu – che non è dei potenti, dei potenti è l’a tu per voi – io credo ci sia una lezione che sarebbe da ottusi sottovalutare.

Ma ci sono altre cose. Nel momento peggiore, quando il fiato è ridotto al minimo e il rischio di morire è altissimo, dice al medico che lo cura: «È brutto». Sì, perché morire è brutto, anche per chi ha fede. E mi risulta che anche Gesù non fosse così entusiasta di andare in croce.

Poi le telefonate quasi quotidiane alla parrocchia di Gaza. E il continuo riferimento alla “martoriata” Ucraina. Sempre lo stesso aggettivo: martoriata. Le parole sono importanti. Per questo il Papa non le cambia. Ciò che ad alcuni potrebbe sembrare formale, ha in realtà la forma di un giudizio che non traballa, che non si sposta. La martoriata Ucraina. Chi ha orecchie per intendere, intenda.

Il valore delle parole

Ci sono anche le parole potenti della lettera: «Disarmare le parole, per disarmare le menti e disarmare la Terra». Qui viene colto il punto più profondo del mondo di mostri che abbiamo creato: le parole. Usate come una clava, come immondizia, come oggetto contundente.

E poi c’è la visita al Santuario, prima di rientrare a Santa Marta. Il Papa porta dei fiori alla Madonna. Un atto di devozione che è profondamente religioso, ma anche profondamente umano; un gesto rivolto al genere femminile, alle donne e alle mamme tutte.

Io credo che il Papa, oggi, sia la voce degli invisibili, dei silenziosi, di chi scende in piazza in Palestina contro Hamas, o in Turchia contro Erdoğan, e di chi va per mare a salvare vite e intanto gli spiano il telefono, e di tutte le signore con i fiori gialli. Con la sua voce flebilissima, con le sue parole semplici e con gesti misurati, delicati, raccolti, credo che il Papa ci stia semplicemente insegnando a vivere.

 

VITA


 

martedì 18 marzo 2025

MALATTIA e FRAGILITA'



 
La lettera di Papa Francesco al Corriere:

 «La malattia e la fragilità rendono più lucidi. 

Serve responsabilità, disarmiamo la Terra»


Caro Direttore,

desidero ringraziarla per le parole di vicinanza con cui ha inteso farsi presente in questo momento di malattia nel quale, come ho avuto modo di dire, la guerra appare ancora più assurda. La fragilità umana, infatti, ha il potere di renderci più lucidi rispetto a ciò che dura e a ciò che passa, a ciò che fa vivere e a ciò che uccide. 

Forse per questo tendiamo così spesso a negare i limiti e a sfuggire le persone fragili e ferite: hanno il potere di mettere in discussione la direzione che abbiamo scelto, come singoli e come comunità.

Vorrei incoraggiare lei e tutti coloro che dedicano lavoro e intelligenza a informare, attraverso strumenti di comunicazione che ormai uniscono il nostro mondo in tempo reale: sentite tutta l’importanza delle parole. Non sono mai soltanto parole: sono fatti che costruiscono gli ambienti umani. Possono collegare o dividere, servire la verità o servirsene. Dobbiamo disarmare le parole, per disarmare le menti e disarmare la Terra. C’è un grande bisogno di riflessione, di pacatezza, di senso della complessità.


Mentre la guerra non fa che devastare le comunità e l’ambiente, senza offrire soluzioni ai conflitti, la diplomazia e le organizzazioni internazionali hanno bisogno di nuova linfa e credibilità. Le religioni, inoltre, possono attingere alle spiritualità dei popoli per riaccendere il desiderio della fratellanza e della giustizia, la speranza della pace.


Tutto questo chiede impegno, lavoro, silenzio, parole.

Sentiamoci uniti in questo sforzo, che la Grazia celeste non cesserà di ispirare e accompagnare.

Francesco


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sabato 1 marzo 2025

IL MAGISTERO DEL PAPA




Il magistero 

e

 il corpo del Papa 

 



- di Massimo Recalcati 

 

Il pontificato di Papa Francesco ha segnato, sin dalla scelta del suo nome, una profonda rottura nel linguaggio codificato della Chiesa. La sua voce non è mai stata quella di un sovrano che guida con mano ferma il suo popolo o che difende con perizia teologica l’autorità incontrovertibile dei dogmi, ma quella di un pastore che si sporca le mani, che si piega sulle miserie umane senza mai impugnare il bastone inumano della condanna. 

Francesco non è il papa della Legge e del suo timore, ma quello della Grazia e della salvezza immeritata che essa rende possibile. Per queste ragioni, nel suo pontificato, la parola chiave è la parola “misericordia”. E’ il messaggio più radicale di Gesù che, citando il profeta Osea, afferma: “misericordia io voglio, non sacrifici” (Mt, 9,13). 

Non si tratta ovviamente di una semplice esortazione morale, ma di un taglio sovversivo nel tessuto simbolico della Legge. Il perdono e l’amore, ai quali la figura della misericordia rinvia, rompono drasticamente con il carattere solo vendicativo e ritorsivo della Legge per aprire lo spazio inaudito di una nuova possibilità. 

Il peccatore

Il peccato, in questa prospettiva, non è una macchia indelebile, ma una condizione umana che può essere attraversata, compresa e pienamente accolta. È il peccato di Pietro che rinnega, di Tommaso che dubita, di Saul che perseguita. E’ il peccato che può essere sempre convertito in un nuovo inizio. E’ l’acqua putrida che nelle nozze di Cana diviene vino sublime. 

E’ il paralitico che si rialza dopo che per anni la sua vita era rimasta bloccata senza speranza. In questo senso la Legge di cui Francesco è testimone non coincide mai con l’applicazione normativa dei suoi precetti, ma, per dirla con Levinas, essa si incarna nel volto dell’Altro, nell’appello incondizionato alla fratellanza che questo volto porta con sé. 

Il Dio di Francesco non è il giudice implacabile che incute paura, né l’impersonalità metafisica di una Legge senza cuore, ma il padre che “fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i giusti” (Mt, 5,45). In questo senso la misericordia è il resto irriducibile della Legge, il suo “seme santo”, come direbbe Isaia, ovvero ciò che sfugge alla logica del calcolo e del merito, ciò che eccede il meccanismo legalistico della retribuzione simmetrica. 

Come insegna la parabola evangelica del buon samaritano la fede non è l’adesione ad un dogma, ma la cura della ferita. E’ l’immagine della Chiesa come “ospedale da campo” proposta da Francesco. Ma è anche l’immagine di questi giorni del suo stesso corpo malato, costantemente in bilico tra la vita e la morte. Nondimeno, è anche il suo stile di parola, il suo modo obliquo e zoppicante di muoversi nello spazio, la sua gestualità fraterna, il suo senso gioioso dell’umorismo. 

Il fraterno abbraccio

Francesco è un Papa che sa toccare, abbracciare, sorridere, mostrare senza riserve la sua fragilità. E’, evangelicamente, il piccolo che diviene grande non contro il piccolo ma proprio in quanto piccolo, come accade al granello di senape evocato da Gesù che genera un albero rigoglioso sul quale anche gli uccelli si possono posare. Allora anche il suo stesso corpo malato che vediamo in questi giorni al centro dei riflettori si è fatto teatro della prossimità e della vicinanza. 

Se il potere della Chiesa ha sempre avuto la tentazione di recintarsi dietro le mura della separazione, lui ha scelto sin dall’inizio del suo pontificato di abbattere quelle mura. È questo che ha reso Francesco una figura tanto amata quanto controversa. Perché la misericordia, quando si fa testimonianza attiva, mette innanzitutto in crisi la struttura asettica del potere. 

Chi invoca la purezza della dottrina, chi difende la rigidità delle regole senza avere comprensione del senso profondo della Legge, chi vorrebbe una Chiesa fondata sulla rigida distinzione tra i giusti e gli ingiusti, non può che percepire questo Papa come una vera e propria perturbazione. Non è il pontefice che rassicura, ma quello che interroga, non è il guardiano dell’ortodossia ma l’apertura del dialogo, non è colui che incentiva politiche di esclusione ma colui che ha fatto dell’inclusione un programma politico, non è il custode della natura infallibile della Legge ma la sua incarnazione testimoniale. 

Nel Vangelo, Gesù si china sui peccatori, mangia e beve con i pubblicani, guarisce nel giorno di sabato, scandalizza i benpensanti, frequenta le prostitute, sta con i poveri e i diseredati. La sua esistenza è ek-statica, dinamica, impossibile da ricondurre alla statica senza vita della dogmatica religiosa. Gesù è uno sconfinamento continuo, un’eccedenza, un desiderio che non teme ma ama lo splendore e l’atrocità della vita. È la stessa ek-stasi – la stessa eccedenza - che ritroviamo in Francesco

La misericordia

Non è mai l’obbedienza ai precetti della Legge a salvare la nostra vita ma il riconoscimento che nello straniero e nel nemico – ovvero nell’Altro che non è mai a nostra disposizione – risiede sempre un fratello. In un tempo in cui il discorso religioso rischia di trasformarsi in un delirio identitario, in cui la fede si irrigidisce in ideologia seminando morte, guerra e distruzione, il Papa della misericordia ricorda che il cuore del cristianesimo non è la difesa di una fortezza vuota, ma il movimento estatico dell’uscita da se stessi, della vertigine dell’incontro, dell’impatto duro con l’alterità dell’Altro. È questo il vero scandalo: un Papa che rigetta l’abito del giudice impietoso per indossare le vesti del nostro prossimo, di chi ci è veramente accanto.

 Alzogliocchiversoilcielo

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AL DI LA' DEL SELFISMO


AL CUORE

 DELLA 

SAPIENZA


-         di Rosanna Virgili

-          

In tempi di sbandamento diffuso, c’è una materia prima di cui si avverte acutamente il bisogno e che però proprio quando necessiterebbe disporne ci si mostra come una risorsa a lungo trascurata. Mentre abbondano la violenza praticata ed esibita, il disprezzo per il senso comune, l’indifferenza persino vantata verso lo spirito comunitario e il dialogo civile a vantaggio dell’affermazione di sé e del proprio interesse, affiora prepotente un’arsura che ci divora quanto più sconcertante si fa la realtà: non di una risposta pronta e polemicamente all’altezza della provocazione abbiamo sete, ma di sapienza.

Sapienza

Parolona persino pretenziosa – ci accontenteremmo di molto meno... –, tanto in là ci siamo inavvertitamente spinti sotto l’incalzare dello spirito contrappositivo che avvelena il confronto pubblico, con l’aggiunta degli eccessi verbali e simbolici imposti da una retorica muscolare. Colpa di chi? Non interessa qui fare il processo dei colpevoli di questa caligine che si è stesa sul confronto con quel che ci accade attorno, ognuno potrebbe proporre un suo valido elenco di imputati. Il problema semmai è allo specchio: dov’è finita la nostra capacità di giudizio critico e libero davanti alle cose, se anche noi ci lasciamo trascinare dal mercato al ribasso delle idee, come se tutto finisse lì, nella mischia dei consumi e delle liti? Ci vuole un pensiero, certo, e su queste pagine cerchiamo di proporlo a cadenza quotidiana. Ma serve soprattutto chi ci spinga a tornare nel profondo del nostro sentire, giudicare e anche credere, fino alle sorgenti del pensiero e della parola, là dove sgorga ancora un rivolo di sapienza. A evocarci questa necessità è la nostra radice biblica – si abbia fede o meno –, e forse è proprio un certo analfabetismo scritturistico a renderci poco familiare la frequentazione con la sapienza, come fosse un’estranea, ormai.

A sapere chi è e dove ci attende ora è proprio “una di casa”: ce lo ricorda, con la sua prosa colta e amichevole, Rosanna Virgili, che su questo giornale per mesi ha tenuto una sua “cattedra della sapienza”, in due tappe: dapprima con una serie in sei puntate sul “Corpo e la Parola” nell’estate 2023, e poi, riprendendo il filo di quella riflessione sull’autoesaltazione umana e la consapevolezza del limite che proprio nel corpo trova la sua evidenza, attraverso una nuova successione (domenicale, come la precedente) di ben dodici “lezioni” dal luglio all’ottobre 2024 e la scelta di un tema ( Al cuore della sapienza) che oggi va a dare il titolo raccolta completa di tutti e diciotto i saggi brevi firmati dalla biblista e teologa marchigiana, apprezzatissima editorialista del nostro quotidiano, tra le voci più autentiche e coinvolgenti dell’esegesi e del pensiero credente al cospetto della contemporaneità, con tutto il suo groviglio di bellezze commoventi e di spaventosi disastri. Edita da Vita & Pensiero nella collana “Pagine prime” realizzata insieme ad Avvenire (pagine 124, euro 13,00), quest’opera non è semplicemente la collazione degli articoli pubblicati – e già questo avrebbe il suo merito, potendone cogliere in uno sguardo l’ambizione di pensiero – perché una lettura sequenziale ce la presenta come fosse in un veste tutta nuova. Se i singoli articoli coglievano infatti al volo – nello stile colloquiale e realistico di Virgili – spunti dal clima e dalla cronaca dei giorni in cui erano nati, la loro lettura collettiva adesso ci offre proprio ciò di cui abbiamo lamentato la mancanza, e prima ancora la coscienza improvvisa: che è di sapienza oggi che abbiamo disperato bisogno. Potremmo fermarci qui, e ne avremmo a sufficienza per ringraziare la biblista che ci incoraggia a dipanare la matassa del pensiero riportandoci alla “intelligenza della vita” come a un luogo dove tutto ritrova un senso. Ma c’è molto di più in questo succedersi di originali riflessioni che si leggono col piacere di un editoriale ricco di citazioni e di “sguardi in macchina”, a cogliere ogni volta una sintonia di emozioni col lettore. Intrecciando la Scrittura e le contraddizioni del nostro mondo, la Parola che resta e quelle che volano, Virgili ci parla anzitutto «dell’umano nelle sue forme e posture fisiche e affettive» a partire dall’«inestricabile intreccio tra fango e soffio, tra carne e anima». È solo qui che possiamo cogliere davvero la dimensione della nostra realtà creaturale, che «esalta l’umano fatto a immagine e somiglianza di Dio» ma allo stesso tempo deve fare i conti con l’invincibile vulnerabilità della nostra natura che ci «chiede inevitabilmente conto della sua debolezza legata proprio al suo essere corpo, vale a dire esposto – a differenza di Dio – anche alla malattia, alla decadenza e allo sfiguramento».

La debolezza della malattia

Limite quasi intollerabile, quanto più l’umanità avanza nello sviluppo dell’intelletto e della padronanza delle forze del mondo: l’essere umano «può mettere a frutto l’eredità di quella conoscenza che ha portato con sé uscendo dall’Eden e usarla per sfidare la morte». Tutti i saperi umani sono messi così al servizio della battaglia contro la finitezza: «Il desiderio di vincere la morte – nota Rosanna Virgili – si scontra sempre con i limiti del corpo», con una insofferenza che induce a esaltare la biologia, quasi fosse solo lì il campo di battaglia per spuntarla sulla fine già segnata, e insieme a «vincere i limiti» della corporeità «sperimentando con curiosa avidità nuovi ambienti vitali, quelli dell’inforsfera e del metaverso; producendo delle esperienze di vita virtuale, alleggerite dal “peso” del corpo», fino al tentativo di «sostituire ai nostri coralla pi quelli dei robot che, muniti di una memoria e di un’intelligenza artificiali, potrebbero superare in larga parte quelle impotenze tipicamente umane». Questo naturale «desiderio di superare i limiti del corpo» è accolto e sublimato in chiave soprannaturale dai sacramenti, che Virgili propone come risposta definitiva a una umanità che «azzera la trascendenza con gli occhi ciechi di chi non vede oltre la superficie delle cose. E del corpo». Indizi di sapienza, che si rinvengono lungo le “lezioni” della biblista anche considerando altre forme di riappropriazione dell’umano salvato dalla sua pretesa di “essere tutto” (grottesca finzione che va in scena in molteplici forme nella cronaca quotidiana): dalla riconquista della bellezza («sbocciata dall’incontro di due sguardi, sembra essere la gestante, la conchiglia del corpo») alla riscoperta dell’altro («senza mettersi in relazione l’identità muore di smarrimento»), e poi la libertà, la dignità femminile, la carne talmente poco “finita” 

Lo sguardo cristiano

Lo sguardo cristiano, nutrito dalla radice biblica, torna con il suo potenziale di scuotere la persuasione che non ci sia nulla oltre la volontà umana di potere e di conoscenza. Ed è qui che il navigatore indica la strada della sapienza, invisibile finché eravamo ostaggio dell’apparenza. Il salto di un anno da una serie di articoli all’altra è chiuso dal libro con il semplice volgere di una pagina oltre la quale si va, una meditazione dopo l’altra, verso il “cuore” della sapienza, «un affaccio – così lo definisce Virgili – su una dimensione del tutto preminente dell’umano biblico che è l’esercizio dell’intelligenza e della scienza, l’educazione alla conoscenza e alla sapienza», autentica «peculiarità umana» che ci rende più “persone” (e meno esecutori di algoritmi). Nel viaggio l’esegeta ci porta dentro «testi biblici dove viene indicata la Via della Sapienza, maestra di tutte le arti e di ogni creatività, a cominciare da quella politica».

È con la sua stessa Sapienza che il Creatore conferisce la dimensione umana di ogni realtà costituendo un luogo nel quale possiamo abitare in armonia tra noi e il mondo. Nell’incessante operare di Dio «vengono stabiliti i confini di tutte le creature» e «si rivela la ragione e il fine delle stesse: «La Sapienza personificata – nota Rosanna Virgili – è maestra di scienza e di tecnica, di vita e di futuro, di giustizia e di fraternità, nella costruzione della “città” terrena ». Dentro il frastuono del «selfismo solitario, predicato dell’“io”, del “mio”, del “tutto e solo per me”, del “mi voglio bene”, del “per realizzarmi” », c’è una voce che ci richiama a tornare in noi stessi smettendo di «sconfinare da sé per togliere anche a Dio la sua distanza »: se la udiamo bene, ci sta domandando «“volete andarvene anche voi?”. Se non altro perché non si intravede una “casa” migliore – conclude la nostra biblista –, conviene, come Pietro, provare a restare». Ed è proprio qui che la sapienza, forse, ci stava aspettando.

 

www.avvenire.it


 

 

mercoledì 7 febbraio 2024

LA SOFFERENZA DIVENTA BELLEZZA E POESIA


La sofferenza  
che sa diventare

 bellezza e poesia. 


Messaggio toccante e potente, 

 quello del Maestro Allevi



“L’emozione è il linguaggio attraverso cui si comunica con sincerità, mettendosi a nudo, senza timore di mostrarsi fragili e indifesi, perché la fragilità è la nostra forza, in un mondo trascinato dalla ragione verso la competizione estrema......"..

“Posso sbagliare, commettere errori, anche per ingenuità, leggerezza. Allora, prendo tutto me stesso e mi abbandono all'universale fluire delle cose, perché in fondo sono solo un minuscolo granello dell'universo.”

"La visione proposta oggi dal cristianesimo è assolutamente dirompente. L’attuale cultura dominante è infatti centrata sul nichilismo, per cui il nostro valore e la nostra identità dipendono esclusivamente da un giudizio e un riscontro esterno. Tutto il mondo dei social e dei talent show è fondamentalmente nichilista: contano il numero dei like e dei follower. Ecco allora sopraggiungere un’ansia diffusa, soprattutto tra i giovani: un disagio nuovo che i nostri genitori non conoscevano. Il risultato del nichilismo è un perenne senso di inadeguatezza, di esclusione dal mondo, di proiezione verso l’esterno nell’urgenza di dimostrare sempre di più. Il cristianesimo propone una visione opposta e ci dice: io posseggo un’identità, un valore, una scintilla interiore, indipendentemente da qualunque riscontro esterno, indipendentemente dal mio aspetto, dai risultati che ho ottenuto, dai giudizi e dalla stima che ricevo. I filosofi direbbero uno statuto ontologico, un senso delle cose. Tutte le più grandi personalità dell’arte, della ricerca scientifica, del pensiero, non si sono mai curate del riscontro esterno; hanno inseguito le proprie visioni anche a costo di andare incontro all’incomprensione"»…….

«Quando ero ragazzo, durante una confessione feci amicizia con un giovane parroco che era poco più grande di me: don Mauro. Lui insegnava Teologia, mentre io studiavo Filosofia all’università. Io mi avvicinavo all’ateismo, non credevo in niente, e nelle nostre discussioni sempre più frequenti, cercavo di metterlo in difficoltà con le parole, mentre lui, con pazienza e dolcezza, dimostrava una fede incrollabile. Per molto tempo andammo avanti con questo tipo di dinamica conflittuale, dove io sfogavo il mio male di vivere, il mio tormento. Lui era un parroco di periferia; pur essendo coltissimo, era vicino alla gente, ai ragazzi, e aveva trasformato la sua vita in una missione. Un giorno, all’improvviso, il mio unico amico don Mauro morì in un incidente stradale. È stata la mia prima esperienza di una perdita. Dopo il dolore vuoto, insopportabile, che ho attraversato, è accaduto in me qualcosa che non avrei mai immaginato: ho raccolto il suo testimone. 

Anche io avrei fatto della mia vita una missione, anche io avrei avuto fede in una scintilla divina che alloggia in fondo al cuore di ogni persona, anche io non avrei ceduto alla tentazione di una visione nichilista della vita. Ora posso affermare di credere, ed è proprio la filosofia a darmi la forza intellettuale di abbandonare ogni certezza e aprirmi al mistero. Nonostante le difficoltà e la sofferenza che tutti siamo portati ad affrontare, l’infinito e la meraviglia si nascondono tra le pieghe dell’esistenza»  (gennaio 2021).

“Ho perso molto. Ho perso il mio lavoro, i miei capelli, le mie certezze, ma non la speranza…. Quando non c'è più certezza del futuro, bisogna vivere più intensamente il presente. È come se avessi strappato alla mia fine una manciata di anni e voglio viverli più intensamente possibile…...I numeri non contano, perché ognuno di noi, ognuno di voi, ogni individuo è unico, irripetibile e, a suo modo, infinito…. Non potendo più contare sul mio corpo suonerò con tutta l'anima”(7.2.2024).